venerdì 30 novembre 2018

Giudicare gli 007 egiziani del caso Regeni: si può?


A norma di legge, processare uno straniero per un delitto avvenuto in una nazione estera è possibile, ma solo in alcuni casi molto gravi. Un simile processo, in ogni caso, non sarebbe così semplice come i mass media italiani vorrebbero far credere. Ecco quanto mi ha risposto un giudice italiano che non vuole essere citato per nome.
“Esiste una sfera di competenza di PM e giudici italiani per perseguire e reprimere reati commessi all'estero in danno di cittadini italiani, nonché anche nel caso di reato commesso all'estero da italiano. Tuttavia tale competenza è di fatto limitata a reati gravi, nel primo caso si parte da minimo 1 anno di reclusione, nel secondo minimo 3 anni di reclusione. Per i reati reati commessi all'estero in danno di cittadini italiani valgono gli articoli 7-10 ss. C.P. (Art. 7. Reati commessi all'estero; Art. 8. Delitto politico commesso all'estero; Art. 9. Delitto comune del cittadino all'estero; Art. 10. Delitto comune dello straniero all'estero). In tutti questi casi, in termini più semplici, il giudice interviene in caso di omicidio o di grave delitto contro la personalità dello Stato italiano.
Questo spiega quindi le indagini italiane sul caso Regeni o su altri omicidi di italiani all'estero ovvero per esempio soggetti sequestrati. La competenza ad indagare comunque non ha niente a che vedere con l'assoggettare a giudizio, posto che tutti i sistemi giudiziari accettano il principio del cd. ne bis in idem per cui nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso fatto da corti diverse e anche di diversi Paesi.
Così, senza nulla togliere alle indagini svolte, se poi in concreto il Paese in cui è accaduto il grave fatto non rinuncia a procedere a giudizio contro i presunti colpevoli, è evidente che nulla potranno i PM italiani per rinviare a giudizio i medesimi e i colpevoli saranno giudicati nel Paese interessato secondo le regole penalistiche del medesimo.
Di fatto raramente i Paesi rinunciano al giudizio salvo casi di Paesi in evidenti difficoltà, es. processo per omicidio Alpi-Hrovatin in Somalia, la giornalista assassinata in Afghanistan, etc. Alcuni Paesi diciamo occidentali e democratici prevedono poi la rinuncia al giudizio e lo svolgimento del processo nel Paese del soggetto leso se anche i colpevoli sono di quel Paese, ad esempio il caso della studentessa italiana morta in gita scolastica in Spagna a seguito di supposta tentata violenza sessuale da parte dei compagni di classe italiani. Il relativo processo si svolge ad Arezzo, città di residenza degli imputati. Al contrario, la Polonia avrebbe voluto giudicare i 4 neri colpevoli dello stupro di Rimini, ma il cpp italiano non prevede alcuna rinuncia all'azione penale e quindi necessariamente sono stati giudicati in Italia. Quindi la rinuncia è ben rara e anche nel caso Regeni è ben possibile che l'Egitto impedisca qualsivoglia giudizio italiano gestendo una propria indagine e magari anche un processo, magari farsa (che peraltro pure si potrà concludere con l'assoluzione) di qualche capro espiatorio, cosi di fatto facendo scattare il ne bis in idem per l'Italia.”

lunedì 26 novembre 2018

Barbara Slagorska Berardi aveva ragione?

