domenica 5 luglio 2020

I dollari falsi della finanza piduista


“Erano le 23,40 di domenica sera quando il conducente dell’omnibus per Chiasso poco dopo il ponte di Loreto, si è improvvisamente trovato davanti la sagoma di un uomo. Inutile la pronta frenata: l’uomo è rimasto schiacciato ed è morto sul colpo. E’ stato poi identificato per Mario Tronconi, un milanese di 43 anni dimorante a Viganello dov’era impiegato presso una ditta. Pare che da tempo fosse in preda a crisi depressive.”
In realtà, le cose non andarono proprio così. Tronconi era un dirigente di banca. Se era in crisi, ciò era avvenuto da poco e per problemi che certamente non riguardavano solo lui, bensì l’intera élite della finanza italiana e Vaticana. 
L’articolo fu pubblicato il 10 settembre 1974 in Svizzera, sul Giornale del Popolo. Questo tragico epilogo era solo l’inizio di uno degli scandali giudiziari più importanti degli anni di piombo, che correva su un binario parallelo rispetto al crac Sindona, e che forse poteva svelare, e invece lo fece solo in parte, tutte le trame piduistiche che si celavano dietro la nota figura dello spregiudicato finanziere siciliano, Michele Sindona.
E’ una storia che ho letto per caso sfogliando vecchi numeri del quotidiano OP. Il caso Tronconi fu infatti uno degli argomenti preferiti dal giornalista molisano Mino Pecorelli, ucciso come ben sapete nel marzo 1979 in un altro caso giudiziario infinito, tuttora senza soluzione.
Vi voglio narrare questa storia per come l’ho capita io, essendo ormai abbastanza esperto anche su questioni bancarie. Mario Tronconi era il vicedirettore della Svirobank, ossia la filiale di Lugano, in Canton Ticino, del Banco di Roma. Si discusse a lungo anche se il suo fosse stato un vero suicidio, oppure una messinscena ben orchestrata. In pratica, le cose stavano così: Tronconi aveva permesso a un finanziere d’assalto napoletano, Francesco Ambrosio, una serie di operazioni spregiudicate e illegali. Il bancario prelevava soldi da conti correnti di clienti distratti, che controllavano solo sporadicamente i propri soldi in banca, e li girava su conti cifrati di Ambrosio, che millantando affari inesistenti pare che avesse in tal modo convinto Tronconi che quei soldi sarebbero in qualche modo tornati indietro con gli interessi. Ma non fu così, o, almeno, non ve ne fu il tempo, perché il trucco venne scoperto. Da chi? Dalla banca? Non è molto chiaro questo punto. Tronconi si sarebbe suicidato perché assalito da sensi di colpa. Avrebbe scritto di suo pugno una lettera d’addio alla moglie e un memoriale per la banca, e poi si sarebbe gettato sotto quell’omnibus. Successivi accertamenti avrebbero confermato la tesi del suicidio. 
Ma la questione non cambia. Perché il giorno dopo la morte del povero dirigente, la banca, ricevuto il memoriale, ne approfittò per chiudere subito la falla apertasi nei bilanci dell’istituto di credito, senza rendere pubblici i fatti, cercando in tal modo di salvare l’onorabilità di fronte alla clientela. Successivamente, la figura di questo vicedirettore fu dipinta, in Svizzera, come quella di una persona debole, che non sapeva dir di no a nessuno, specialmente di fronte a una persona spregiudicata come Ambrosio.
Ma era veramente spregiudicato questo finanziere? Anche Francesco Ambrosio, detto Franco, è un gran bel personaggio, su cui furono scritti fiumi di parole, finché la figura di un omonimo, il re del grano Francesco Vittorio Ambrosio, anche lui detto Franco, non eclissò il finanziere d'assalto dietro i nuovi e assai più dirompenti processi di Mani Pulite, nei quali lui, il secondo Ambrosio, divenne uno degli indagati più discussi insieme al suo amico Paolo Cirino Pomicino.
