venerdì 31 agosto 2018

“Ponte Morandi”, il ruolo del Vaticano


Sul crollo del Ponte Morandi sulla A10 di Genova la stampa estera è molto dura. Gli inglesi chiamano in causa in questi giorni nei loro articoli la mafia siciliana. Secondo alcuni esperti britannici, tra cui Dave Parker, accademico di Belfast ma anche editore e giornalista, il ponte negli anni ‘60 sarebbe stato costruito con materiali scadenti per risparmiare.
Ma quali prove esistono che sia stata questa la causa della tragedia del 14 agosto 2018? Avevamo scritto che Michele Sindona fu proprietario per un certo periodo di Condotte d’acqua e che la ditta fu probabilmente usata per coprire i debiti di altre aziende del finanziere siciliano, complice, si disse, l’IRI. Questa è sicuramente una conferma che la pista mafiosa battuta dagli inglesi non è affatto una bufala. Avevamo anche scritto come data indicativa dell’ingresso di Sindona il 1969.
Lo confermiamo. A fornirci questa certezza è un articolo dell’archivio del quotidiano La Stampa. Il 30 ottobre del 1969 venne data la notizia delle dimissioni del consiglio di amministrazione di Condotte d’acqua e del subentro di altri tre personaggi. Tra questi figurava proprio Michele Sindona. Ma c’è dell’altro da dire. Insieme a Michele Sindona stava rilevando la ditta costruttrice del Ponte Morandi anche un suo uomo di fiducia, Massimo Spada, che tuttavia era anche un importante esponente del Vaticano. Significa che c’è una continuità tra la gestione precedente, durante la quale fu costruito il ponte sul Polcevera, e quella successiva. La Santa Sede, infatti, fino a quel momento, il 1969 appunto, figurava come proprietaria di Condotte d’acqua insieme a Bastogi. Il presidente si chiamava Giovanni Battista Sacchetti, una personalità del Vaticano. Nomi a parte, delle ditte proprietarie di Condotte d’acqua si era parlato anche di recente sui giornali (ma prima del crollo del ponte), in seguito al disastroso stato di crisi in cui versa questa storica azienda, con arresti per corruzione (il 14 marzo è stato messo in galera il presidente Duccio Astaldi), e accuse che all’estero parlano proprio di gestione mafiosa nella costruzione di tunnel.
Ma torniamo al 1969, quando di mafia ancora non si parlava. Anche perché il proprietario di Condotte d’acqua era la Santa Sede del Vaticano, in poche parole il Papa Paolo VI. E se il Vaticano con Massimo Spada continuava a gestire gli affari della ditta romana costruttrice del ponte di Genova, c’era un altro uomo, e avevamo detto anche questo, che era ai vertici di Condotte d’acqua negli anni ‘60 e vi rimarrà anche con Sindona, Loris Corbi: passava da vice-presidente e direttore generale a presidente e amministratore delegato.
Ma chi era Massimo Spada? Il 7 ottobre 1980 sul quotidiano La Stampa usciva la notizia dell’interrogatorio di questo dirigente sindoniano. I magistrati in quel momento indagavano sul crac delle aziende del mafioso italo-americano. Spada aveva 75 anni ed era presidente della Banca Cattolica del Veneto, vicepresidente e membro dell’esecutivo della Banca privata finanziaria e anche dell’esecutivo della Banca Unione. Il giornalista della Stampa precisava che le ultime due erano creature “dell’avvocato di Patti”, di Sindona. Infine, quale ulteriore legame con il Vaticano, Spada era rappresentante dell’Istituto opere di religione. Un ulteriore ritratto di Spada veniva disegnato dal grande accusatore di Sindona, Carlo Bordoni. Mi sembra il caso di riportare integralmente quanto fu virgolettato quel giorno del 1980 dalla Stampa: “Uomo di Sindona al 100 per centro, schiavo dello stesso che lo ricattava sia pur pagandolo profumatamente bene. Uomo di punta del Vaticano, del Banco di Roma, e di una infinità di altre banche nelle quali la Santa Sede o Sindona avevano degli interessi, a parte le innumerevoli altre cariche che egli ricopriva nelle varie società del gruppo Sindona.” “Spada era inoltre - proseguiva Bordoni - l’uomo di Sindona che conosceva nei minimi dettagli tutte le rocambolesche transazioni finanziarie italiane ed estere del suo ‘amico Michele’, come egli lo chiamava”.
Di questa storia si sono occupati libri e articoli di giornale, che trovate tranquillamente online. Quello che a noi interessava dimostrare era che Condotte d’acqua non fu acquistata da Sindona solo per caso, per un anno, per poi cederla all’IRI, ma era sicuramente inserita nel disegno criminale del mafioso italo-americano. Inoltre i due personaggi di cui abbiamo parlato, Corbi e Spada, dimostrano che la Santa Sede, sebbene non possa essere accusata di aver costruito il ponte Morandi con materiali scadenti, era certamente legata a Michele Sindona già prima del passaggio di consegne nell’ottobre 1969. Ciò avveniva attraverso il ruolo primario svolto, prima e dopo, da Loris Corbi, e per la presenza di un esponente del Vaticano del calibro di Massimo Spada anche dopo la vendita di Condotte d’acqua a Sindona.

