venerdì 30 novembre 2018

Giudicare gli 007 egiziani del caso Regeni: si può?


A norma di legge, processare uno straniero per un delitto avvenuto in una nazione estera è possibile, ma solo in alcuni casi molto gravi. Un simile processo, in ogni caso, non sarebbe così semplice come i mass media italiani vorrebbero far credere. Ecco quanto mi ha risposto un giudice italiano che non vuole essere citato per nome.
“Esiste una sfera di competenza di PM e giudici italiani per perseguire e reprimere reati commessi all'estero in danno di cittadini italiani, nonché anche nel caso di reato commesso all'estero da italiano. Tuttavia tale competenza è di fatto limitata a reati gravi, nel primo caso si parte da minimo 1 anno di reclusione, nel secondo minimo 3 anni di reclusione. Per i reati reati commessi all'estero in danno di cittadini italiani valgono gli articoli 7-10 ss. C.P. (Art. 7. Reati commessi all'estero; Art. 8. Delitto politico commesso all'estero; Art. 9. Delitto comune del cittadino all'estero; Art. 10. Delitto comune dello straniero all'estero). In tutti questi casi, in termini più semplici, il giudice interviene in caso di omicidio o di grave delitto contro la personalità dello Stato italiano.
Questo spiega quindi le indagini italiane sul caso Regeni o su altri omicidi di italiani all'estero ovvero per esempio soggetti sequestrati. La competenza ad indagare comunque non ha niente a che vedere con l'assoggettare a giudizio, posto che tutti i sistemi giudiziari accettano il principio del cd. ne bis in idem per cui nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso fatto da corti diverse e anche di diversi Paesi.
Così, senza nulla togliere alle indagini svolte, se poi in concreto il Paese in cui è accaduto il grave fatto non rinuncia a procedere a giudizio contro i presunti colpevoli, è evidente che nulla potranno i PM italiani per rinviare a giudizio i medesimi e i colpevoli saranno giudicati nel Paese interessato secondo le regole penalistiche del medesimo.
Di fatto raramente i Paesi rinunciano al giudizio salvo casi di Paesi in evidenti difficoltà, es. processo per omicidio Alpi-Hrovatin in Somalia, la giornalista assassinata in Afghanistan, etc. Alcuni Paesi diciamo occidentali e democratici prevedono poi la rinuncia al giudizio e lo svolgimento del processo nel Paese del soggetto leso se anche i colpevoli sono di quel Paese, ad esempio il caso della studentessa italiana morta in gita scolastica in Spagna a seguito di supposta tentata violenza sessuale da parte dei compagni di classe italiani. Il relativo processo si svolge ad Arezzo, città di residenza degli imputati. Al contrario, la Polonia avrebbe voluto giudicare i 4 neri colpevoli dello stupro di Rimini, ma il cpp italiano non prevede alcuna rinuncia all'azione penale e quindi necessariamente sono stati giudicati in Italia. Quindi la rinuncia è ben rara e anche nel caso Regeni è ben possibile che l'Egitto impedisca qualsivoglia giudizio italiano gestendo una propria indagine e magari anche un processo, magari farsa (che peraltro pure si potrà concludere con l'assoluzione) di qualche capro espiatorio, cosi di fatto facendo scattare il ne bis in idem per l'Italia.”

lunedì 26 novembre 2018

Barbara Slagorska Berardi aveva ragione?