Ma a noi quest'ultimo caso adesso non interessa. Torniamo agli anni Settanta. Pecorelli scrisse nel numero di OP del 14 novembre 1978 che i guai del finanziere d'assalto erano cominciati un paio di mesi prima della tragica fine di Tronconi. A luglio del 1974, Ambrosio, trentenne di belle speranze amante della vita mondana, aveva organizzato una sontuosa festa nella sua villa tra Paraggi e Portofino. Si narra che quel giorno lo champagne scorse a fiumi. Erano suoi ospiti i vertici della finanza europea. In poco tempo, Ambrosio aveva iniziato a far parlare di sé per la vita da nababbo che conduceva, avendo acquistato in pochi giorni ville, panfili, palazzi, aerei privati, gioielli. Proprio cercando di ottenere il brevetto di pilota, falsificando la propria fedina penale, che già era piena zeppa di precedenti, finì dritto dritto nella tagliola degli inquirenti italiani. L'avvocato difensore, Franco De Cataldo, fornirà poi, a processo di primo grado concluso, una visione dei fatti diversa, parlando di gelosie dei giudici. Fatto sta che già dall'ottobre del 1975 erano partiti gli accertamenti di Carabinieri e Guardia di Finanza, dai quali era emersa l'ipotesi che Ambrosio con la complicità di Tronconi avesse trafficato nel riciclaggio di dollari falsi. Una tesi sicuramente interessante. Vedremo poi perché e a cosa porterebbe.
Durante tutto questo tempo, tra il 1974 e il 1975, in Svizzera non era successo assolutamente nulla, perché i dirigenti della Svirobank, come detto, erano corsi dai soci di maggioranza, che figurati un po' erano i prelati dello IOR, e avevano ottenuto la somma che serviva per coprire il furto di denaro dai conti correnti degli ignari clienti: 102 milioni di franchi svizzeri. Stando a quanto riportato sulla Gazzetta Ticinese del 16 settembre 1981, la dirigenza della banca si era accorta dell'ammanco grazie alla segnalazione di un cliente, che nel vendere una palazzina proprio ad Ambrosio non si era fidato di quel tipo strano. Un certo Arrigoni, vice-presidente della Svirobank, ne aveva chiesto spiegazioni al Tronconi, il quale non aveva trovato migliore soluzione del suicidio. Fine della storia. Invece no, perché in Italia intanto le indagini avevano portato all'arresto di Franco Ambrosio, con un terremoto non indifferente, non tanto per il giornalista Pecorelli, che nel suo racconto passava veloce sul 1976, quanto per il Guerin Sportivo, cui non era sfuggito un particolare non da poco. Mentre i giudici cercavano prove per spiccare i primi mandati di cattura, il nostro finanziere amante della bella vita aveva avuto il tempo di incontrare alle sue festicciole anche il Golden Boy, eroe dei mondiali di calcio di Messico 70, Gianni Rivera, e a farsi coinvolgere nell'acquisto del Milan. Nella cordata compariva un altro frequentatore di quelle notti brave: un certo Padre Eligio, noto poi come confessore di Rivera, ma anche come fratello di quel don Pierino Gelmini, che fu sempre al centro delle cronache negli anni Duemila. Prete impegnato nel sociale, amico del cavaliere Silvio Berlusconi, condivise con l'ex premier anche qualche infamante inchiesta giudiziaria. 
Ma andiamo con ordine. E' il marzo del 1976. Stando al racconto di Pecorelli, il giudice istruttore Antonio Pizzi della magistratura milanese sta ricostruendo tutte le trame finanziarie occulte di Ambrosio, e ciò avviene mentre di lui si è già occupata la stampa sportiva. Ed è un putiferio. Al momento dell'arresto, Italo Cucci, direttore del Guerin Sportivo, insorge. Lancia parole di fuoco, dalle sue colonne, contro la dirigenza milanista. “Adesso Rivera fa rima con galera”, titola nel numero 11 del 10-16 marzo 1976. Nella foto ecco il gruppo al completo: Ambrosio, la sua bella moglie, Frate Eligio, con indosso il suo saio, e poi Rivera. Anche Cucci nel suo pezzo descrive Ambrosio come un trafficante di dollari falsi, che a Lugano diventavano magicamente franchi svizzeri autentici. In più, avrebbe lucrato nell'esportazione di valuta, dapprima per gli altri, poi mettendosi in proprio. E per colpa sua, un vicedirettore di banca ci aveva rimesso la vita. Finito già due volte al fresco, Ambrosio in quel 1976 doveva difendersi da accuse pesanti, come la falsificazione di documenti, tentata truffa ai danni dello Stato e associazione per delinquere. 