Un altro nome ricorrente nella storia di Condotte d'acqua è Fintecna. Fu questa azienda-contenitore del gruppo IRI a privatizzarla nel 1997 cedendola alla Ferrocemento costruzioni e lavori pubblici. Ma Fintecna si era occupata anche della manutenzione di Ponte Morandi, in particolare nel 1993 (probabilmente appaltando i lavori a un privato), e ora rischia di tornare ad occuparsene, dopo tutto quello che è successo a Genova, grazie all'intervento statale di Cassa Depositi e Prestiti invocato dal governo grillino. Fintecna è infatti controllata da questa banca pubblica protagonista assoluta della politica italiana. E si tornerebbe al punto di partenza, o almeno agli anni Settanta.

mercoledì 29 agosto 2018

La destra complice dei palestinesi nelle stragi?

Il campo di addestramento palestinese in Libano, per i terroristi neofascisti, come si presenta oggi sulle "mappe" dei telefonini.

La strage di Bologna del 2 agosto 1980 fu opera dei palestinesi, ma in collaborazione con i neofascisti. Uno dei più gravi attentati avvenuti in Italia potrebbe avere una soluzione definitiva e sorprendente.
Erano le 10 e 25 e faceva molto caldo, quel giorno. All’improvviso una miscela di esplosivo di circa 30 chili scoppiò nella sala di attesa della stazione di Bologna, mentre intere famiglie si spostavano verso le località di villeggiatura. L’esito del vile gesto dei terroristi fu la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200.
Nelle prime ore vi furono due rivendicazioni telefoniche, una dei NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari della destra, e una delle BR, le Brigate Rosse della sinistra. Entrambe le rivendicazioni furono smentite da successivi comunicati. Ma gli inquirenti puntarono subito sulla pista neofascista. Vi furono depistaggi dei servizi segreti, ma per la magistratura gli esecutori materiali potevano essere solo tre: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro dei NAR, con la complicità di Luigi Ciavardini (fonte L'Espresso e Wikipedia). Ma chi erano i mandanti politici dell’attentato? E perché far morire così 85 persone inermi? Su questo le indagini sono state insufficienti e nei giorni scorsi i quotidiani in occasione del 38esimo anniversario della strage lo hanno sottolineato polemicamente.
Eppure una risposta era disponibile sui libri fin dal 1983. Il giornalista francese Edouard Sablier era certo che il mandante dell’attentato di Bologna fosse Abou Ayad, definito da Sablier “il più vicino collaboratore di Yasser Arafat”, il capo dell’Olp, ossia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. L’autore del libro, che si intitola “Il filo rosso”, individuava quattro gruppi di terroristi agli ordini dei palestinesi dell’OLP: i marxisti-leninisti che combattevano una guerriglia urbana nei paesi industrializzati, come la banda Baader-Meinhof e le Brigate Rosse, i guerriglieri che combattevano fuori dalle città nei paesi in via di sviluppo, come in Asia e America Latina, i separatisti europei, come i baschi dell’Eta o gli irlandesi dell’Ira, e infine un quarto gruppo comprendente i neofascisti italiani, francesi e tedeschi.