La casa di Fratta Todina in cui abitava nel 1977 Barbara Slagorska Berardi

La signora di Fratta Todina, che scrisse nell’aprile del 1977 al governo cecoslovacco per denunciare futuri attentati, forse aveva ragione. Forse aveva visto qualcosa e ora quel qualcosa è emerso.
Partiamo dalla fine di questa storia, che ricostruiamo grazie agli archivi della Stampa e dell’Unità. Il 12 dicembre del 2000 due uomini rapinano una banca di Todi, la filiale del Monte dei Paschi di Siena. Si prendono 25 milioni di vecchie lire, poi fuggono. Ma si imbattono in un maresciallo dei carabinieri, che gli intima l’alt, spara. I due ladri tirano fuori la pistola e rispondono al fuoco. Parte l’inseguimento. I ladri rubano un’auto, tamponano, poi ne rubano un’altra e alla fine vanno a sbattere e si arrendono. Uno si dichiara subito prigioniero politico. Sembrano tornati gli anni di Piombo. I due sono vecchie conoscenze, ci racconta Francesco Grignetti della Stampa. Si chiamano Giorgio Panizzari (colui che si è dichiarato prigioniero politico), fondatore dei Nap, il gruppo terroristico nato nelle carceri, e Leonardo Viganò, ex terrorista dei Nar. Rossi e neri insieme. Nessuno sa che per la Stasi i Nap in realtà erano terroristi di destra.
L’anno prima, il 1999, l’Italia è ripiombata nell’incubo con l’omicidio D’Antona, rivendicato dalle Nuove Brigate Rosse. Dopo il colpo fallito alla banca di Todi, in molti sospettano che Panizzari sia uno dei leader del redivivo nucleo terroristico. I magistrati ipotizzano che abbia partecipato anche all’uccisione di D’Antona, il consulente del ministro Bassolino. Ne avrebbero ottime ragioni. L’ex nappista, dopo essere stato a lungo in prigione, nel 1998 è stato graziato dal presidente della repubblica Scalfaro (il processo per l’omicidio del gioielliere nel 1970 fu molto discusso negli ambienti di sinistra), e al momento del delitto è già libero. Lavora a progetti informatici. Uscito in semilibertà nel 1994, secondo gli investigatori aveva già rapinato altre banche, e sempre accompagnando i terroristi neri dei Nar. Ma poi in Appello era stato assolto.
Nel 2003 accade un nuovo episodio che segna il destino delle indagini sul delitto D’Antona. A raccontarci questa storia è Laura Montanari della Repubblica. Il 2 marzo di quell’anno due brigatisti, Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, stanno viaggiando sotto falso nome sul treno Roma-Firenze, quando incappano in un controllo di routine della Polfer. Galesi fornisce al poliziotto i suoi documenti, ma si sente spacciato. Verrà scoperto e denunciato. Tira fuori la pistola e spara, uccidendo il sovrintendente Emanuele Petri, di soli 48 anni. Nel conflitto a fuoco perde la vita anche lui. La Lioce si salva e viene arrestata. Si dichiara prigioniera politica, naturalmente.
Le indagini portano ad altri membri delle Nuove Brigate Rosse. Sul banco degli imputati del delitto D’Antona ci finiscono, a questo punto, questi terroristi molto tecnologici. La Lioce viaggiava col suo inseparabile palmare, pieno di documenti. Tutto porterebbe verso un legame con Panizzari, invece l’accostamento dei rossi Nap e dei neri Nar, suggerito dalle sue rapine, viene completamente dimenticato. Anche Todi, la cittadina umbra che l’ex Nap aveva scelto per svaligiare la banca, poteva non essere frutto del caso. Certo, si tratta di un posto tranquillo nella verde Umbria. Ma è anche a soli 76 chilometri da Rieti. E più o meno alla stessa distanza da Torri in Sabina, dove la magistratura aveva scoperto un particolare volto dell’eversione italiana. Si dice che l’assassino torni sempre sul luogo del delitto. Chissà, magari a volte succede.
Dobbiamo tornare ancora indietro, al 1979. Il 31 luglio esce su tutti i quotidiani italiani la notizia che la magistratura sta ricostruendo i mille volti di questo terrorismo nostrano. Dopo aver intuito che i rossi collaborano con il gruppo nero di Terza Posizione, gli inquirenti sono arrivati a un nuovo punto di svolta. Questi comunisti delle Unità Combattenti Comuniste (dette UCC) hanno un intermediario che li aiuta: è la ndrangheta calabrese di don Mancuso (curiosa l’omonimia con il monte calabrese su cui sorgeva la base della NATO). Ma come si è arrivati a questa certezza e cosa c’entra l’Umbria in tutto questo, a parte la vicinanza chilometrica? A indagare ormai ci sono svariati giudici: Giovanni Canzio, Mario Amato, e poi Domenico Sica e Ferdinando Imposimato. Fabrizio Carbone della Stampa ci informa quel 31 luglio 1979 che l’inchiesta è partita dall’omicidio di un militare di leva, tale Giuseppe Andria, che avrebbe avuto il ruolo del telefonista in alcuni sequestri e che, insistendo per avere il suo pagamento, fu ucciso dalla ndrangheta. Si è così giunti a scoprire un casolare a Vescovio, vicino Torri in Sabina, che fungeva da base delle Unità Combattenti Comuniste. Sarebbe stata la stessa ndrangheta a fare la soffiata, per sbarazzarsi di un gruppo divenuto scomodo. Ora quindi emergono tre figure nuove del terrorismo: Ina Maria Pecchia e due cugini, Piero e Gian Pietro Bonano. Appartengono al gruppo di Potere Operaio, del quale fanno parte anche Valerio Morucci e Adriana Faranda. Si comincia a vociferare che dalle UCC siano partiti ingenti fondi in denaro per il gruppo culturale Metropoli di Scalzone, Piperno e Negri. Sarà vero? A noi non interessa, per il momento. E’ molto importante invece la parte finale dell’articolo di Fabrizio Carbone. Durante le indagini nel casolare di Vescovio, di proprietà della Pecchia e dei Bonano, sono stati rinvenuti documenti contraffatti e armi. Gli indagati probabilmente stanno parlando e hanno fornito indicazioni al generale dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, per trovare un’altra base delle UCC, che si trova in Umbria, a Pantalla di Todi. Si tratta di un borgo medievale attaccato a Fratta Todina, quello da cui era partita la denuncia della signora Slagorska Berardi.
Dunque, la donna settantenne aveva ragione? Quando la signora Slagorska Berardi, parlando con la spia dell’Stb, raccontava di macchine che si fermavano a Fratta Todina e caricavano armi, si riferiva a un passaggio di automobili che si dirigevano a Pantalla di Todi? I tempi coinciderebbero. Un articolo delle pagine locali dell’Unità, sempre datato 31 luglio 1979, precisava che i tre proprietari del casolare di Pantalla avevano effettuato l’acquisto nel 1977, pagandolo due milioni e mezzo di vecchie lire. Quando il generale Dalla Chiesa rinvenne quel covo lo trovò vuoto. Era stato mai utilizzato? Gli inquirenti rimasero colpiti da un cunicolo di quattro metri che poteva servire per nascondere armi e prigionieri.
Luigi Ceccobelli, l’uomo accusato dalla Slagorska Berardi, ha sostenuto nella mia intervista che in Umbria non era pensabile che vi fossero campi di addestramento per neofascisti. Questi fatti lo smentiscono in parte, anche se vanno precisate alcune cose. Se si prendesse alla lettera l’accusa della signora Berardi, anche i carabinieri sarebbero coinvolti nel terrorismo, poiché la donna non li considerava affidabili, tant’è che si rivolse alle spie della ex Cecoslovacchia. Mentre abbiamo appena visto che furono i carabinieri di Dalla Chiesa a scoprire il covo di Pantalla di Todi. Inoltre, nessuno dei nomi che le spie dell’Stb scrissero nei loro rapporti compare nella lista degli indagati della magistratura di Rieti. Né Ceccobelli, né i suoi presunti complici, tra cui figurava persino un fotografo famoso come Rodrigo Pais. Ciò significa che le due storie sono completamente diverse, come sostiene lo stesso Ceccobelli, oppure che sugli intrighi che coinvolgevano neri, rossi e mafiosi ci sono dei capitoli ancora da scrivere.