Per fortuna dei tifosi rossoneri i tempi della giustizia italiana sono lunghi e bastarono poche domeniche di calcio giocato per dimenticare queste filippiche. Ma prima che Rivera potesse festeggiare persino lo scudetto della stella, nel 1979, era già accaduto un altro incontro significativo: l'inserimento di Silvio Berlusconi nell'affare Milan. La storia ufficiale dice che il Berlusca sarebbe salito al timone della squadra rossonera nel 1985, in realtà sempre Mino Pecorelli aggiungeva un dettaglio sfuggito a molti. Su OP del 18 dicembre 1978 annunciava che il Cavaliere stava rastrellando azioni su azioni del Milan, puntando alla maggioranza. “Se Colombo sarà messo in minoranza – chiosava nelle sue notizie in pillole - presidente della società sportiva diventerà padre Eligio. Sarà il presidente del decimo scudetto?” Non fu così, ma l'articolo lascia supporre che tra il Berlusca di Canale 5 e il fratello di don Pierino Gelmini vi fosse una conoscenza abbastanza approfondita. E Ambrosio? Di un eventuale contatto Ambrosio-Berlusconi non siamo riusciti a sapere molto, se non che avevano acquistato entrambi una villa a Portofino. Destini che si incrociavano pericolosamente.
Ambrosio finì davanti ai giudici proprio in quel 1978. Era gennaio. La magistratura per vederci più chiaro aveva chiamato a testimoniare due dirigenti del Banco di Roma, Barone e Ventriglia, che ebbero la brillante idea di accusarsi a vicenda. Non solo. Cosa ti inventa Barone per mettere una bella pietra sopra la vicenda? Tira fuori la lettera di Tronconi e racconta la storiella che Ambrosio e Tronconi, appunto, si erano messi d'accordo per truffare la banca, sottraendo ben 18 miliardi di vecchie lire. Eh già, ma come potevano, i due presunti malfattori, pensare di rubare tutti quei soldi dai conti correnti senza che nessuno nella dirigenza se ne accorgesse? Domanda che fu posta, a quanto pare, a Barone e Ventriglia, ricevendo in cambio una serie di risposte poco convincenti. 
Dunque, chi si nascondeva dietro questi finanzieri d'assalto? Aveva fatto tutto da solo Franco Ambrosio, oppure era nient'altro che la “testa di legno” di un'organizzazione più vasta? E' qui che si innesta il discorso di Michele Sindona. Ed è anche su quest'altra storia, che ora vedremo brevemente, che aleggia lo spettro di un legame, sebbene legato ad altri fatti, con il cavaliere Silvio Berlusconi. Ci riferiamo alla famosa lista dei 500 esportatori di valuta amici di Sindona, che avevano investito soldi nelle banche del finanziere italo-americano, in odore di mafia, ed erano finiti a gambe all'aria. Chi erano, si chiedevano i magistrati italiani. Mistero fittissimo. Su quella lista, Mario Barone non era in grado di fornire alcunché, preferendo spostare il discorso sul caso Tronconi. Dalla padella finiva alla brace, poiché i giudici non credevano affatto alla favola dei due ladruncoli, bensì cercavano di capire se dietro Ambrosio non si nascondesse lo stesso Banco di Roma, che muoveva così sotto copertura denaro proveniente addirittura dai fondi neri delle Partecipazioni Statali. 