La casa di Fratta Todina in cui abitava nel 1977 Barbara Slagorska Berardi

La signora di Fratta Todina, che scrisse nell’aprile del 1977 al governo cecoslovacco per denunciare futuri attentati, forse aveva ragione. Forse aveva visto qualcosa e ora quel qualcosa è emerso.
Partiamo dalla fine di questa storia, che ricostruiamo grazie agli archivi della Stampa e dell’Unità. Il 12 dicembre del 2000 due uomini rapinano una banca di Todi, la filiale del Monte dei Paschi di Siena. Si prendono 25 milioni di vecchie lire, poi fuggono. Ma si imbattono in un maresciallo dei carabinieri, che gli intima l’alt, spara. I due ladri tirano fuori la pistola e rispondono al fuoco. Parte l’inseguimento. I ladri rubano un’auto, tamponano, poi ne rubano un’altra e alla fine vanno a sbattere e si arrendono. Uno si dichiara subito prigioniero politico. Sembrano tornati gli anni di Piombo. I due sono vecchie conoscenze, ci racconta Francesco Grignetti della Stampa. Si chiamano Giorgio Panizzari (colui che si è dichiarato prigioniero politico), fondatore dei Nap, il gruppo terroristico nato nelle carceri, e Leonardo Viganò, ex terrorista dei Nar. Rossi e neri insieme. Nessuno sa che per la Stasi i Nap in realtà erano terroristi di destra.
L’anno prima, il 1999, l’Italia è ripiombata nell’incubo con l’omicidio D’Antona, rivendicato dalle Nuove Brigate Rosse. Dopo il colpo fallito alla banca di Todi, in molti sospettano che Panizzari sia uno dei leader del redivivo nucleo terroristico. I magistrati ipotizzano che abbia partecipato anche all’uccisione di D’Antona, il consulente del ministro Bassolino. Ne avrebbero ottime ragioni. L’ex nappista, dopo essere stato a lungo in prigione, nel 1998 è stato graziato dal presidente della repubblica Scalfaro (il processo per l’omicidio del gioielliere nel 1970 fu molto discusso negli ambienti di sinistra), e al momento del delitto è già libero. Lavora a progetti informatici. Uscito in semilibertà nel 1994, secondo gli investigatori aveva già rapinato altre banche, e sempre accompagnando i terroristi neri dei Nar. Ma poi in Appello era stato assolto.
Nel 2003 accade un nuovo episodio che segna il destino delle indagini sul delitto D’Antona. A raccontarci questa storia è Laura Montanari della Repubblica. Il 2 marzo di quell’anno due brigatisti, Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, stanno viaggiando sotto falso nome sul treno Roma-Firenze, quando incappano in un controllo di routine della Polfer. Galesi fornisce al poliziotto i suoi documenti, ma si sente spacciato. Verrà scoperto e denunciato. Tira fuori la pistola e spara, uccidendo il sovrintendente Emanuele Petri, di soli 48 anni. Nel conflitto a fuoco perde la vita anche lui. La Lioce si salva e viene arrestata. Si dichiara prigioniera politica, naturalmente.
Le indagini portano ad altri membri delle Nuove Brigate Rosse. Sul banco degli imputati del delitto D’Antona ci finiscono, a questo punto, questi terroristi molto tecnologici. La Lioce viaggiava col suo inseparabile palmare, pieno di documenti. Tutto porterebbe verso un legame con Panizzari, invece l’accostamento dei rossi Nap e dei neri Nar, suggerito dalle sue rapine, viene completamente dimenticato. Anche Todi, la cittadina umbra che l’ex Nap aveva scelto per svaligiare la banca, poteva non essere frutto del caso. Certo, si tratta di un posto tranquillo nella verde Umbria. Ma è anche a soli 76 chilometri da Rieti. E più o meno alla stessa distanza da Torri in Sabina, dove la magistratura aveva scoperto un particolare volto dell’eversione italiana. Si dice che l’assassino torni sempre sul luogo del delitto. Chissà, magari a volte succede.
