giovedì 27 febbraio 2020

Vaticano nega accesso a ricercatore


Il Vaticano nel 2019 ha negato ad un laureando la possibilità di compiere studi sugli impiegati postali dello Stato governato dal Pontefice. Il motivo del rifiuto resta oscuro. Lo ha scritto alla nostra e-mail un professore universitario, che chiede di rimanere anonimo. Secondo il nostro lettore sarebbe un comportamento coerente con quanto denunciato dai giornalisti Nuzzi e Fittipaldi. Queste le dichiarazioni rilasciate dal professore: "Un mio laureando era interessato a comparare il sistema di lavoro e disciplinare postale italiano con quello d'altro Paese. In maniera anche piuttosto brusca nonché evasiva e dissimulatoria è stato risposto negativamente da un capo ufficio innominato, laddove, come detto, il rinvio al sito è pretestuoso, non v'è alcuna informazione sul rapporto di lavoro dei dipendenti di Poste vaticane, bensì solo informazioni di vendita filatelica." Ci ha inviato il documento originale del Governatorato, che pubblichiamo censurando per la privacy solo i dati anagrafici.
Qualora il Vaticano volesse rispondere pubblicheremmo anche la loro replica.


lunedì 10 febbraio 2020

L'ex Jugoslavia complice delle Brigate Rosse


Un'unica strategia lega l’omicidio di Lando Conti al sequestro Dozier, all'attentato ad Heidelberg a una base Nato, all'assassinio di Leamon Hunt a Roma nell' 84, ad altre azioni compiute in Francia e in Germania. “Ci dice che si è creata una pericolosa saldatura organica tra i vari gruppi armati e i gruppi intransigenti mediorientali che fanno capo ad Abu Nidal.”
Con queste parole Giuseppe D’Avanzo descriveva su Repubblica, il 10 settembre del 1989, il terrorismo internazionale delle Brigate Rosse. “Le BR come la RAF”, era il titolo dell’articolo, molto chiaro sui mandanti di questi assassini, ma anche sulle complicità di paesi “non allineati” quali la ex Jugoslavia o la Libia.
Facciamo un passo indietro. E’ la sera del 15 febbraio 1984. Siamo all’Eur, quartiere residenziale di Roma. In via Sudafrica alloggia un diplomatico americano, Leamon Hunt. Da alcuni anni ha assunto un ruolo politico di primo piano, deve vigilare sull’applicazione del trattato di Camp David tra Egitto, Israele e Stati Uniti. Il suo quartier generale è in via Shakespeare. Per tornare a casa dalla sua famiglia deve percorrere poche centinaia di metri. Nella quiete dell’Eur, tra il verde che circonda le ville dei romani, Hunt arriva davanti al cancello di casa con la sua Alfa 6 guidata dall’autista. Giuseppe Zaccaria, giornalista del quotidiano La Stampa, parla di due uomini dai tratti mediorientali che lo seguivano con una vecchia Fiat 128. Tutto dura pochi secondi. I due killer scendono e sparano. Ma l’auto è blindata. Urlano ‘abbassati’ all’autista. Poi appoggiano la canna dell’arma al lunotto posteriore e riescono a sfondarlo. Hunt viene colpito alla nuca. Morirà durante il trasporto all’ospedale. L’autista intanto ha innestato la retromarcia e si è schiantato contro la 128. Ne è uscito un terzo killer che è fuggito a piedi, insieme ai due ‘mediorientali’, verso la Cristoforo Colombo, una grande arteria che conduce fuori dalla Capitale. L’attentato verrà rivendicato dal ‘Partito Comunista Combattente’: le Brigate Rosse. E’ sempre il pezzo di Giuseppe Zaccaria della Stampa a raccontarci questi dettagli. “Dobbiamo rivendicare l’attentato al generale Hunt - dice una voce maschile con una telefonata - garante degli accordi di Camp David. Via le forze imperialiste dal Libano, fuori l’Italia dalla Nato, no ai missili di Comiso.”
Gli inquirenti restano spiazzati. Le Brigate Rosse non si erano mai schierate così apertamente in favore di forze estranee alla politica italiana. Passerà alla storia come un delitto inedito, senza dei veri responsabili. Oggi grazie a internet possiamo avvicinarci alla verità. E’ molto probabile che vi fosse un legame tra i brigatisti e un gruppo arabo noto come Frazione Armata Rivoluzionaria Libanese. Uno dei colpevoli sembra che fosse stato riconosciuto. Un cablogramma top secret partito dalla Segreteria di Stato americana alle 22:58 del 7 febbraio 1985 affermava che l’autista di Hunt aveva riconosciuto uno dei killer in Mohamad Fahs. “Gli inquirenti italiani potrebbero dedurre che le Brigate Rosse abbiano assoldato Fahs per uccidere Hunt. Sebbene non vi siano elementi per smentire la notizia, non siamo in possesso nemmeno di prove per confermarla.” Così si esprimeva Washington rivolgendosi agli ambasciatori europei.
Nei giorni successivi all’attentato vi fu un accavallarsi di rivendicazioni. Sia Bruno Seghetti delle Brigate Rosse, sia i libanesi si assunsero la responsabilità dell’insano gesto politico. Ma non accadde ciò che si attendeva la Casa Bianca. Stando a quanto ci racconta un articolo di Daniele Mastrogiacomo, comparso su Repubblica il 18 ottobre del 1985, Mohamed Fahs fu condannato in quel periodo a due anni di reclusione. Ma non per il delitto Hunt. Avrebbe cercato di costituire una banda armata insieme ad altri esponenti del movimento rivoluzionario libanese. Fu invece assolto per insufficienza di prove dalle accuse di aver tentato di organizzare una strage, peraltro mai compiuta, contro l’ambasciata statunitense. Era in carcere da un anno perché si sospettava fosse il destinatario di alcuni esplosivi rinvenuti a Zurigo. Nessun cenno al delitto Hunt.
Soltanto due mesi dopo, altri terroristi stroncavano sedici vite nella famosa strage di Fiumicino. “Il commando palestinese arrivò a Roma da Damasco - spiegava ancora Giuseppe D’Avanzo su Repubblica - attraverso Belgrado e trovò in Italia armi e apporto logistico.” Un commando facente capo ad Abu Nidal, agendo indisturbato, prese di mira i passeggeri in fila al check in della compagnia israeliana El Al. Fu una carneficina. Era il 27 dicembre 1985.