Il quartier generale di tutti questi gruppi era il Libano, dilaniato da una guerra civile tra cristiano-maroniti e rifugiati palestinesi. I gruppi di sinistra venivano addestrati nel campo palestinese di Chatila, quelli di destra, tra cui anche i lupi grigi turchi come l’attentatore del Papa, Alì Agca, a Bir Hassan. In Francia, Italia e Germania secondo Sablier avvenne una collaborazione tra terroristi di destra e di sinistra che portò non solo alla strage di Bologna, ma anche agli attentati dell’Oktoberfest di Monaco e della sinagoga della Rue Copernic di Parigi. A progettare queste stragi fu sempre Abou Ayad. La fonte di queste informazioni fu Walter Ulrich Behle, un terrorista neonazista tedesco catturato dai cristiani-maroniti del Libano nel 1981.
Ma allora perché questi neofascisti, e i due nomi indicati dalla magistratura, Mambro e Fioravanti, possono rientrare benissimo anche in questo nuovo scenario, avrebbero ucciso decine di persone insieme ai palestinesi? Per poter rispondere mi sono andato a guardare su Youtube diverse trasmissioni televisive, tra cui “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli. Di una complicità palestinese si era parlato già altre volte. La stessa storia raccontata da Sablier, della confessione di Behle, è presente nella sentenza emessa dalla Corte di Assise di Bologna dell’11 luglio del 1988. Nell’elenco dei fatti di quei giorni del 1980-81 compare una notizia Ansa, fatta girare negli ambienti inquirenti dalla Questura di Bologna il 25 giugno 1981, nella quale venivano riportate le dichiarazioni del falangista palestinese Naum Farah, che accusava Abou Ayad sia della strage di Bologna che di quella di Monaco, dicendo le stesse cose di Behle, pur senza specificare che si trattava di terroristi neofascisti. L’indiscrezione non ebbe seguito.
La Commissione Mitrokhin negli anni duemila tornò sulla vicenda. Il giornalista Gian Paolo Pellizzaro, consulente della Mitrokhin, alla fine dei suoi studi affermò che per la bomba di Bologna i responsabili erano Carlos “Lo sciacallo” e il suo gruppo tedesco-palestinese, sempre legato al Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp) di Habash. Questa tesi si scontrò con numerose obiezioni da parte dei politici dell’attuale sinistra. Lo scetticismo era dovuto a un accordo segreto noto ormai alle cronache come “Il lodo Moro”. Si trattava di un patto di non aggressione firmato dal democristiano Aldo Moro con l’Olp, secondo il quale i palestinesi si impegnavano a far passare armi in Italia, ma senza usarle contro il nostro paese. Pellizzaro sostenne che quel patto venne interrotto per l’arresto in Italia di un palestinese all’inizio del 1980.
Edouard Sablier fornisce a mio avviso una risposta assai più precisa. Innanzitutto stipulare un patto con l’Olp non escludeva affatto la possibilità di subire attentati, poiché i palestinesi erano divisi in svariati gruppi in lotta sanguinosa tra di loro, e il Fronte del rifiuto, come veniva chiamato il Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp) di George Habash e Wadi Haddad, di cui parlo spesso anch’io, non accettava che si stabilissero accordi con il nemico occidentale o israeliano, perché il suo scopo principale non era la liberazione della Palestina bensì la guerra permanente negli stati occidentali. Ma non solo. Nel maggio 1972 avvenne il “patto di Badawi”. George Habash invitò tutti i rappresentanti dei gruppi terroristici in Libano per programmare una lotta comune contro il nemico occidentale, in cui ogni gruppo sarebbe andato in soccorso dell’altro. “Il patto di Badawi - scrisse Sablier - è l’atto di nascita ufficiale del terrorismo mondiale”. Ma dietro a tutta questa struttura, che non escludeva certo i neofascisti, come sottolineò anche il segretario di stato americano nell’era Reagan, Alexander Haig, c’erano i russi del KGB e i cubani di Fidel Castro. Certamente non gli americani.