sabato 10 novembre 2018

La “geometrica potenza” di... Bin Laden


C’è un personaggio della sinistra violenta degli anni ‘70 che è tornato alla ribalta alcuni anni fa, esattamente il 10 giugno del 2015. Quel giorno qualcuno si era accorto, ma più per fare propaganda elettorale che per altro, che al raduno della nuova formazione politica di Maurizio Landini, Coalizione Sociale, c’era un tale che si chiamava Franco Piperno. Uno che ammirava Landini in quanto gli ricordava il 1968: “Mi fa pensare ai capi operai del '68, ha una partecipazione e un'aggressività che ricorda quel buon odio di classe di una volta.”
Di sparate questo professor Piperno (è un uomo di grande cultura e lo si nota da come scrive) ne aveva fatte altre in tempi meno recenti. Ad esempio, nel 2011 su un quotidiano calabrese era comparso un suo articolo sull’11 settembre 2001, nel quale si poteva individuare quasi una rivendicazione dell’attentato al World Trade Center di New York. Scrisse a un certo punto questa frase: “Come si fa ad onorare i mercenari americani che per mestiere uccidono, utilizzando i droni per non correre alcun rischio; uccidono, per la mercede, esseri umani che non hanno alcun motivo di odiare; mentre andrebbero considerati vili quel pugno audace di intellettuali – alcuni di loro avevano perfino superato l’esame di fluidodinamica - che, utilizzando dei temperini, si impadroniscono di quattro enormi aerei di linea, facendo fronte agli equipaggi e a centinaia di passeggeri, per uccidersi ed uccidere, schiantandosi sui quei mostri di vetro e cemento simboli dell’impero americano?” Secondo Piperno erano stati, non dei terroristi, bensì degli intellettuali arabi a compiere l’attacco, e il risultato era la distruzione dei mostri di cemento simbolo del capitalismo. Era tornato il linguaggio di Potere Operaio. Lo stesso che Piperno adoperò per descrivere la strage di via Fani, del 16 marzo 1978: “La geometrica potenza dispiegata in via Fani”.
Franco Piperno è nato nel 1943 a Catanzaro ed è stato il fondatore, insieme a Toni Negri, del gruppo politico Potere Operaio, divenendone leader con Oreste Scalzone, Lanfranco Pace e Valerio Morucci. In un’intervista andata in onda sulla Rai nel 1983, Giovanni Minoli lo definì, “La testa pensante dell’Autonomia”, e anche “la primula rossa dell’eversione”, perché quando fu spiccato il mandato di cattura nei suoi confronti, per l’appartenenza al terrorismo, era fuggito all’estero, in Francia. Era la fine degli anni ‘70, Piperno era già un professore di Fisica dell’Università di Cosenza. Fu colui che più di tutti teorizzava la militarizzazione del movimento Potere Operaio e sognava un’insurrezione armata, che, appunto, coniugasse la “geometrica potenza” di via Fani con le proteste giovanili del 1977.
Dei tanti capi di imputazione a suo carico (sui quali disse a Minoli che non esisteva alcuna prova concreta), il più inquietante e interessante dal punto di vista storico era l’accusa di aver partecipato al delitto Moro. Tutto era nato dalla deposizione di Giuliana Conforto, che nel 1979 aveva ospitato a casa sua, in viale Giulio Cesare a Roma, i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, ed era stata per questo arrestata. La Conforto, si scoprirà solo nel 1999, era la figlia di una spia del KGB, Giorgio Conforto, nome in codice “Dario”, un comunista che in passato aveva creato un’insospettabile rete di spie attraverso dattilografe assunte nei ministeri italiani. “La donna - scrisse Mitrokhin nel suo archivio a proposito di Giuliana Conforto - aveva funto da custode di un appartamento adoperato dai terroristi e, come si chiarì in seguito, era stata usata a sua insaputa. Conforto non sapeva del legame di sua figlia con i terroristi e si trovava nell'appartamento della figlia quando questa venne arrestata insieme alle altre due terroriste. La Residentura del KGB prese nota di questo fatto e, considerando che la circostanza poteva far sì che lo stesso Conforto fosse interrogato dai Servizi Speciali italiani, lo congelò nuovamente.”
