sabato 24 marzo 2018

Moro fu prigioniero della Banda della Magliana?

Foto tratta dal quotidiano L'Unità del 17 maggio 1978

Via Pietro Maffi 131, quartiere Primavalle, Roma. Siamo a poche centinaia di metri dal luogo della strage di via Fani. La vera prigione dell’ex presidente del consiglio Aldo Moro potrebbe essere stata questa.
Conferme quindi circa le notizie che avevo trovato nei giornali ungheresi arrivano quando sembrava che quel filone di inchiesta finisse su un binario morto. Intorno alla metà di maggio del 1978 la polizia aveva trovato una misteriosa villetta nel quartiere romano di Primavalle, una villa con un ampio giardino pieno di piante. Qui alcuni sacchi di immondizia coprivano una scala che portava a un sotterraneo, dove era stata costruita una stanza apparentemente confortevole. Il giardino era pieno di scatoloni di proiettili. Questa stessa notizia oggi l’ho ritrovata in italiano sul quotidiano svizzero Libera Stampa. Ed ecco spuntare i nomi che portano a uno scenario molto ampio, ma che si inserisce nel quadro che avevo già delineato.
La notizia della villetta di Primavalle, collegata al sequestro Moro, in Italia non era praticamente uscita, se non sul quotidiano L’Unità. Il 16 maggio 1978, poco dopo la morte del presidente democristiano, gli agenti della questura di Roma arrestarono i due coniugi che figuravano come proprietari dell’appartamento di via Maffi. Si chiamavano B.G. all’epoca quarantenne, e A.D. trentaseienne. Sono due nomi apparentemente sconosciuti, ma inseriti nei motori di ricerca degli archivi conducono alla banda della Magliana.


Nella villetta in realtà non abitavano i due, ma un certo V.T., un cognome omonimo di un famoso avvocato che spesso si vede in televisione. Questo V.T. era di Palermo e le successive indagini della squadra mobile del dottor Di Gennaro scoprirono che era l’organizzatore di un vastissimo di giro di spaccio di hashish che dalla Sicilia giungeva nella capitale, nel quartiere Boccea, dove abitava un altro malvivente, M.V., anche lui omonimo, in questo caso di un pentito di Gladio. Questo fiume di hashish, nascosto in cassette di agrumi, veniva gestito dalla banda della Magliana. B.G. compare infatti molte altre volte nei quotidiani dell’epoca in seguito alle operazioni di polizia contro la malavita romana. Era un boss dello stesso calibro di Enrico De Pedis e Franco Giuseppucci. Nel 1983 venne fotografato sull’Unità mentre veniva arrestato.
Torniamo ora un attimo sulla presunta prigione di Moro, in via Maffi. Non si trattava di uno scantinato qualsiasi. Sia Libera Stampa, sia L’Unità insistevano sul fatto che i malviventi avessero adattato quel locale di tre metri per tre o quattro, nato probabilmente come luogo fresco in cui conservare il vino, per nasconderci qualcuno. La saletta era dotata di una finestrella per il ricambio dell’aria, e ciò confermerebbe le ipotesi che nello Speciale TG1 erano state fatte dalla storica dell’archivio Flamigni, Ilaria Moroni, circa il fatto che Moro stando all’autopsia non fosse rimasto prigioniero in un’intercapedine, bensì in un luogo più arieggiato. Questo scantinato si trovava a 15 metri di profondità e la finestrella ovviamente non dava sull’esterno ma nell’interno di un pozzo pieno d’acqua. Secondo Libera Stampa i proiettili, che dovevano servire per un’organizzazione criminale, non erano, come affermò l’occhiello dell’Unità, nello stesso scantinato, ma nel giardino, coperti dalle piante.