Dobbiamo tornare ancora indietro, al 1979. Il 31 luglio esce su tutti i quotidiani italiani la notizia che la magistratura sta ricostruendo i mille volti di questo terrorismo nostrano. Dopo aver intuito che i rossi collaborano con il gruppo nero di Terza Posizione, gli inquirenti sono arrivati a un nuovo punto di svolta. Questi comunisti delle Unità Combattenti Comuniste (dette UCC) hanno un intermediario che li aiuta: è la ndrangheta calabrese di don Mancuso (curiosa l’omonimia con il monte calabrese su cui sorgeva la base della NATO). Ma come si è arrivati a questa certezza e cosa c’entra l’Umbria in tutto questo, a parte la vicinanza chilometrica? A indagare ormai ci sono svariati giudici: Giovanni Canzio, Mario Amato, e poi Domenico Sica e Ferdinando Imposimato. Fabrizio Carbone della Stampa ci informa quel 31 luglio 1979 che l’inchiesta è partita dall’omicidio di un militare di leva, tale Giuseppe Andria, che avrebbe avuto il ruolo del telefonista in alcuni sequestri e che, insistendo per avere il suo pagamento, fu ucciso dalla ndrangheta. Si è così giunti a scoprire un casolare a Vescovio, vicino Torri in Sabina, che fungeva da base delle Unità Combattenti Comuniste. Sarebbe stata la stessa ndrangheta a fare la soffiata, per sbarazzarsi di un gruppo divenuto scomodo. Ora quindi emergono tre figure nuove del terrorismo: Ina Maria Pecchia e due cugini, Piero e Gian Pietro Bonano. Appartengono al gruppo di Potere Operaio, del quale fanno parte anche Valerio Morucci e Adriana Faranda. Si comincia a vociferare che dalle UCC siano partiti ingenti fondi in denaro per il gruppo culturale Metropoli di Scalzone, Piperno e Negri. Sarà vero? A noi non interessa, per il momento. E’ molto importante invece la parte finale dell’articolo di Fabrizio Carbone. Durante le indagini nel casolare di Vescovio, di proprietà della Pecchia e dei Bonano, sono stati rinvenuti documenti contraffatti e armi. Gli indagati probabilmente stanno parlando e hanno fornito indicazioni al generale dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, per trovare un’altra base delle UCC, che si trova in Umbria, a Pantalla di Todi. Si tratta di un borgo medievale attaccato a Fratta Todina, quello da cui era partita la denuncia della signora Slagorska Berardi.
Dunque, la donna settantenne aveva ragione? Quando la signora Slagorska Berardi, parlando con la spia dell’Stb, raccontava di macchine che si fermavano a Fratta Todina e caricavano armi, si riferiva a un passaggio di automobili che si dirigevano a Pantalla di Todi? I tempi coinciderebbero. Un articolo delle pagine locali dell’Unità, sempre datato 31 luglio 1979, precisava che i tre proprietari del casolare di Pantalla avevano effettuato l’acquisto nel 1977, pagandolo due milioni e mezzo di vecchie lire. Quando il generale Dalla Chiesa rinvenne quel covo lo trovò vuoto. Era stato mai utilizzato? Gli inquirenti rimasero colpiti da un cunicolo di quattro metri che poteva servire per nascondere armi e prigionieri.
Luigi Ceccobelli, l’uomo accusato dalla Slagorska Berardi, ha sostenuto nella mia intervista che in Umbria non era pensabile che vi fossero campi di addestramento per neofascisti. Questi fatti lo smentiscono in parte, anche se vanno precisate alcune cose. Se si prendesse alla lettera l’accusa della signora Berardi, anche i carabinieri sarebbero coinvolti nel terrorismo, poiché la donna non li considerava affidabili, tant’è che si rivolse alle spie della ex Cecoslovacchia. Mentre abbiamo appena visto che furono i carabinieri di Dalla Chiesa a scoprire il covo di Pantalla di Todi. Inoltre, nessuno dei nomi che le spie dell’Stb scrissero nei loro rapporti compare nella lista degli indagati della magistratura di Rieti. Né Ceccobelli, né i suoi presunti complici, tra cui figurava persino un fotografo famoso come Rodrigo Pais. Ciò significa che le due storie sono completamente diverse, come sostiene lo stesso Ceccobelli, oppure che sugli intrighi che coinvolgevano neri, rossi e mafiosi ci sono dei capitoli ancora da scrivere.

