sabato 28 agosto 2010

Autobiografia

 


Nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovai in una selva oscura e la retta via era smarrita. Per ritrovarla, sono costretto, controvoglia, a immergermi nei ricordi e a raccontare agli altri chi sono e da dove vengo. 

Sono nato in un quartiere di Roma il 29 marzo del 1973. Mia madre mi disse che in quei giorni cadde mentre andava a fare la spesa alla Standa, e che rischiò di perdermi. Era al settimo mese e furono costretti a farmi nascere, con un attrezzo che si chiama forcipe. Mio padre disse che mamma stava molto male e i medici cercarono di salvare lei, più che me. Invece nacqui lo stesso, nonostante loro non mi volessero. Da bambino li odiavo tutti i medici, anche il fratello di mia madre, che mi curava. Si narra che, ancora neonato, gli feci la pipì in faccia, sugli occhiali per essere precisi, mentre mi visitava.

Ancona fu per me come una vacanza che non finiva mai e che prevedeva anche delle lezioni a scuola. Questo per dire che il trasferimento del 1989 cambiò parecchie abitudini della mia vita. La cerchia familiare si restrinse, mentre si allargò l'ambiente esterno. Scegliemmo quella città di provincia perché immaginavamo una vita più facile, più sicura, meno caotica. Roma negli anni '80 era pericolosa. Mio padre non mi volle mai accompagnare allo stadio a vedere la Roma. Mia madre a Roma fu scippata sotto casa, da dei malviventi che le misero un coltello davanti alla faccia accostandosi con il motorino alla fermata dell'autobus, che lei stava aspettando per andare a insegnare a scuola. Le tolsero qualche gioiello e la borsa, che mio padre cercò per tutto il quartiere, inutilmente. Fummo costretti a cambiare le serrature di casa, perché mamma aveva lasciato ai ladri anche le chiavi. 

Papà, da direttore a Roma, diventava direttore e capo delle Marche del Sanpaolo IMI ad Ancona. La banca avrebbe rimborsato tutto, anche il gas, tranne i consumi di casa come luce e telefono. L'appartamento era del direttore uscente. L'aveva preso in cima a un alto colle che domina il golfo e tutta la città. E' l'unica parte di Ancona che assomiglia a Genova, da cui infatti quel direttore proveniva. Ma a mamma quella sistemazione non piacque. Volevamo restare vicini al centro, inseguire l'idea che avevamo di raggiungere scuola e ufficio a piedi.

Abitavamo con nonna, la mamma di papà, che era molto premurosa con me. Manteneva fitti contatti con l'America, dove c'erano la sorella del marito con la sua famiglia americana. E poi con la figlia di una sua sorella di Frigento, che è un paese in cima a un alto colle di fronte a Torella dei Lombardi, il paese dell’Irpinia dove nel 1935 nacque papà. Nel primo caso si scambiavano lettere, naturalmente, mentre con la nipote nonna era spesso al telefono, in genere alla mattina. 

Io le ero affezionato, perché è stata lei a crescermi a Roma. Non ha fatto una fine degna. Mio zio fece ordinare un’autopsia del corpo, ma mi pare che non emerse nulla di particolare e tutto venne archiviato. Poi tre anni dopo se ne andò pure lui, che era stato per venticinque anni sindaco socialista del suo paese. Nonno, il padre di mio padre, morì di infarto a 70 anni nel 1970, mentre festeggiava una rielezione del figlio. E’ una cosa che mi raccontava sempre nonna quando ero piccolo. Lo portarono a Napoli di corsa con l’ambulanza, ma non ci fu niente da fare. Mi raccontava, forse favoleggiando, che nonno Vincenzo in punto di morte in ambulanza le avrebbe detto che papà avrebbe presto avuto un figlio, che sarei io. Nonna mi diceva pure che le era morto un figlio mentre era incinta, tanti anni prima.

I nonni materni vivevano per conto loro nel quartiere fondato da Mussolini e mai completato che si chiama Eur, dove c'è la sede dell'Eni di Enrico Mattei. Nonno era un generale dell'Aeronautica in pensione, con un appartamento arredato con mobili antichi. C'erano dei simboli dell'antica Roma, come il discobolo. Poi mi pare un quadro gigantesco con uno sfondo cupo tipico dello stile di Caravaggio, una crosta probabilmente, raffigurante i tre moschettieri. Il suo studio era pieno di libri, dove io andavo a scartabellare in cerca di vecchie foto, cartoline. Mi mostrava le imprese che aveva compiuto in Africa, non tanto per conquistarla, quanto per salvare gli indigeni. Motivo per il quale si meritò la croce nera di guerra. Mi mostrava le foto con lui abbracciato alle donne nere eritree di Asmara, oppure di Dire Daua in Etiopia e di altre città che non ricordo. 

C'era un quadro, vicino alla scrivania, che era stato dipinto per lui intorno al 1956. Era una sua gigantografia. Un suo ritratto mentre era in divisa. Aveva il volto imbronciato. Nonno era molto preciso e aveva l'abitudine di appuntare in un'agenda tutti i numeri di telefono, un po' come fanno i giornalisti. Essendo diventato da adolescente piuttosto dispettoso, gli disegnavo delle croci vicino alle personalità dell'Aeronautica o della medicina (si era laureato in Medicina a Padova) che erano morte. Gli davo degli aggiornamenti, che però non gradiva, motivo per il quale venivo tenuto lontano da quel posto. 