giovedì 6 febbraio 2020

Sparatorie contro i fantasmi del passato


Misteriose sparatorie, terroristi, disgrazie, strani omicidi. Questo è quanto accomuna le numerose basi missilistiche che la NATO nascose nel 1960, secondo quanto riporta il dossier 328 dell’archivio di Praga, all’interno di bellissime e insospettabili montagne italiane.
Luoghi sconosciuti, dicevamo, e lo possiamo confermare dopo una sommaria ricerca nell’archivio dei quotidiani, fatta eccezione per Aviano in Friuli Venezia Giulia e Salto di Quirra in Sardegna, che sono le uniche zone militari su cui il cittadino sia stato, nel corso della guerra fredda, adeguatamente informato dai mezzi di stampa. Si può affermare che Aviano non abbia mai avuto grossi segreti nemmeno per i sovietici, visto che nell’ampio dossier che ci è stato inviato da Praga esiste una cartella con le fotografie, scattate nel 1970 probabilmente su un vecchissimo computer, delle schermate contenenti i numeri di telefono interni, e gli uffici, di tutti i militari italiani ed americani della base. Ci sembrerebbe una scortesia se sovietici e statunitensi non si fossero mai scambiati almeno un colpo di telefono e un saluto in tutti questi anni!
Avevamo parlato ampiamente del caso Rinaldi, la spia piemontese arrestata nel 1967 perché sorpresa mentre scambiava con i russi informazioni riservatissime proprio su Aviano e sulle basi spagnole della NATO, o per meglio dire degli americani. Ora spenderemo due parole anche su Salto di Quirra. Due soltanto, perché dell’intensa attività di collaudo di missili nella splendida terra sarda parlano ampiamente le immagini di Youtube, e poi le polemiche, finite negli uffici della procura, per il sospetto che l’intero territorio militare sia stato contaminato dalle radiazioni. Esistono articoli di giornale fin dai primi anni Sessanta su Salto di Quirra. Nel novembre del 1963 l’onorevole comunista Pajetta apprese da un giornale tedesco e denunciò in Parlamento la presenza di almeno duemila militari dell’ex Germania Ovest a Salto di Quirra. Non si trattava di turisti alla scoperta di nuovi luoghi per la tintarella estiva, bensì di guerriglieri impegnati in misteriose esercitazioni, sdegnosamente negate dal democristiano Andreotti, ma, sfortunatamente per lui, fondate e provate dai documenti dell’archivio di Praga.
Non torneremo sul Monte Conero, né sul caso Archia, e proveremo a fare una carrellata di episodi singolari accaduti negli altri poligoni della NATO, forse i primi ad essere costruiti rispetto a tanti altri, segnalati a Praga fin dal 1960 dal mitico “comandante Matricardi”.
Lunedì 10 aprile 1967, il cadavere di un giovane pastore, carbonizzato e reso quindi irriconoscibile, viene rinvenuto da dei ragazzi nel fitto bosco della Foresta Umbra, vicino Vieste, sul Gargano. Era stato ucciso a fucilate alla testa. Fu un regolamento di conti, come si direbbe ora? O qualcuno si era avvicinato incautamente a qualche rampa di Jupiter? Perché c’è da aggiungere un particolare. Il comandante Matricardi scriveva, apparentemente riferendosi alle basi del nord-est, che le zone attrezzate con rampe per missili Jupiter e Nike-Hercules erano pattugliate da carabinieri e da polizia militare. Gli ordini erano perentori: fermare tutti coloro che si fossero avvicinati alla base e non rilasciarli prima di aver accertato il motivo per cui si trovavano da quelle parti. Il che detto per un turista che se ne andasse a spasso per Pratica di Mare sarebbe un conto. Ma accusare di violazione del segreto militare un villeggiante del Gargano o dello Stelvio è cosa ben diversa, diamine! E non mi si venga a dire che negli anni Sessanta il turismo di massa non era ancora decollato.
Venerdì 29 dicembre 1961. La casermetta della Guardia di Finanza di Riva di Tures “viene attaccata per la seconda volta da sconosciuti” - scrive il quotidiano La Stampa il giorno successivo - i quali sparano una trentina di colpi e si dileguano. Un’azione ‘terroristica’ la chiama il giornale, avvenuta a 1700 metri di altezza, in una zona di alta montagna, adatta a degli scalatori, anche se vicina al confine italo-austriaco. Un duro conflitto a fuoco, con i militari che si gettano subito sulle tracce dei malviventi, poi più nulla. Era avvenuto più o meno quanto preannunciava Matricardi, se non fosse che nessuno ha mai parlato di basi per missili in quella zona.