Ma è veramente così? Io credo che la caratteristica del terrorismo degli anni Settanta che si delinea dalla mia indagine “impossibile” sia una certa trasversalità, cioè un legame bipartisan tra fronti ideologicamente opposti. Un’interconnessione segreta che ha impedito, come denunciarono gli stessi autori dei due ottimi libri sul terrorismo internazionale, Sablier e la Sterling, che si facesse piena luce sugli scopi politici del terrorismo. Infatti la collaborazione tra estrema destra ed estrema sinistra cui accenna Sablier la si ritrova anche nella relazione della Stasi sui gruppi terroristici italiani. Alla voce NAR, ecco cosa si poteva leggere: “Cellule Armate Rivoluzionarie” (NAR). Fu chiamato anche il “gemello delle Brigate Rosse” e considerato l'organizzatore del “Terrore Nero”. A fondare i “NAR” fu Franco Anselmi. Secondo alcuni esperti dell'anti-terrorismo italiano vi confluirono “membri delusi dal “MSI” che voltarono le spalle alla politica legale, dedicandosi alla lotta contro il sistema. Si sapeva anche di una collaborazione che il capo dei “NAR” aveva con le “Brigate Rosse”.”
Qualche dubbio bisogna porselo prima di dare per chiusa la faccenda: come poteva un servizio segreto comunista, in combutta con il KGB, fornire la stessa analisi sul terrorismo del segretario di Ronald Reagan? Alcuni servizi di spionaggio dei paesi socialisti non erano al corrente dei piani del KGB? Può darsi. Oppure entrambi, USA e URSS, avevano interesse a far proseguire il terrorismo palestinese in Europa. Lo potrebbe dimostrare l’inchiesta sullo scambio armi-droga del giudice Carlo Palermo, nella quale erano implicati sia uomini della loggia P2 italiana, sia uomini della CIA, il servizio segreto americano, sia industrie della Cecoslovacchia, come la Merkuria, una ditta di Praga che scambiava prodotti di ingegneria, o armi, con beni di prima necessità da distribuire in patria. Le armi partivano per il Medio Oriente con la mediazione di oscuri personaggi siriani legati al regime di Assad, e tramite una ditta bulgara chiamata Kintex. Ma un simile traffico era possibile soprattutto grazie alla copertura garantita dalla mafia siciliana.
Un altro capitolo riguarda i risvolti politici di un possibile legame tra la destra e i palestinesi. Non bisogna dimenticare quei personaggi italiani che giustificarono la violenza del terrorismo palestinese. Bettino Craxi nel novembre del 1985 fece in Parlamento dichiarazioni molto contestate. In un clima politico certamente più formale e meno violento di quello attuale, l’aver parlato di “legittimità” della lotta palestinese non poteva passare inosservato. Che fine avrebbe fatto il leader del Partito Socialista, se oltre al coinvolgimento di alcuni suoi uomini dello scandalo armi-droga si fosse anche saputo che i mandanti della strage di Bologna erano proprio palestinesi? Bisognerà infine rianalizzare sotto una nuova luce la notizia uscita nel 2018 sull’Espresso, secondo la quale Arafat, nel suo diario, avrebbe annotato che Silvio Berlusconi pagò a Craxi i famosi 10 miliardi dello scandalo All-Iberian per finanziare l’Olp. La destra che siede oggi in Parlamento è complice del terrorismo palestinese?