Forse B.G. affittò questa prigione ai brigatisti, ma è altrettanto probabile che la banda della Magliana non fosse altro che uno dei tre livelli di cui parlava l’ex capo dei Servizi Segreti, Gianadelio Maletti. Ossia il primo livello era quello che tutti conosciamo, dei terroristi di sinistra, poi il secondo dei servizi segreti dell’est e infine il terzo dei servizi segreti dell’ovest, la CIA. La banda della Magliana forniva certamente manovalanza ai servizi segreti, e lo dimostra proprio il caso Chichiarelli, il criminale, falsario di quadri d’autore, che firmò il comunicato numero sette del Lago della Duchessa. E’ possibile che il ruolo di Antonio Chichiarelli non sia stato ben compreso, oppure che non lo si sia voluto comprendere. Fu appurato che la sua macchina da scrivere venne usata per dattiloscrivere quel falso comunicato delle Brigate Rosse, ideato apparentemente per depistare le indagini. Ma anche un’altra macchina da scrivere proveniva dagli uffici dei Servizi, ed era stata rinvenuta nella tipografia di via Pio Foà a Roma, dove fu arrestato Enrico Triaca. Secondo la ricostruzione dell’Archivio 900, ad acquistare la macchina di via Foà era stato l’impiegato dell’ENI, Claudio Avvisati, nel cui appartamento era stato trovato un manifesto della RAF, la Frazione Armata Rossa del duo Baader-Meinhof. Il comunicato numero 7 preannunciava che Moro sarebbe morto come quei terroristi tedeschi. Ed effettivamente fu ritrovato nella Renault 4 rossa in via Caetani proprio nello stesso giorno in cui la Meinhof fu trovata morta nel carcere di Stammheim: il 9 maggio. Qualcosa di vero dunque nel comunicato numero 7 c’era. Lo avevamo detto.
Se siamo o no con B.G. nel terzo livello delle Brigate Rosse, è presto per dirlo. Certo è che quella prigione di via Pietro Maffi 131 molto probabilmente fu utile anche alle Brigate Rosse. L’Unità, sebbene tendesse inizialmente ad escludere questa eventualità, il 18 maggio 1978 in un secondo articolo dovette ammettere che “la possibilità è molto remota, anche se non può essere esclusa”.
Nel frattempo sono accaduti altri fatti che rimettono tutto in gioco. Ad indagare su quel covo di Primavalle era il sostituto procuratore Guido Guasco. Secondo L’Unità, il giudice tornò più volte in via Maffi per effettuare degli accertamenti. Ma chi era? E perché tra i vari inquirenti di via Fani, come Gallucci e Infelisi, non compare più nelle ricostruzioni? Secondo il blog di Claudio Meloni, Guido Guasco fu tirato in ballo dal presidente emerito Francesco Cossiga nel 1993, allorché quest’ultimo confessò di aver preparato un piano, su consiglio di quel giudice e anche dei procuratori Padalino e De Matteo, per “isolare” Moro nel caso di una sua liberazione. Questo piano era stato denominato Viktor. I tre procuratori smentirono ogni accusa, mentre appare più probabile che l’ideatore fosse il criminologo Franco Ferracuti, iscritto nella loggia P2. Era stato progettato che, in caso di liberazione di Moro, il presidente della DC venisse “isolato” in ospedale al Policlinico Gemelli. Questo perché secondo il perverso dossier Ferracuti il presidente Moro nella prigione dei brigatisti aveva - sottolinea testualmente il blog di Meloni - “fatto propria la percezione “distorta” secondo la quale i veri responsabili della sua prigionia non fossero i brigatisti, ma le persone incaricate di liberarlo, le quali, a suo modo di vedere, avevano fatto di tutto per ritardare la sua liberazione.”
Sono tutti elementi che, messi insieme, portano a credere che in via Maffi 131, a Primavalle, vicino alla sede dei servizi segreti di Forte Braschi, vi fossero i veri complici delle Brigate Rosse.

