sabato 10 marzo 2018

L’angelo della morte tornò sul Cermis


Due delitti per un solo assassino. Il 9 marzo del 1976 morivano 42 persone per la caduta di una funivia di montagna, che conduce all’Alpe del Cermis, in Trentino. La stessa raccapricciante scena si ripresentò sui giornali nel 1998, vent’anni fa, il 3 febbraio. Vi fu una nuova caduta di quella stessa funivia, sulla medesima tratta, e altre povere vittime vennero raccolte su quel pendio: venti. Sembra un macabro gioco di numeri e parole. Il nome del colpevole, e questo è ciò che ci sconcerta, rimase lo stesso. Un nome tedesco: Schweitzer. Si potrebbe parlare di un killer seriale, se non fosse che si tratta di due persone completamente diverse. Anche le dinamiche dei due disastri non si direbbero così scontate come abbiamo letto nelle cronache.
Il primo Schweitzer si chiamava Carlo. I quotidiani dell’epoca lo descrivono come un aspirante manovratore della funivia che commise un errore fatale. Nel 1976 la funivia del Cermis si schiantò al suolo perché, pare di aver capito, il signor Schweitzer azionò il sistema di sicurezza, un interruttore caratteristico proprio di quell’impianto, che consentiva di guidare la funivia anche in modalità manuale. Ciò, secondo il processo, provocò l’accavallamento dei cavi e fece precipitare nel vuoto 43 persone. Di queste solo una si salvò, una ragazza milanese di 14 anni, Alessandra Piovesana. Per gli altri non vi fu nulla da fare. La vicenda giudiziaria si chiuse il 17 marzo del 1979, quando la Cassazione pronunciò il verdetto definitivo. Elio Spada dell’Unità quel giorno non era convinto che fosse stata fatta giustizia. Pagava in fin dei conti solo un abusivo che sognava di fare il manovratore delle funivie, ma non gli altri personaggi di quella ditta, i progettisti, i dirigenti, che avevano tralasciato svariate misure di sicurezza. Persero la vita 22 sciatori tedeschi, 12 italiani, 7 austriaci, un francese.
Ma l’opinione pubblica ha sentito parlare soprattutto del secondo grave incidente. In questo caso l’assassino fu un americano. Joseph Schweitzer nel 2012 confessò di essere lui il pilota dell’aereo militare americano che il 3 febbraio del 1998 tranciò i cavi della funivia del Cermis e la fece precipitare sul prato. In questo caso, dunque, il manovratore non c’entrava, almeno secondo le ricostruzioni che leggemmo sui giornali. Fin dal giorno successivo alla strage sembrò evidente che la funivia era caduta per la manovra spericolata di quell’aereo americano, decollato dalla base Nato di Aviano alle 14 e 36 e piombato sul Cermis alle 15, 12 minuti e 51 secondi (secondo Wikipedia). I piloti erano due, Schweitzer e Ashby. Si mosse subito il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Sulla Stampa, già nello stesso istante in cui la gente apprendeva della tragedia, invocava rivolto a Prodi un cambiamento di rotta dei velivoli militari.
L’ex presidente di origine novarese deve aver pensato quel giorno a un’altra tragedia che avrebbe potuto consumarsi sempre sulle Alpi di quel versante orientale. Oggi con internet è tutto più facile. Grazie al motore di ricerca rintracciamo infatti un curioso incidente del 1987, accaduto in piena estate. Il 27 luglio di quell’anno Stampa Sera titolava: “Aereo sulla funivia”, e quindi l’occhiello: “Tranciati i cavi, sfiorata una tragedia”. Ma per fortuna furono tutti salvi: i 25 passeggeri della funivia del Falzarego, famosa tratta che conduce nei punti più alti e spettacolari delle Dolomiti, ed anche i piloti dell’aereo militare. Eh sì, cari lettori, il problema è questo. L’episodio a lieto fine dimostra che i cavi di una funivia non sono un fuscello. Chi è stato come me in montagna sa bene che questi cavi sono robusti e resistenti, inoltre sono spesso accompagnati dai cavi dell’elettricità che muove la struttura.
Ciò significa che un pilota potrebbe anche tranciare quei fili, ma avrebbe poi delle grosse difficoltà a condurre il velivolo sano e salvo nel proprio hangar. Infatti è quanto accadde all’aereo MB 326 italiano che quel giorno di luglio del 1987 era decollato dalla base di Vicenza. Leggiamo dall’articolo che l’aereo era “precipitato per aver urtato prima contro il cavo traente d’acciaio di ventidue millimetri della funivia Passo Falzarego-Lagazuoi, tranciandolo di netto, e poi contro quattro cavi pure di acciaio dell’alta tensione, che alimentano, a monte, la stazione motrice dell’impianto.”
Le due cabine della funivia non caddero. Questo perché, leggiamo sempre dal pezzo molto dettagliato di allora, i dispositivi di “frenatura automatica”, messi prontamente in azione, evitarono lo scarrucolamento delle funivie, che, scosse da una grande “sferzata”, restarono sospese nell’aria. L’aereo italiano divenne invece incontrollabile. I due militari Marinci e Donati, dopo aver puntato inutilmente verso Aviano, si lanciarono con il paracadute.
Tutto questo sul Cermis non accadde, e le immagini che sono state divulgate dall’Associated Press, con quelle macchie di sangue sul prato, tolgono ogni dubbio. Una delle cabine nel 1998 precipitò certamente sul suolo del Cermis. Come poté accadere? L’impressione che ho avuto personalmente è che sia stata fatta poca chiarezza dal punto di vista tecnico, accertamenti che al contrario furono più scrupolosi nei precedenti che ho menzionato, sebbene la sentenza finale della Cassazione, nel 1979, fece scandalo.
Il motore di ricerca di Wikileaks offre un solo documento sulla strage del 1998. Il governo americano fece i suoi conti economici per il rimborso da versare in sede di giudizio. Ma c’è un particolare che potrebbe fornire la risposta che cerchiamo. Paolo Colonnello della Stampa ascoltò quel 3 febbraio 1998 i commenti dei testimoni oculari della tragedia. Qualcuno, anche se smentito da altri racconti, parlò di due aerei “abbassarsi a trenta-quaranta metri, come fosse una gara”, poi uno all’improvviso risalì verso l’alto. In questo modo il famoso aereo della Nato, che riprese quota nelle immagini di mezzo mondo, potrebbe non essere il vero colpevole dell’orrendo delitto. E la confessione del pilota Joseph Schweitzer (affermò di non essersi accorto dell'urto) sarebbe l’ennesima beffa per le famiglie delle vittime.
La verità potrebbe emergere dai segreti militari delle Dolomiti, da quelle basi missilistiche della guerra fredda, costruite tra i boschi, sulla cui paternità il governo italiano non ha mai voluto fare chiarezza, di qualunque colore esso fosse.

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