Da queste parole non sembra affatto chiaro se Piperno fosse al servizio del KGB quando fondò Potere Operaio, né se la strage di via Fani a cui parteciparono Morucci e la Faranda fosse stata progettata dai russi. Tuttavia le polemiche nel 1999, alla pubblicazione dell’archivio Mitrokhin, furono roventi. Secondo un articolo della Stampa del 14 ottobre 1999, intitolato “Il giallo dei fascicoli scomparsi”, il deputato Enzo Fragalà di Alleanza Nazionale aveva rispolverato un vecchio rapporto della Digos del 1979 nel quale si affermava che Giuliana Conforto era amica di Luciana Bozzi, proprietaria di un altro appartamento delle Brigate Rosse scoperto prima della morte del presidente Moro, quello di via Gradoli. Entrambe le donne lavoravano al centro nucleare Enea Casaccia. Per la Digos c’era “la mano” di Franco Piperno.
Con le conoscenze da noi acquisite possiamo affermare che l’onorevole Fragalà aveva ragione a essere sospettoso, anche se restano diverse zone d’ombra. Intanto, la presenza di Piperno nel centro nucleare (è certo che vi compilò la tesi di laurea) poteva non essere casuale. Abbiamo visto nel dossier cecoslovacco come per i sovietici il terrorismo fosse un’invenzione degli Stati Uniti e che considerassero gli esperimenti nucleari occidentali i maggiori ostacoli alla pace internazionale. Quindi il centro Enea Casaccia era un punto strategico in cui inserire un informatore. Basti pensare che al progetto Tokamak dell’Enea lavorava anche il dissidente russo Andrej Sacharov. Inoltre nel libro di Luigi Manconi “Vivere con il terrorismo” abbiamo trovato un’altra notizia: Morucci e la Faranda si trovavano in casa di Giuliana Conforto poiché stavano allontanandosi dalla lotta armata. Lo affermava all’epoca, era il 1980, quello che Manconi chiamava “il clandestino”: Claudio F., un terrorista che raccontava la sua vita passata a progettare attentati, difendendo la sua scelta. Alla clandestinità si può liberamente rinunciare, questo era il concetto. Ma era probabilmente una sua illusione. I due terroristi arrestati in viale Giulio Cesare a casa della Conforto avevano - secondo Claudio F. - commesso solo l’errore di portare con loro le armi.
Dunque Giorgio Conforto poteva benissimo non sapere che Morucci e la Faranda, allontanandosi dalle Brigate Rosse, fossero finiti in casa di sua figlia. Perché, come spiegava Claire Sterling, il KGB cercava di evitare il più possibile i contatti diretti con le organizzazioni eversive. Ben più interessante è poi la scoperta, avvenuta sempre nel 1979, di un collegamento diretto tra le azioni del terrorismo rosso e la Ndrangheta. Ancora una volta era dalla provincia di Rieti che emergeva la verità. L’allora sostituto procuratore Domenico Sica aveva intuito che un gruppo di terroristi di Vescovio (Rieti), che agiva sotto la sigla delle Unità Combattenti Comuniste (UCC), era in stretto contatto con i “picciotti” calabresi, e tra i sospettati vi era anche l’ex moglie di Franco Piperno, Fiora Pirri Ardizzone. Fu arrestata a Licoli (Napoli) il 7 aprile del 1978 in una base di Prima Linea insieme a Lanfranco Caminiti. Nel casolare di Vescovio furono trovati documenti appartenenti allo stesso stock di via Gradoli.
Nonostante questi progressi, le indagini su Franco Piperno non fecero molta strada. Negli anni ‘80 il fondatore di Potere Operaio si rifugiò in Francia e poi in Canada. Il carcere italiano ebbe poche occasioni per conoscerlo. Quando rientrò nel nostro paese, stando a quanto scrive Wikipedia, la sua pena, due anni per “partecipazione ad associazione sovversiva”, era ormai prescritta. Un curioso trafiletto della Stampa dell’8 marzo 1998 titolava: “Franco Piperno riabilitato dal tribunale, non è più sovversivo”. Come Silvio Berlusconi, dopo aver evitato il carcere, aveva avviato la procedura per cancellare gli effetti della condanna penale, in modo da tornare candidamente a fare politica. “Mi sono sottoposto a questo stupido rito della riabilitazione perché ho una passione politica e civile per il mio paese e voglio partecipare”, disse nel virgolettato della Stampa, non sapendo che quello “stupido rito” lo avrebbe scelto, con molto più entusiasmo, anche il Cavaliere. E’ quindi diventato assessore alla cultura del comune di Cosenza e all’elezione per la presidenza della repubblica del 2006, pensate un po’, ricevette in totale cinque voti. Quello che scriveva Lino Jannuzzi su Tempo stava per divenire realtà: abbiamo rischiato seriamente di diventare tutti brigatisti.  