sabato 10 novembre 2018

La “geometrica potenza” di... Bin Laden


C’è un personaggio della sinistra violenta degli anni ‘70 che è tornato alla ribalta alcuni anni fa, esattamente il 10 giugno del 2015. Quel giorno qualcuno si era accorto, ma più per fare propaganda elettorale che per altro, che al raduno della nuova formazione politica di Maurizio Landini, Coalizione Sociale, c’era un tale che si chiamava Franco Piperno. Uno che ammirava Landini in quanto gli ricordava il 1968: “Mi fa pensare ai capi operai del '68, ha una partecipazione e un'aggressività che ricorda quel buon odio di classe di una volta.”
Di sparate questo professor Piperno (è un uomo di grande cultura e lo si nota da come scrive) ne aveva fatte altre in tempi meno recenti. Ad esempio, nel 2011 su un quotidiano calabrese era comparso un suo articolo sull’11 settembre 2001, nel quale si poteva individuare quasi una rivendicazione dell’attentato al World Trade Center di New York. Scrisse a un certo punto questa frase: “Come si fa ad onorare i mercenari americani che per mestiere uccidono, utilizzando i droni per non correre alcun rischio; uccidono, per la mercede, esseri umani che non hanno alcun motivo di odiare; mentre andrebbero considerati vili quel pugno audace di intellettuali – alcuni di loro avevano perfino superato l’esame di fluidodinamica - che, utilizzando dei temperini, si impadroniscono di quattro enormi aerei di linea, facendo fronte agli equipaggi e a centinaia di passeggeri, per uccidersi ed uccidere, schiantandosi sui quei mostri di vetro e cemento simboli dell’impero americano?” Secondo Piperno erano stati, non dei terroristi, bensì degli intellettuali arabi a compiere l’attacco, e il risultato era la distruzione dei mostri di cemento simbolo del capitalismo. Era tornato il linguaggio di Potere Operaio. Lo stesso che Piperno adoperò per descrivere la strage di via Fani, del 16 marzo 1978: “La geometrica potenza dispiegata in via Fani”.
Franco Piperno è nato nel 1943 a Catanzaro ed è stato il fondatore, insieme a Toni Negri, del gruppo politico Potere Operaio, divenendone leader con Oreste Scalzone, Lanfranco Pace e Valerio Morucci. In un’intervista andata in onda sulla Rai nel 1983, Giovanni Minoli lo definì, “La testa pensante dell’Autonomia”, e anche “la primula rossa dell’eversione”, perché quando fu spiccato il mandato di cattura nei suoi confronti, per l’appartenenza al terrorismo, era fuggito all’estero, in Francia. Era la fine degli anni ‘70, Piperno era già un professore di Fisica dell’Università di Cosenza. Fu colui che più di tutti teorizzava la militarizzazione del movimento Potere Operaio e sognava un’insurrezione armata, che, appunto, coniugasse la “geometrica potenza” di via Fani con le proteste giovanili del 1977.
Dei tanti capi di imputazione a suo carico (sui quali disse a Minoli che non esisteva alcuna prova concreta), il più inquietante e interessante dal punto di vista storico era l’accusa di aver partecipato al delitto Moro. Tutto era nato dalla deposizione di Giuliana Conforto, che nel 1979 aveva ospitato a casa sua, in viale Giulio Cesare a Roma, i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, ed era stata per questo arrestata. La Conforto, si scoprirà solo nel 1999, era la figlia di una spia del KGB, Giorgio Conforto, nome in codice “Dario”, un comunista che in passato aveva creato un’insospettabile rete di spie attraverso dattilografe assunte nei ministeri italiani. “La donna - scrisse Mitrokhin nel suo archivio a proposito di Giuliana Conforto - aveva funto da custode di un appartamento adoperato dai terroristi e, come si chiarì in seguito, era stata usata a sua insaputa. Conforto non sapeva del legame di sua figlia con i terroristi e si trovava nell'appartamento della figlia quando questa venne arrestata insieme alle altre due terroriste. La Residentura del KGB prese nota di questo fatto e, considerando che la circostanza poteva far sì che lo stesso Conforto fosse interrogato dai Servizi Speciali italiani, lo congelò nuovamente.”