Sabato 3 agosto 1991. “Numerosi colpi di arma da fuoco” vengono sparati contro un’Alfa 75 dei carabinieri. Lo scrive sempre La Stampa in un trafiletto che spiega. “Secondo i primi accertamenti i colpi sono stati sparati da persone nascoste in un bosco che fiancheggia la strada provinciale che collega Matera a Montescaglioso.” Gli investigatori sospettano una vendetta della malavita locale, a causa dei controlli che facevano seguito ai numerosi omicidi avvenuti in quel paesino della Basilicata. Ma se così fosse anche la zona missilistica di Montecorvino Rovella, nel salernitano, dopo l’utilizzo militare, potrebbe essere diventata territorio della mafia o della camorra. Nei giornali anche questa località citata nel rapporto-Matricardi è conosciuta per fatti di criminalità organizzata. Montecorvino Rovella divenne famosa più di recente per la presenza di una sgraditissima discarica, mentre il cadavere di Sergio Castellari, direttore generale dell’ex Ministero delle Partecipazioni Statali, fu rinvenuto nel 1993 vicino Roma, ma in una frazione chiamata proprio Monte Corvino. Se fu omicidio, come tanti hanno sostenuto, il luogo scelto era un messaggio in codice per qualcuno che doveva ricevere un macabro avvertimento?
Mercoledì 15 luglio 1970. Un soldato del reggimento di stanza a Palmanova muore ferito da un colpo di mortaio. Un suo commilitone resta ferito gravemente. La disgrazia secondo un lancio dell’Ansa avviene anche qui in alta quota, a 1100 metri durante un’esercitazione sul Monte Ciaurlec. Il militare deceduto si chiama Luigi Martino. Aveva solo 21 anni e proveniva dal catanzarese.
Sabato 30 settembre 1967. Nello stesso giorno di un attacco dei terroristi ‘nazisti’ - come il definisce La Stampa - che hanno ucciso con una bomba due agenti a Trento, avviene un attacco terroristico in Val Venosta a Prato allo Stelvio. Poco dopo le 22 un commando attacca la caserma dei carabinieri sparando contro l’edificio con armi automatiche. Ne nasce un conflitto a fuoco che dura mezzora, poi anche in questo caso i terroristi si dileguano. Fu davvero opera del BAS, il famoso gruppo terroristico dell’Alto Adige?
Domenica 2 ottobre 1983, ore 15:30. In una località della Val di Susa chiamata Riposa, a 2100 metri di altezza, alle pendici del Rocciamelone muoiono quattro escursionisti travolti da una vecchia casermetta militare. Secondo il pezzo della Stampa si tratta di Luisa Steffenino 30 anni, Mario Demaria 44 anni, Renzo Fornaca di 32 anni e la fidanzata Francesca Ravera di 25 anni. Gli alpinisti coinvolti sono in tutto cinque, uno resta soltanto ferito e narra l’accaduto ai soccorritori. Si chiama Giancarlo Novello, 30 anni nel 1983, marito della deceduta Steffenino. Si erano fermati sul tetto della casermetta, quando il soffitto, che era stato riutilizzato per una teleferica, sprofondò trascinandoli con sé “nel cunicolo sottostante”. Ne nasce un processo. Vengono accusati dei generali dell’esercito, in quanto si accertano tutti i passaggi di proprietà della casermetta, e le relative responsabilità. Non è però colpa di nessuno, a quanto pare. Un articolo del 1992 che troviamo nell’archivio della Stampa ci avvisa che vennero tutti assolti.
Nessuno ricordava più le rampe di Jupiter segnalate dal comandante Matricardi. C’è però da aggiungere ancora un dettaglio di quel rapporto. Le basi missilistiche comprendevano certamente due zone, una parte più alta riservata al comando militare e una di lancio dei missili, distante un chilometro circa. Solo in quattro località del nord-est vi erano cunicoli sotterranei 'attrezzatissimi' per custodire i missili a testata nucleare: a Cividale del Friuli, Prato di Resia, Aviano, Corvara Pedraces. Questo almeno nell’agosto del 1960, ma nel documento veniva segnalato che in quel momento erano “in costruzione anche nelle altre basi installazioni sotterranee”.
Lunedì 5 marzo 1990. Nei boschi di Prato di Resia è in corso un violento incendio. L'ottantaduenne Luigi Di Leonardo sale dal paese fino alla baita "per tagliare un po' di legna e ripulire il prato circostante" - scrive La Stampa. L'uomo accende un fuoco ignorando il pericolo incombente. C'è vento e le fiamme dei due roghi si uniscono, uccidendolo, nonostante con la pompa d'acqua tenti di "difendersi".