martedì 2 ottobre 2018

La Jihad dell’estrema destra italiana

L'ex terrorista Mario Tuti, in una foto in pubblico dominio su Wikimedia Commons

Ancona, sono le 2 e 15 della notte tra il 9 e il 10 maggio del 1974. In una stretta stradina del centro storico, via Podesti, esplode una bomba. Viene lesionato l’ufficio dell’esattoria comunale, crollano i vetri di molti negozi che si affacciano su quella strada che scende dai quartieri alti. Crollano vetri anche dalle finestre dei palazzi. E si fa male una giovane, Rosanna Pignocchi, di 25 anni, a cui è crollata addosso la vetrata della camera da letto. L’articolo compare sul quotidiano La Stampa del giorno successivo. Si sa già chi è il colpevole, perché è stata lasciata una rivendicazione. Contiene insulti al Parlamento e alla magistratura. La firma è di “Ordine Nero”, che altro non è se non il vecchio gruppo “Ordine Nuovo”, che era stato chiuso dalla magistratura per ricostituzione del partito fascista. Quel giorno scoppiano ordigni anche a Bologna, Perugia, Milano. E a Bologna si apre un’inchiesta giudiziaria.
Un anno più tardi, il 13 aprile del 1975, un nuovo attentato potrebbe scuotere Ancona, ma una singolare telefonata anonima di una donna, che chiede di correre alla Regione Marche, contribuisce a sventarlo in tempo. Si dice che l’obiettivo dei terroristi fossero le manifestazioni partigiane organizzate per fine mese. Intanto il 18 maggio 1974 era già arrivata una svolta nelle indagini. Il sostituto procuratore Luigi Persico, dopo essersi consultato con D’Ambrosio e Alessandrini, che si occupavano della pista nera dell’inchiesta sulla strage milanese di Piazza Fontana, è arrivato all’arresto di un professore universitario di Parma.
Si chiama Claudio Mutti, ha 28 anni. E’ un personaggio bizzarro. Intanto - dice l’articolo di Giorgio Battistini della Stampa - è amico di Freda, Ventura e Giannettini, gli indagati di piazza Fontana. Lo si è scoperto nel corso di perquisizioni nei suoi appartamenti. E poi è un fascista convinto. Si ispira alle teorie di Julius Evola, ed è accusato anche lui di voler far rinascere il partito fascista. Mutti però non ci sta e si difende. Non nomina nemmeno un difensore. Sostiene di essere di sinistra, non di destra. Ma l’anonimo giornalista del quotidiano La Stampa è convinto che siano solo bugie. Mutti ha provato a iscriversi al PSI un mese prima, e non lo hanno voluto. Al momento dell’arresto ha in mano anche una tessera di Potere Operaio e della CGIL.
Qualcosa di sinistro e di sinistra c’è veramente. Lo scoprono i servizi segreti francesi nel 1981. Corrado Incerti su Panorama scrive che a Pinerolo viene stampato in quel periodo un periodico chiamato “Jihad”, con redattori dall’apparente nome islamico. In realtà sotto quelle mentite spoglie vi si nascondono degli europei. Umar Amin è Claudio Mutti, che si è convertito all’Islam alcuni anni prima. E’ un sostenitore di Gheddafi e ha scritto per lui un libro intitolato: “La rivoluzione culturale libica e Gheddafi templare di Allah”. Ha fondato anche la Lega Italia-Libia. I servizi francesi affermano che Jihad è un giornale islamista “con elementi di antisemitismo, fascismo e anti-imperialismo.” C’è un misto di concetti di sinistra e di destra. E’ esattamente quello che stava per scoprire il giudice Mario Amato prima di essere ucciso.
Intanto, Claudio Mutti nell’ottobre del 1974 è stato sorprendentemente scarcerato per quegli attentati di Bologna, Perugia e Ancona. Secondo un articolo dell’Unità dell’aprile del 1981 il pm Mario Amato aveva fatto di nuovo arrestare Mutti il 14 maggio del 1979. Erano state trovate lettere con cui si dimostrava che il professore di Parma inviava aiuti in denaro al latitante Franco Freda.
Ma il giudice Amato era finito su qualcosa di molto grosso. Lo si evince da alcuni articoli sempre del 1979. Tutto nasce da un’indagine della procura di Rieti. Il giudice Giovanni Canzio scopre improvvisamente che c’è un vasto gruppo di neonazisti il quale cerca alleanze con le Brigate Rosse. E’ ciò che scrivevano le spie della Stasi. Giuseppe Fedi della Stampa riporta, il 19 maggio 1979, che: “l’attenzione degli inquirenti è accentrata su Claudio Mutti, 23 anni, di Parma.” Riecco dunque il principale accusato delle bombe del 1974. E’ stato indagato per piazza Fontana come per la bomba sul treno Italicus, ma è stato assolto. L’MSI comunque non l’ha più voluto vedere e l’ha espulso. Compare un nuovo personaggio, forse la chiave di quell’inchiesta, che presto approderà a Roma dal giudice Amato. E’ Maurizio Neri, soltanto omonimo dell’ex calciatore dell’Ancona (come Sgrò, del resto, di cui già c’eravamo occupati). Questo Neri è un ex paracadutista, fa l’operaio, e vive nel reatino, a Salisano Sabino. Indagando su delle scritte ingiuriose lasciate su un monumento, i carabinieri trovano a casa sua l’intero archivio di un’organizzazione eversiva. Ci sono agendine con numeri di telefono, nomi siglati, un manuale per scrivere scritte sui muri, manifesti del ‘comitato Italia-Islam”, e bobine con le registrazioni delle riunioni della cellula.