Un discorso a parte va fatto sul presunto depistaggio dei servizi segreti. Nella sentenza dell’11 luglio del 1988 si possono leggere le motivazioni con cui i vertici dei servizi furono condannati per aver simulato un attentato nel 1981. In pratica avvenne questo: fu trovata nella stazione di Bologna il 13 gennaio 1981, sull’Espresso 514, una valigetta contenente lo stesso esplosivo usato sempre a Bologna il 2 agosto 1980, e il Sismi ritenne che potesse essere opera di un’organizzazione internazionale pronta a una serie di attentati sui treni. Di questo gruppo terroristico avrebbero fatto parte membri spagnoli dell’Eta, i quali avrebbero rubato 8 quintali di esplosivo in Spagna il 26 luglio 1980, ma sarebbero stati inclusi anche noti terroristi di destra, come Marco Affatigato, svariati esponenti del Fane, un gruppo considerato vicino ai servizi segreti francesi, e neonazisti tedeschi. Tra questi ultimi compare anche Walter Ulrich Behle, anche se il nome risulta storpiato forse per un errore di trascrizione, che fu catturato dai libanesi e, come abbiamo visto, rivelò la pista palestinese per svariati attentati di quel periodo.
Se gli inquirenti avessero seguito la pista indicata dai servizi segreti italiani, senza per questo entrare nel dettaglio delle indagini su quella valigetta e su chi l’avesse confezionata, avrebbero scoperto quella rete internazionale che si trova descritta su tutti i libri redatti da giornalisti e storici di fama mondiale. Male, insomma, non avrebbero fatto, visto che qualche anno più tardi vi fu l’ultimo grande attentato terroristico proprio su un treno, il famoso Rapido 904 del 23 dicembre 1984.
Ancora una volta, a mio personale giudizio, dopo l’informativa sulla strage di piazza Fontana, dai servizi segreti era arrivata l’informazione più vicina alla verità storica, ma era stata ignorata. Ciò non toglie che il mondo dello spionaggio e del controspionaggio fosse torbido e diviso in clan, fazioni che probabilmente difendevano un’ideologia politica. Mi riferisco alla fazione andreottiana di Gian Adelio Maletti contrapposta a quella di Vito Miceli, che era apertamente filo-arabo e filo-libico. Fu Miceli, secondo quanto si legge su Wikipedia, a far firmare al famoso (perché le cronache parlano spesso di lui) colonnello Stefano Giovannone quel patto di non belligeranza con i palestinesi dell’Olp. Per la precisione fu proprio George Habash del Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp) la controparte del Lodo Moro. Con Habash c’erano Bassam Abu Sharif, portavoce dell’Fplp e consigliere di Arafat all’Olp, e infine Abu Anzeh Saleh, rappresentante dell’Fplp che risiedeva proprio a Bologna. Ed era sempre Saleh il palestinese arrestato a Ortona, insieme a membri di Autonomia Operaia, per detenzione di missili. L'incidente avvenne poco prima della strage di Bologna. Ciò, secondo la commissione Mitrokhin, avrebbe fatto saltare il Lodo Moro e dato il via libera agli attentati palestinesi anche in Italia. 
 