domenica 2 febbraio 2020

Conero, erano pronte 50 rampe di Jupiter


Nel 1960 erano pronte, sul Monte Conero, 50 rampe di missili Jupiter, mentre altre 60 erano in costruzione e sarebbero state ultimate entro fine d’anno.
Non ci potranno più smentire, niente più leggende metropolitane o programmi sugli alieni. Il Conero era, e in parte per quel che sappiamo è tuttora, una zona attrezzata per la guerra nucleare. Missili e testate atomiche trovarono caverne “ben attrezzate” proprio dentro quel monte che nella propaganda politica marchigiana sarebbe un paradiso faunistico, protetto dalle leggi sui parchi naturali. Forse fuori lo è, ma dentro? Aveva ragione il collega Alfredo Mattei del Resto del Carlino a definirlo un formaggio “groviera”.
Dettagli tecnici sui missili presenti nel Conero li abbiamo trovati nel dossier numero 328 dell’STB cecoslovacco, che è accessibile a tutti all’archivio dei servizi segreti di Praga. Furono scritti in italiano all’interno di una relazione sulle Basi NATO nazionali redatta il 20 agosto del 1960 da Vittorio Matricardi, probabilmente un comandante della Marina Militare residente a Reggio Emilia, che aveva scelto di cedere ai paesi socialisti dell’est i nostri segreti militari. E che segreti! Ancora oggi le basi che lui citò nel documento sono sconosciute. La storia ufficiale è infatti un'altra. Parla di missili Jupiter piazzati dagli americani tra Puglia e Basilicata nel 1960, come minaccia verso le nazioni del Patto di Varsavia. La crisi si sarebbe risolta due anni più tardi, allorché l’URSS rinunciò a installare basi missilistiche a Cuba, in appoggio al regime di Fidel Castro.
Ma la questione dei missili Jupiter si risolse davvero in quel modo? A noi sembra di no, perché questo nuovo documento dimostra che gli americani raccontarono una mezza verità. Non erano quelle dichiarate nei documenti americani, commentati dall’esperto militare Nicola Pedde, le basi nucleari della NATO. Si trovavano, al contrario, proprio nei luoghi descritti nel nostro libro “Armi di Stato”. Il Conero, l'alpe Archia, vicino al Lago Maggiore, la Valle d'Aosta, poi l'entroterra salernitano, il Gargano, quindi la Sardegna e il nord-est italiano. Le località dovevano probabilmente essere insospettabili, all'interno di paradisi naturali, come Corvara-Pedraces, San Candido, Prato allo Stelvio, Santa Caterina Valfurva.
Perché dunque raccontare questa grande bugia? Per continuare a utilizzare quei siti segreti? Oppure per non turbare l’ordine pubblico italiano, temendo che la stampa potesse sollevare un caso politico? Forse entrambe le cose, ma dovrà essere la politica a spiegarcelo.
Andiamo invece a leggere cosa scrisse “il comandante Matricardi”, ai cecoslovacchi, a proposito del Monte Conero. Le Marche compaiono all’inizio del documento. Fu concesso alla base anconetana molto più spazio rispetto alle altre postazioni americane. 
“Monte Conero (vicino Ancona - tra Badia di S. Pietro e S. Maria di Portonova) [parola incomprensibile] sarà terminata entro ottobre) essa è formata di tre batterie ed [ogni] batteria di 5 rampe di Jupiter. Questi sono missili a tre stadi però della massima sicurezza nell’impiego; è necessaria circa un’ora e mezza per caricare i serbatoi, ed ecco perché nei periodi di preallarme essi sono tenuti già caricati, mentre la testata atomica non viene messa nell’ogiva ma tenuta in appositi depositi, costruiti dentro caverne bene attrezzate. Questo missile è pericoloso per il personale delle basi anche a causa della miscela che costituisce il carburante liquido dei tre stadi. Complessivamente sono in funzione rampe per 50 missili Jupiter; mentre sono in costruzione e saranno ultimate verso la fine dell’anno altre rampe che avranno 60 Jupiter.”