Per il giudice Canzio questi neofascisti hanno un programma molto vasto, che prevede la creazione di cellule, l’organizzazione di gruppi di ideologie sia di destra sia di sinistra, l’infiltrazione nei gruppi anti-sistema, come quelli ambientalisti, e infine la pianificazione della guerriglia, con rapimenti e attentati. Il sospetto degli inquirenti è che questi terroristi siano gli autori degli attentati di Roma di qualche tempo prima, al Campidoglio e al carcere di Regina Coeli.
Il giudice Amato poche ore prima di essere ucciso è al lavoro, anche di notte, per sbobinare delle registrazioni. E’ completamente solo. Una sua collega, Gloria Attanasio, in un libro di Luigi Manconi uscito nel 1980 rilascerà questo ricordo sul giudice De Matteo, il capo di quella procura di Roma, piena di veleni e scontri politici: “si figuri che aveva detto che Amato era stato vittima del suo ‘eccesso di zelo’.”
Una cosa è certa. La mattina del 23 giugno 1980 il giudice Amato è costretto ad andare al lavoro senza scorta e a piedi, senza auto blindata. La sua è in officina, e il pm De Matteo non ha saputo trovargli un passaggio. Muore alla fermata dell’autobus all'incrocio tra Viale Jonio e Via Monte Rocchetta, falciato da un colpo sparato alle sue spalle dal terrorista nero Gilberto Cavallini, che fuggirà poi in moto con il complice Luigi Ciavardini.
Si torna a parlare sui giornali della cellula nera e rossa di Mutti pochi mesi dopo, quando è già scoppiata la bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. I giudici vanno a cercare il fascicolo su cui lavorava Mario Amato e si avvicinano al gruppo nero noto col nome di “Terza Posizione”. E’ una cellula eversiva che stampa un giornale e dirige nuclei armati come fa il terrorismo di sinistra. Scopi dichiarati da Terza Posizione: organizzazione e costituzione dello Stato di popolo. Si tratta di fascisti che non vogliono stare, né con gli americani, né con i russi. Vogliono - dice La Stampa il 20 agosto 1980 - costituire tanti piccoli stati che confluiscano nello Stato di popolo.
Ma ecco di nuovo Claudio Mutti. Anche Canzio e Amato indagavano su Terza posizione, e stavano arrivando ai collegamenti internazionali, ai mandanti. Sono mandanti che si ispirano al terrorismo sudamericano. Ma “Terza Posizione” afferma di guardare anche alla lotta del popolo palestinese contro il “sionismo”, all’amicizia con i libici e gli algerini. Questa pista ricalca il percorso che secondo la nostra recente ricostruzione, quella del nostro blog, avrebbero fatto i terroristi palestinesi per sterminare la scorta di Aldo Moro in via Fani. In quei giorni della strage di Bologna, nell’agosto del 1980, si parla con insistenza di un centro in Francia e di un ispettore di polizia. Si chiama Paul Durand. Forse si è incontrato anche con Mutti. L’8 agosto del 1980 un lungo articolo di Gian Piero Testa sull’Unità si occupa proprio di questo. Viene ricordato che il primo a sospettare su una pista francese era stato Giulio Andreotti, che nel 1974, sbarazzandosi di Miceli e Giannettini ai vertici del Sid, aveva affermato: “Una centrale fondamentale che dirige l’attività dei sequestri politici per finanziare i piani di eversione e che coordina lo sviluppo terroristico su scala anche europea si trova a Parigi. Probabilmente sotto la sigla di un organismo rivoluzionario.” Anche Giannettini - sostiene il giornalista Testa - aveva parlato di una centrale eversiva clandestina, di destra e di sinistra, in Francia. E a Parigi di cose negli anni Settanta ne sono successe, come per esempio il conflitto a fuoco in cui muoiono due agenti dei servizi francesi e un libanese, Moukharbal, braccio destro di Carlos. Moukharbal è stato arrestato e sta portando gli agenti nella camera dello Sciacallo per un semplice controllo. Ma Carlos spara e uccide tutti a sangue freddo, compreso l’amico traditore. Di questa storia si era occupato Ernesto Viglione, se vi ricordate, e il suo articolo era finito al vaglio dei servizi cecoslovacchi.