Il problema della magistratura ordinaria, e su questo concordo col pm Giuliano Turone che lo ha scritto nel suo libro, è che non può scrivere la storia come le pare e piace, deve limitarsi ad accertare le responsabilità individuali legate a un delitto, “oltre ogni ragionevole dubbio”. Questo per dire che, alla fine, da tutta questa mega storia Franco Ambrosio uscì assolto, almeno in quel famoso processo di primo grado del 1978. Che certamente non fu l'unico. Il quotidiano svizzero Libera Stampa il 4 luglio del 1987 riassumeva così le vicende giudiziarie dell'ex finanziere d'assalto: “Assolto dal tribunale di Milano il 7 settembre 1978, Franco Ambrosio sarà poi riconosciuto responsabile di truffa dalla Corte d'Appello di Milano nel novembre dell'84.” La Cassazione poi nel 1986 rimanderà il tutto a un nuovo processo di secondo grado a Milano. “Sempre nel '78, - narra ancora Libera Stampa - Ambrosio fu coinvolto in un'inchiesta per ricettazione aperta in Svizzera parallelamente a quella relativa al 'Banco di Roma per la Svizzera': fu condannato nel 1981 a cinque anni e mezzo e incarcerato nella prigione 'La Stampa' a Lugano.” Qui inizia praticamente un'altra storia, con tentativi di evasione, una volta riuscendo a corrompere un secondino e a nascondersi in un bidone della spazzatura, nuovi arresti anche in Italia per peculato, corruzione e falso, nuove condanne, altre assoluzioni e via dicendo. Se dovessimo ripercorrere tutte le sue avventure giudiziarie staremmo qui fino a domani, senza poter sapere, poi, dove sia oggi, che è ciò che ci domandavamo principalmente. Wikipedia si occupa solo del suo omonimo, l'amico di Paolo Cirino Pomicino, cui accennavamo prima.
Il nocciolo della questione è che tutte queste avventure picaresche del nostro Ambrosio non fanno altro che confermare la tesi sostenuta dai giudici e, per esempio, dallo scrittore David Yallop che il finanziere napoletano fosse la testa di legno ideale per una vasta organizzazione. Secondo Yallop questa organizzazione nella fattispecie sarebbe stata lo IOR, la Banca Vaticana, che speculava in questo modo sull'esportazione di capitali. Si trattava di denaro falso? Se così fosse ci troveremmo di fronte a un caso analogo a quello letto nella Vatikan Connection di Richard Hammer, in cui lo IOR aveva l'arduo compito di tappare le falle di bilancio con denaro e titoli obbligazionari falsi procacciati dalla mafia italo-americana. E non andremmo lontano nemmeno dall'altra storia che abbiamo lasciato in sospeso, la lista dei 500 amici di Sindona, che i giudici non portarono alla luce nella sua interezza. Tuttavia, un bell'articolo di Fabrizio Ravelli di Repubblica cercò di lasciare ai posteri una lista di nomi che emergeva dalla sentenza del processo. Era il 18 dicembre 1985. Si noti: Michele Sindona era ancora vivo. Nelle poche righe di Ravelli spiccavano nomi eccellenti di imprenditori, politici, editori, che si erano affidati a Sindona ed erano stati frettolosamente rimborsati prima del crac. Riportiamo questi nomi col beneficio di inventario: “Angelo Moratti, il petroliere; l'onorevole Filippo Micheli, ex segretario amministrativo della Dc, e l'avvocato Raffaele Scarpitti, suo consulente finanziario.” “Ecco i fratelli Caltagirone, e i fratelli Marchini; poi Arcangelo Belli e Alberico Lalatta, Ulrico Hoepli, Mario Rusconi, Mario Crespi; l'ex vicedirettore generale della Rai Italo De Feo, la signora Anna Bonomi. E ancora numerose società sindoniane: come la Edilcentro Sviluppo che sul suo conto faceva affluire gli utili delle operazioni finanziarie di molti clienti come Bruno Tassan Din, Angelo Rizzoli, Giovanni Fabbri. Fra quelli che "con una certa probabilità erano titolari di conto estero" il giudice mette l' ex procuratore generale di Roma Carmelo Spagnuolo, il conte Agusta, l'onorevole Flavio Orlandi del Psdi, Nino Trapani della Hèlène Curtis. E ancora fra i "certi", Raimondo D' Inzeo.”
Dunque, piduisti ma non solo loro in questa ipotetica lista dei “sindoniani”. Bruno Tassan Din, Angelo Rizzoli, ma anche i fratelli Marchini: l'ex presidente della Roma e padre della moglie del centrocampista Cordova, e il nonno di Alfio Marchini, vecchia conoscenza di Berlusconi e delle cronache giudiziarie più recenti. E questa è una storia che a nostro giudizio non si è ancora conclusa.

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