Da queste parole non sembra affatto chiaro se Piperno fosse al servizio del KGB quando fondò Potere Operaio, né se la strage di via Fani a cui parteciparono Morucci e la Faranda fosse stata progettata dai russi. Tuttavia le polemiche nel 1999, alla pubblicazione dell’archivio Mitrokhin, furono roventi. Secondo un articolo della Stampa del 14 ottobre 1999, intitolato “Il giallo dei fascicoli scomparsi”, il deputato Enzo Fragalà di Alleanza Nazionale aveva rispolverato un vecchio rapporto della Digos del 1979 nel quale si affermava che Giuliana Conforto era amica di Luciana Bozzi, proprietaria di un altro appartamento delle Brigate Rosse scoperto prima della morte del presidente Moro, quello di via Gradoli. Entrambe le donne lavoravano al centro nucleare Enea Casaccia. Per la Digos c’era “la mano” di Franco Piperno.
Con le conoscenze da noi acquisite possiamo affermare che l’onorevole Fragalà aveva ragione a essere sospettoso, anche se restano diverse zone d’ombra. Intanto, la presenza di Piperno nel centro nucleare (è certo che vi compilò la tesi di laurea) poteva non essere casuale. Abbiamo visto nel dossier cecoslovacco come per i sovietici il terrorismo fosse un’invenzione degli Stati Uniti e che considerassero gli esperimenti nucleari occidentali i maggiori ostacoli alla pace internazionale. Quindi il centro Enea Casaccia era un punto strategico in cui inserire un informatore. Basti pensare che al progetto Tokamak dell’Enea lavorava anche il dissidente russo Andrej Sacharov. Inoltre nel libro di Luigi Manconi “Vivere con il terrorismo” abbiamo trovato un’altra notizia: Morucci e la Faranda si trovavano in casa di Giuliana Conforto poiché stavano allontanandosi dalla lotta armata. Lo affermava all’epoca, era il 1980, quello che Manconi chiamava “il clandestino”: Claudio F., un terrorista che raccontava la sua vita passata a progettare attentati, difendendo la sua scelta. Alla clandestinità si può liberamente rinunciare, questo era il concetto. Ma era probabilmente una sua illusione. I due terroristi arrestati in viale Giulio Cesare a casa della Conforto avevano - secondo Claudio F. - commesso solo l’errore di portare con loro le armi.
Dunque Giorgio Conforto poteva benissimo non sapere che Morucci e la Faranda, allontanandosi dalle Brigate Rosse, fossero finiti in casa di sua figlia. Perché, come spiegava Claire Sterling, il KGB cercava di evitare il più possibile i contatti diretti con le organizzazioni eversive. Ben più interessante è poi la scoperta, avvenuta sempre nel 1979, di un collegamento diretto tra le azioni del terrorismo rosso e la Ndrangheta. Ancora una volta era dalla provincia di Rieti che emergeva la verità. L’allora sostituto procuratore Domenico Sica aveva intuito che un gruppo di terroristi di Vescovio (Rieti), che agiva sotto la sigla delle Unità Combattenti Comuniste (UCC), era in stretto contatto con i “picciotti” calabresi, e tra i sospettati vi era anche l’ex moglie di Franco Piperno, Fiora Pirri Ardizzone. Fu arrestata a Licoli (Napoli) il 7 aprile del 1978 in una base di Prima Linea insieme a Lanfranco Caminiti. Nel casolare di Vescovio furono trovati documenti appartenenti allo stesso stock di via Gradoli.
Nonostante questi progressi, le indagini su Franco Piperno non fecero molta strada. Negli anni ‘80 il fondatore di Potere Operaio si rifugiò in Francia e poi in Canada. Il carcere italiano ebbe poche occasioni per conoscerlo. Quando rientrò nel nostro paese, stando a quanto scrive Wikipedia, la sua pena, due anni per “partecipazione ad associazione sovversiva”, era ormai prescritta. Un curioso trafiletto della Stampa dell’8 marzo 1998 titolava: “Franco Piperno riabilitato dal tribunale, non è più sovversivo”. Come Silvio Berlusconi, dopo aver evitato il carcere, aveva avviato la procedura per cancellare gli effetti della condanna penale, in modo da tornare candidamente a fare politica. “Mi sono sottoposto a questo stupido rito della riabilitazione perché ho una passione politica e civile per il mio paese e voglio partecipare”, disse nel virgolettato della Stampa, non sapendo che quello “stupido rito” lo avrebbe scelto, con molto più entusiasmo, anche il Cavaliere. E’ quindi diventato assessore alla cultura del comune di Cosenza e all’elezione per la presidenza della repubblica del 2006, pensate un po’, ricevette in totale cinque voti. Quello che scriveva Lino Jannuzzi su Tempo stava per divenire realtà: abbiamo rischiato seriamente di diventare tutti brigatisti.