A Parigi c’è anche Henri Curiel, in quel periodo. Aiuta a fuggire i terroristi rossi di tutta Europa. Vi trovano un nascondiglio brigatisti di primo piano come Corrado Simioni, che si mette a lavorare in una strana scuola di lingue: Hyperion. Una cosa è certa: Curiel è un agente del KGB. Il resto non lo si scoprirà mai. Anche perché Carlos lavora per i servizi segreti di Gheddafi, e Gheddafi è un amico degli italiani. No, certamente non solo di Claudio Mutti. Anche Ronald Stark lavora per reclutare giovani terroristi da addestrare nei campi libici. E’ un agente della CIA. Forse si sta infiltrando per scoprire qualcosa. Non si saprà molto nemmeno di lui. E nemmeno dell’ispettore Paul Durand, che nelle prime ore dopo la strage del 2 agosto si sarebbe recato a Bologna con il neofascista Marco Affatigato. Almeno così avrebbe ammesso - afferma Testa sull’Unità - il pm Persico. In realtà anche Marco Affatigato come Giannettini e Stark si sta forse infiltrando negli ambienti terroristici eversivi. Lo spiega sul suo sito l’Archivio ‘900. Sembra che i vertici del Sismi avessero deciso di inserirlo in tutti i fatti tragici di quel periodo, compresa la caduta del DC-9 a Ustica. Stavano cercando notizie di reato, oppure era davvero un depistaggio? 
Parigi e la Libia sono territori in cui un altro neofascista trova amici e nascondigli: Mario Tuti. Fu accusato, condannato e poi assolto per la strage del treno Italicus, avvenuta tra il 3 e il 4 agosto 1974, che provocò 12 morti e 48 feriti. Nel 1975 ammazzò due agenti di polizia che stavano per arrestarlo e finì comunque dietro le sbarre. Il 13 aprile del 1981, nel carcere di Novara, uccise insieme a Pierluigi Concutelli un altro terrorista nero, Ermanno Buzzi, considerato un confidente dei carabinieri. Di Tuti la giornalista Claire Sterling ha tracciato questo breve e inquietante profilo. “Lo stretto collaboratore di Mutti, Mario Tuti, che ora sconta l'ergastolo per omicidi terroristici, aveva raccolto una somma di centomila lire dall'ambasciata libica a Roma poco prima di abbattere due poliziotti nel 1975.”
Insomma, quando si arriva su Hyperion, sui libici, e su legami tra terroristi neri e rossi, le indagini diventano difficoltose. Questo, almeno, e lo speriamo, succede negli anni di piombo. Il motivo viene svelato nel 1986, quando tra Italia e Libia si giunge a un pericoloso scontro diplomatico. Salta fuori un fatto gravissimo, che in parte avevamo già sottolineato: i nostri servizi segreti avevano collaborato per tanto tempo con i servizi libici. Ecco quello che scrisse il quotidiano spagnolo La Vanguardia il 16 maggio 1986. La Libia avrebbe sostenuto sia le Brigate rosse, sia il gruppo neofascista di Mario Tuti “Lotta di popolo”, implicato, ma poi assolto come detto, nella strage del treno Italicus. Qualcosa di ancora più terribile era filtrato il 14 agosto del 1980, sempre per le indagini sulla strage della stazione di Bologna. Il Corriere della Sera stava pubblicando in quei giorni dei reportage sulla cosiddetta “Rete segreta di Gheddafi in Italia”. Un dissidente libico, tale Fadel Messaudi, svelava che l’Italia era piena di agenti libici. Anche il settimanale L’Europeo sostenne nello stesso periodo la tesi dell’appoggio di Gheddafi al terrorismo nero italiano e a Mario Tuti. Scrisse che in Italia erano presenti nel 1980 ben 170 agenti del servizio segreto libico, in piena collaborazione con i servizi italiani. 
E’ chiaro che per i politici italiani coinvolti Gheddafi doveva rimanere un sant’uomo, nonostante queste rivelazioni, ed è per questo forse che dei libri di Sterling e Sablier che accusavano la Libia di essere il mandante del terrorismo mondiale, o degli articoli del Corriere della Sera, della Stampa o dell’Europeo, non resta nulla nella nostra memoria storica. Come se nella nostra attualità non esistessero quelli che l’illustre e più forbito di me Giorgio Bocca avrebbe chiamato “i cascami” del terrorismo degli anni di piombo. Le prove che questo sistema eversivo misto, di destra e sinistra, non era solo una fantasticheria.
Che fine ha fatto Maurizio Neri, l’ex paracadutista operaio su cui nel 1979 indagavano il giudice Canzio e il povero Mario Amato? Sul web ne parlano in pochi, ma qualcuno se lo ricorda. Un forum ci ha indicato la sua nuova vocazione politica. Adesso dirige un giornale, e indovinate come si chiama? “Comunismo e comunità”. E’ diventato uno studioso di Marx, e nel 2013 ha pubblicato un’apologia, anche se lui non la definisce così, del Movimento 5 Stelle. Una terza posizione, guarda caso, nel sistema bipolare italiano, in cui Neri dice di credere moltissimo. E Tuti? E Mutti? Tuti nel 2004 ottenne la semilibertà. Ha lavorato in una struttura di recupero per tossicodipendenti di Tarquinia. Conosco bene il posto. Prima che i miei genitori vendessero la nostra casa al mare, passavo davanti a quella comunità nelle mie passeggiate in bicicletta. Mutti invece per Wikipedia è un saggista ed editore italiano che dirige la rivista di studi geopolitici Eurasia. Per trovare qualcosa delle sue vicende giudiziarie bisogna cercare la stessa biografia di Wikipedia in lingua francese. 