Davvero curioso il fatto che, subito dopo queste parole sul Conero, il comandante Matricardi passasse a menzionare, grazie ai dati prelevati allo Stato Maggiore della Difesa, le rampe di Jupiter presenti “vicino al Lago Maggiore alle falde del Monte Zeda (tra Trarego-Premeno e Cannero)”. Esattamente come abbiamo fatto noi nel libro “Armi di Stato”, di cui questa relazione spionistica diventa a questo punto un’ottima sintesi. Singolare pure il fatto che chi scrive queste righe sia stato chiamato a lavorare, come giornalista o come impiegato (lo vedremo tra un attimo per quanto riguarda le aziende di armi collegate alle basi), seguendo lo stesso tragitto compiuto dai missili Jupiter nel 1960 (e se vogliamo anche dalla macchina di Camerano del 1944 di cui parliamo nel libro “Venti metri sottoterra”).
Nella parte centrale della relazione, il comandante Matricardi si occupava ampiamente delle rampe della Sardegna, e del confine orientale. Ci torna alla mente un altro passaggio oscuro della nostra storia contemporanea: il Piano Solo del generale De Lorenzo. Era il 1964. Quei cenni ad Ancona e Falconara censurati dal presidente Aldo Moro nel momento in cui il golpe fu scoperto. Il tentativo di colpo di Stato potrebbe essere scaturito dalla necessità di proteggere le manovre segrete della NATO, che, stando ai documenti di questo dossier 328, non prevedevano soltanto basi per armi nucleari nascoste nei monti, bensì anche l’addestramento in Sardegna per militari della Germania Ovest. Scopo: un’invasione dell’ex Germania est durante una futura rivolta popolare.
Ma torniamo ai missili. Matricardi spiegò ai cecoslovacchi che diverse aziende italiane lavoravano per queste basi
"fornendo attrezzature". Tra le prime spicca la Telettra di Milano, via Poma 47. L’abbiamo cercata sul web. Fu fondata nel 1946 dall'ingegner Virgilio Floriani. Ma quello che più conta ai fini della nostra inchiesta è che fu proprio la Telettra, mediante una fusione, a far nascere la STMicroelettronics, azienda di microchip militari la cui maggioranza, come scrivemmo nel nostro “Armi di Stato”, era stata acquistata dal Comitato di gestione del Consorzio interbancario SIR. 
Ma allora siamo proprio fortunati, le abbiamo indovinate tutte! Dal Monte Conero si apre un’autostrada verso le aziende dello Stato padrone e soprattutto verso il sottobosco di aziende militari dal quale scaturì nel 1976 lo scandalo Lockheed. Aziende in qualche caso finite nelle inchieste di Mani Pulite insieme al loro contenitore principale, l’EFIM, una scatola vuota con debiti stratosferici. Ci riferiamo alla Oto Melara di Brescia, citata nell’ultima pagina del rapporto-Matricardi. Ma anche alla Marconi, che aveva acquisito dalla Montedison il gruppo Montedel, quello con le ditte legate alle tangenti Lockheed. 
Nel gruppo di aziende militari dell’EFIM finite in liquidazione coatta amministrativa figura la Almaviva spa, per la quale chi scrive ha lavorato come interinale precario nel 2008. E’ il triste destino che viene riservato a coloro che in questa Italia corrotta non contano proprio niente.