sabato 10 marzo 2018

L’angelo della morte tornò sul Cermis


Due delitti per un solo assassino. Il 9 marzo del 1976 morivano 42 persone per la caduta di una funivia di montagna, che conduce all’Alpe del Cermis, in Trentino. La stessa raccapricciante scena si ripresentò sui giornali nel 1998, vent’anni fa, il 3 febbraio. Vi fu una nuova caduta di quella stessa funivia, sulla medesima tratta, e altre povere vittime vennero raccolte su quel pendio: venti. Sembra un macabro gioco di numeri e parole. Il nome del colpevole, e questo è ciò che ci sconcerta, rimase lo stesso. Un nome tedesco: Schweitzer. Si potrebbe parlare di un killer seriale, se non fosse che si tratta di due persone completamente diverse. Anche le dinamiche dei due disastri non si direbbero così scontate come abbiamo letto nelle cronache.
Il primo Schweitzer si chiamava Carlo. I quotidiani dell’epoca lo descrivono come un aspirante manovratore della funivia che commise un errore fatale. Nel 1976 la funivia del Cermis si schiantò al suolo perché, pare di aver capito, il signor Schweitzer azionò il sistema di sicurezza, un interruttore caratteristico proprio di quell’impianto, che consentiva di guidare la funivia anche in modalità manuale. Ciò, secondo il processo, provocò l’accavallamento dei cavi e fece precipitare nel vuoto 43 persone. Di queste solo una si salvò, una ragazza milanese di 14 anni, Alessandra Piovesana. Per gli altri non vi fu nulla da fare. La vicenda giudiziaria si chiuse il 17 marzo del 1979, quando la Cassazione pronunciò il verdetto definitivo. Elio Spada dell’Unità quel giorno non era convinto che fosse stata fatta giustizia. Pagava in fin dei conti solo un abusivo che sognava di fare il manovratore delle funivie, ma non gli altri personaggi di quella ditta, i progettisti, i dirigenti, che avevano tralasciato svariate misure di sicurezza. Persero la vita 22 sciatori tedeschi, 12 italiani, 7 austriaci, un francese.
Ma l’opinione pubblica ha sentito parlare soprattutto del secondo grave incidente. In questo caso l’assassino fu un americano. Joseph Schweitzer nel 2012 confessò di essere lui il pilota dell’aereo militare americano che il 3 febbraio del 1998 tranciò i cavi della funivia del Cermis e la fece precipitare sul prato. In questo caso, dunque, il manovratore non c’entrava, almeno secondo le ricostruzioni che leggemmo sui giornali. Fin dal giorno successivo alla strage sembrò evidente che la funivia era caduta per la manovra spericolata di quell’aereo americano, decollato dalla base Nato di Aviano alle 14 e 36 e piombato sul Cermis alle 15, 12 minuti e 51 secondi (secondo Wikipedia). I piloti erano due, Schweitzer e Ashby. Si mosse subito il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Sulla Stampa, già nello stesso istante in cui la gente apprendeva della tragedia, invocava rivolto a Prodi un cambiamento di rotta dei velivoli militari.
L’ex presidente di origine novarese deve aver pensato quel giorno a un’altra tragedia che avrebbe potuto consumarsi sempre sulle Alpi di quel versante orientale. Oggi con internet è tutto più facile. Grazie al motore di ricerca rintracciamo infatti un curioso incidente del 1987, accaduto in piena estate. Il 27 luglio di quell’anno Stampa Sera titolava: “Aereo sulla funivia”, e quindi l’occhiello: “Tranciati i cavi, sfiorata una tragedia”. Ma per fortuna furono tutti salvi: i 25 passeggeri della funivia del Falzarego, famosa tratta che conduce nei punti più alti e spettacolari delle Dolomiti, ed anche i piloti dell’aereo militare. Eh sì, cari lettori, il problema è questo. L’episodio a lieto fine dimostra che i cavi di una funivia non sono un fuscello. Chi è stato come me in montagna sa bene che questi cavi sono robusti e resistenti, inoltre sono spesso accompagnati dai cavi dell’elettricità che muove la struttura.
Ciò significa che un pilota potrebbe anche tranciare quei fili, ma avrebbe poi delle grosse difficoltà a condurre il velivolo sano e salvo nel proprio hangar. Infatti è quanto accadde all’aereo MB 326 italiano che quel giorno di luglio del 1987 era decollato dalla base di Vicenza. Leggiamo dall’articolo che l’aereo era “precipitato per aver urtato prima contro il cavo traente d’acciaio di ventidue millimetri della funivia Passo Falzarego-Lagazuoi, tranciandolo di netto, e poi contro quattro cavi pure di acciaio dell’alta tensione, che alimentano, a monte, la stazione motrice dell’impianto.”
Le due cabine della funivia non caddero. Questo perché, leggiamo sempre dal pezzo molto dettagliato di allora, i dispositivi di “frenatura automatica”, messi prontamente in azione, evitarono lo scarrucolamento delle funivie, che, scosse da una grande “sferzata”, restarono sospese nell’aria. L’aereo italiano divenne invece incontrollabile. I due militari Marinci e Donati, dopo aver puntato inutilmente verso Aviano, si lanciarono con il paracadute.
Tutto questo sul Cermis non accadde, e le immagini che sono state divulgate dall’Associated Press, con quelle macchie di sangue sul prato, tolgono ogni dubbio. Una delle cabine nel 1998 precipitò certamente sul suolo del Cermis. Come poté accadere? L’impressione che ho avuto personalmente è che sia stata fatta poca chiarezza dal punto di vista tecnico, accertamenti che al contrario furono più scrupolosi nei precedenti che ho menzionato, sebbene la sentenza finale della Cassazione, nel 1979, fece scandalo.
Il motore di ricerca di Wikileaks offre un solo documento sulla strage del 1998. Il governo americano fece i suoi conti economici per il rimborso da versare in sede di giudizio. Ma c’è un particolare che potrebbe fornire la risposta che cerchiamo. Paolo Colonnello della Stampa ascoltò quel 3 febbraio 1998 i commenti dei testimoni oculari della tragedia. Qualcuno, anche se smentito da altri racconti, parlò di due aerei “abbassarsi a trenta-quaranta metri, come fosse una gara”, poi uno all’improvviso risalì verso l’alto. In questo modo il famoso aereo della Nato, che riprese quota nelle immagini di mezzo mondo, potrebbe non essere il vero colpevole dell’orrendo delitto. E la confessione del pilota Joseph Schweitzer (affermò di non essersi accorto dell'urto) sarebbe l’ennesima beffa per le famiglie delle vittime.
La verità potrebbe emergere dai segreti militari delle Dolomiti, da quelle basi missilistiche della guerra fredda, costruite tra i boschi, sulla cui paternità il governo italiano non ha mai voluto fare chiarezza, di qualunque colore esso fosse.