Non ho mai sentito le origini dei miei genitori come parte della mia esistenza. Né qualcuno mi ha mai chiesto di rappresentare quei luoghi. Papà e la sua famiglia erano legatissimi all’Irpinia, le montagne dell’avellinese, mamma e la sua invece erano perlopiù originari di Fano, vicino Pesaro, mio nonno paterno aveva vissuto a lungo a Padova ed era un padovano autentico, “grand dottore” come vuole la tradizione, laureato in Medicina. Mi è capitato, da quando sono insegnante, di parlare con alunni che si sentono calabresi pur essendo nati e vissuti nel nord Italia. Non è il mio caso. Eppure i luoghi dei miei genitori non mi sono mai dispiaciuti, anche perché rappresentavano periodi di vacanza spensierata. Papà era di Torella dei Lombardi. E’ un paesino tuttora arroccato, è proprio il caso di dire, intorno al castello dei principi Caracciolo. Ho fatto appena in tempo a vedere un paio di volte come si presentava prima del terremoto del 1980. Aveva un sapore, un odore di antico, di mattoni vecchi, di strade e case costruite centinaia di anni prima. La casa dei nonni, malgrado fosse molto raffinata nell’arredo, non aveva l’acqua corrente. Vi si accedeva attraverso dei gradoni che per me all’epoca, a 6 anni, sembravano enormi. Mi chiedo ancora quale destino avrebbero avuto queste persone senza il terremoto. 

Di quelle giornate a Torella mi restano impressi nella memoria alcuni particolari. La tappa fissa, visto che si scendeva da quelle parti molto di rado, era il cimitero, dove riposavano i nonni, bisnonni e chissà chi altro della famiglia. Il cimitero di Torella a metà degli anni Ottanta aveva tre diverse collocazioni per i defunti. C’erano gli eleganti loculi esterni, una parete molto alta con file di lapidi e fiori, e poi, in un angolo si apriva una scaletta, ben illuminata, che portava nel sotterraneo. Qui vi erano accatastate un’infinità di cassette di ferro o zinco, che presentavano un foro centrale per la fotografia, che molto spesso mancava. Le foto erano molto rare all’epoca da quelle parti. Alcune nostre immagini di famiglia le trovai rovistando nel comò di nonna, che si era salvato dal terremoto. E la vidi finalmente nel suo aspetto da giovane quarantenne. Quindi, mancando le foto, dal foro delle cassettine emergevano i teschi e le ossa dei defunti. Qualche parente lasciava dei ramoscelli di ulivo, che restavano incastonati tra le ossa. Ricordo che in una cassetta c’era la foto della defunta vestita di nero sul letto di morte. In questo luogo si scendeva per andare a trovare i bisnonni. Aveva un aspetto simile alla scena del film “Un borghese piccolo piccolo”, in cui Alberto Sordi andava a cercare la bara del figlio in una stanza affollata, in un caos di pianti e di voci. Se non fosse scomparso prematuramente il fratello di papà, saremmo ancora lì sotto a salutare e pregare per i nostri parenti, ma, sfortunatamente, lo zio non c’è più e quindi abbiamo una bella tomba di famiglia già bell’e pronta. Non saremmo comunque mai finiti nella terza parte del cimitero di Torella, un sottoscala pieno di teschi dell’Ottocento o di qualche secolo prima. Defunti per i quali non c’era più nessun parente che potesse piangere.

Di Fano invece ricordo le vacanze al mare, i lunghi viaggi, difficoltosi su strade ancora impervie, degli anni Ottanta partendo da Roma, con soste per mangiare nei soliti ristoranti dell’Umbria. Erano in ogni caso delle tappe molto brevi, perché nonno, il padre di mia madre, aveva comprato una seconda casa a Viserba di Rimini e il punto di arrivo vero e proprio di quei viaggi era la Romagna, che per nonno era assai preferibile al mare di Fano. La terrazza di Viserba ha attraversato varie fasi della mia crescita. Non che quel posto fosse il migliore del mondo, però era il premio per le mie promozioni scolastiche, la via di fuga da Roma nelle festività. C’era un significato in tante piccole cose. Appena arrivato mi precipitavo ad aprire l’armadio del corridoio, aveva delle ante che emettevano un cigolio tremendo. Era lo scrigno che conteneva i giocattoli: secchiello, paletta e soprattutto un modellino di camion che trasportava cemento più unico che raro, all’epoca. E ogni volta nonna mi urlava: fai piano con quell’armadiooooo che cade giù tutto!!! I nonni non so perché avevano avuto la brillante idea di riporre il vecchio dondolo sopra l’armadio, ma mica ci stava tutto! metà restava sospesa sulla testa. E poi tanti altri ricordi. La mattina capivo se era bel tempo e si sarebbe andati al mare dal rumore degli zoccoli anni Settanta della gente che andava verso la spiaggia. La televisione non c’era. Non so perché, nessuno pensava mai di portarsene una piccola dietro, nemmeno in epoche più tecnologiche come negli anni Ottanta. Allora i miei o decidevano di fare una passeggiata sul lungomare, oppure stavano sulle sedie in terrazza a spettegolare su questo o quel cliente delle pensioni che c’erano davanti. Passeggiata sul lungomare significava fermarsi ogni dieci metri alle sale giochi o alle macchinette a scontro, perché le avrei provate tutte. Tutto ciò rendeva unico quel posto. 

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