domenica 19 agosto 2018

Il ponte Morandi negli affari di Sindona?


Clamoroso, il ponte Morandi di Genova fu costruito da una società che Michele Sindona rilevò nel 1969 e che l'IRI, comprandola a sua volta, usò per coprire i buchi di altre ditte di Sindona in fallimento, come la famosa Immobiliare. Si levarono all'epoca, era l'agosto del 1977, voci che fosse lo stesso Sindona a spingere l'IRI verso operazioni di salvataggio delle sue aziende in crisi. Voci che venivano smentite seccamente.
L’ho scoperto curiosando nel solito archivio del quotidiano La Stampa, colpito come tutti gli italiani dalla tragedia del 14 agosto 2018, con la morte di 43 persone nel crollo del viadotto “Polcevera” o “ponte Morandi” dell’autostrada A10.
Il viadotto maledetto era stato inaugurato cinquant’anni prima, nel settembre del 1967. E’ stato il TG5 a mostrare nei giorni scorsi il titolo del quotidiano torinese su quello storico giorno. Pioveva a dirotto mentre il presidente della repubblica, il socialdemocratico Saragat, percorreva per la prima volta quel tratto avveniristico di autostrada. Il ponte, progettato come tanti altri dalla mente dell’ingegner Riccardo Morandi, fu realizzato dalla società “Condotte d’acqua” per conto dell’IRI, ente pubblico titolare delle autostrade italiane. Saragat quel giorno corse ad abbracciare i tecnici della società, per ringraziarli di aver costruito un’opera la quale, a loro dire, sarebbe dovuta durare per millenni come i ponti romani, e che non avrebbe avuto bisogno di manutenzione.
Il presidente di “Condotte d’acqua”, ditta che costruì molte opere soprattutto in Piemonte, all’epoca era Loris Corbi e vi rimase anche sotto la gestione di Sindona, e poi con l'IRI. "Condotte d'acqua" dal 1969 era stata rilevata dal discusso finanziere siciliano. Nel 1985 Loris Corbi fu chiamato a testimoniare al processo per la morte di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore del tribunale fatto uccidere da Sindona affinché non ponesse fine al suo lavoro di ricostruzione degli affari sporchi del banchiere italo-americano, membro oltretutto della mafia di New York.
Ma che riflessi può avere questa notizia sul crollo del ponte a Genova? La tragedia è avvenuta perché si risparmiò usando materiali scadenti? E’ il dubbio che mi sono posto e a cui come giornalista ho voluto cercare di rispondere. Di fatto proprio nel periodo in cui le ditte di Sindona entravano in crisi, dal 1977 in poi, e il tribunale con Ambrosoli tentava di salvaguardare i creditori, anche sul ponte Morandi iniziavano i primi problemi. Il TG5 ha pubblicato il documento con cui l’ingegner Morandi, nel 1979, ammetteva che la sua opera aveva bisogno di restauri, opere di cui si incaricava nel 1981 la stessa IRI, che nel frattempo aveva rilevato da Sindona la stessa società “Condotte d’acqua” e aveva cercato di privatizzarla, senza successo per l'opposizione dei sindacati, cercando in questo modo liquidità per salvare dal fallimento l'Immobiliare. 
Intanto lo Stato pagava: se nel 1967 la costruzione del ponte Morandi aveva portato via dalle casse statali cinque miliardi di vecchie lire, nel 1993 un nuovo intervento di manutenzione, che l’IRI affidò a Fintecna, costò 40 miliardi di vecchie lire, cifra che, sebbene fosse soggetta alla svalutazione della Lira, era già consistente, e che non è lontana dai 20 milioni di euro che la società Autostrade aveva stanziato a maggio 2018 per un futuro restauro che non ebbe il tempo di porre in atto.
Pioveva ancora, come nel 1967, il 14 agosto 2018, mentre 43 persone perdevano la vita nel crollo del ponte Morandi, ripreso da telecamere e finito sotto il vaglio della procura di Genova. Sulle prime qualcuno parlò di attentato: nel video della polizia si notavano dei bagliori che precedevano il crollo di una delle tre torri che reggono il ponte. Bagliori o lampi testimoniati anche da un post su Twitter di Valerio Staffelli di Striscia La Notizia. Erano fulmini dovuti al temporale? O scoppi di linee elettriche che passavano per la superficie stradale? Non lo sappiamo, serviranno i rilievi dei tecnici per dirlo.
Di certo però in questa storia si resta nell’orbita dell’IRI, e inevitabilmente anche di Michele Sindona, che la democristiana IRI tentava di salvare.
Il ponte è una voragine senza fondo che nei decenni ha divorato miliardi di denaro pubblico per manutenzioni a cui si poteva fare a meno, probabilmente, e che nonostante questo ha ucciso 43 persone. Gli sfollati del quartiere di Genova attraversato dai resti del ponte Morandi, ora pericolante, verranno aiutati con uno stanziamento di fondi e di alloggi forniti da Cassa Depositi e Prestiti. Guarda caso questa banca pubblica, di cui mi sono occupato nei miei libri, detiene il 100% anche di Fintecna, la ditta che nel 1993 si prese cura della manutenzione da 40 miliardi di lire del ponte Morandi.
Speriamo per le famiglie delle vittime che le inchieste giudiziarie arrivino a una ricostruzione migliore della nostra. Che facciano finire in prigione, e non solo ai domiciliari come spesso si vede in televisione, i colpevoli della malagestione del ponte, e che non terminino con la solita avvilente archiviazione.