giovedì 27 settembre 2018

Le “convergenze parallele” tra mafia e terrorismo


Mafia americana e Mario Foligni, Mario Foligni e Gheddafi, Gheddafi e terrorismo, terrorismo e mafia. Un intreccio che sembra non avere una logica. Mette uno contro l’altro, ma anche tutti dalla stessa parte. Questa diventa nella mia ricostruzione la storia del terrorismo italiano degli anni di Piombo. Forse è un dato oggettivo, non vale solo per me. Non a caso manca tuttora una storia completa di questo periodo storico così intricato, complesso, sfuggente, denso di inchieste giudiziarie infinite e di segreti di Stato.
E’ la trasversalità di cui parlavamo, che secondo me ha fatto saltare sia le indagini dei servizi segreti comunisti, che cercavano invano prove contro la Nato per il terrorismo in Italia, sia le ricostruzioni giornalistiche così documentate dei giornalisti occidentali.
Ma chi è Mario Foligni? si chiederà il lettore più giovane del mio blog. Foligni era un personaggio secondario della politica italiana degli anni ‘70, ma che comparve in molte delle inchieste più imbarazzanti di quel periodo. Diede persino il nome al famoso dossier dei servizi segreti italiani, il Mi.Fo.Biali, che il giornalista Mino Pecorelli pubblicava a puntate sul suo OP. Sappiamo già che Foligni cercava nel 1975 di fondare un nuovo partito di centro-sinistra, per fare opposizione alla Democrazia Cristiana. Ma lo faceva utilizzando del denaro ricavato da accordi segreti con il colonnello Gheddafi: petrolio a basso costo in cambio di radar della Nato. I servizi sospettavano che Foligni fosse un agente del KGB. La loro inchiesta Mi.Fo.Biali, che oggi è online e chi scrive l’ha letta integralmente, era scottante per tante ragioni. Non solo per le dilaganti abitudini spionistiche che emersero nell’ambiente politico, ma anche per la presenza, nelle intercettazioni, di dialoghi non proprio edificanti per la Guardia di Finanza: il comandante piduista Raffaele Giudice e certi suoi uomini fidati chiudevano un occhio sulle indagini in cambio di mazzette. Ma forse il dossier è inquietante anche per altri motivi. Nel giro di Foligni e Giudice comparivano, sebbene piuttosto defilati, Aldo Moro e il generale dell’antiterrorismo, Enrico Galvaligi.
Ma il fenomeno Foligni non si esauriva qui. Eccolo infatti protagonista pure nel libro di Richard Hammer “The Vatican connection”. Fu il tramite di un traffico molto consistente di titoli bancari falsi che il Vaticano acquistò dalla mafia americana, nell’autunno del 1971, per coprire le voragini che si stavano aprendo nelle sue finanze. La causa di questo impellente bisogno di denaro della Santa Sede erano gli investimenti spericolati del cardinale Paul Marcinkus e del suo amico Michele Sindona. Siamo ancora nell’ambiente piduistico, eppure è fin troppo evidente che in questa storia parliamo di una P2 che pende decisamente verso sinistra. La polizia americana scoprì, infatti, nei suoi pedinamenti che il principale complice di Mario Foligni, il giorno in cui il Vaticano acquistò i titoli falsi dai mafiosi, fu Alfio Marchini, imprenditore di area comunista. Era il nonno dell’Alfio Marchini che nel 1994 fu eletto durante il primo governo Berlusconi nel consiglio di amministrazione della Rai, e che fondò l’azienda di call center E-Care, della quale è stato fino a poco tempo fa il principale azionista. Un’azienda che è molto contestata per i frequenti licenziamenti.
L’incontro tra la mafia americana e gli emissari del Vaticano, ossia Foligni e il suo amico Alfio Marchini, avvenne a settembre del 1971 all’hotel Leonardo Da Vinci di Roma, nell’appartamento di Marchini. C’era anche il figlio, Sandro Marchini, forse padre dello stesso Alfio Marchini, che Berlusconi ha poi appoggiato nella campagna elettorale per il comune di Roma del 2016. Nell’appartamento di Marchini furono verificati i certificati bancari alla presenza di un notaio ignaro della frode. Anche i Marchini erano ignari di tutto? Lasciamo pure il dubbio, anche se Foligni divenne poi reo confesso, e se la cavò solo per la sua collaborazione con la polizia statunitense. Usò i Marchini per farsi scudo della loro fama e cercare così di aggirare i controlli bancari. Hammer chiude il suo libro spiegando che, nonostante gli arresti e le condanne, probabilmente l’affare multimilionario per la cessione dei titoli falsi al Vaticano andò in porto, e fu la causa del crac Sindona e dell’Ambrosiano. I titoli contraffatti, in pratica, venivano usati come garanzia per chiedere prestiti alle banche. Tanti miliardi furono fatti circolare senza una reale copertura.
Il boss mafioso italo-americano che gestì da dietro le quinte lo smercio si chiamava Vincent Rizzo, ed era di New York. Un suo uomo, William Arico, divenne famoso pochi anni dopo per l’omicidio del giudice Giorgio Ambrosoli, che delle trame oscure di Sindona stava ricostruendo molti segreti. Ma era solo, poveretto. L’Italia non collaborava alle indagini sui titoli falsi, si lamentava Hammer nel suo libro. “The Vatican connection” è un’inchiesta molto interessante. Si tratta di un resoconto delle indagini e delle intercettazioni dell’indomito poliziotto statunitense, Joe Coffey. Quindi un documento molto affidabile, non certo la solita sparata sul Vaticano.
Fin qui la mafia americana. Ma Foligni era amico anche di Gheddafi, e quest’ultimo era il mandante del terrorismo palestinese. Stiamo arrivando dunque anche sulle tracce dei terroristi di sinistra. Inevitabilmente. Un bellissimo articolo di Vincenzo Tessadori uscito sulla Stampa il 19 aprile del 1977 aveva un titolo che imboccava proprio questa pista: “Le Brigate Rosse ed i Nap si servono della mafia per riciclare le banconote sporche dei rapimenti”. Quali prove c’erano per affermarlo? Secondo Tessadori gli inquirenti erano finiti sui sequestri delle Brigate Rosse seguendo criminali comuni o uomini d’onore. Tra questi ultimi c’erano i fratelli Antonio e Giuseppe Calabrò, membri della Ndrangheta calabrese. La polizia riteneva che Antonio Calabrò fosse molto simile all’identikit che un testimone aveva fatto disegnare su uno dei terroristi che avevano rapito l’armatore Pietro Costa. Non solo. Nel corso della perquisizione, nella casa dei due fratelli, furono trovate delle banconote e una era sicuramente parte del riscatto pagato per liberare Costa. Un altro indizio del rapporto mafia-Brigate Rosse consisteva in un altro ritrovamento di soldi pagati per un riscatto. I carabinieri, stando a quanto affermava Tessadori nel 1977, erano convinti che tra i sequestri da imputarsi ai brigatisti c’era anche quello dell’impresario edile Angelo Malabarba. Ebbene, cinque milioni di quel riscatto furono trovati in tasca a Nello Pernice, mafioso considerato erede di Luciano Liggio. Quel sequestro Malabarba fu poi considerato un sequestro della mafia. Tuttavia il libro di Alessandro Silj “Mai più senza fucile” rivelava altri indizi utili. Annamaria Mantini, sorella del nappista Luca Mantini, e pure lei divenuta una terrorista, a metà degli anni ‘70 lasciò Firenze per prendere un appartamento a Bovalino, che divenne il centro nevralgico dell’attività dei Nap. Perché? Perché proprio Bovalino?
In quella stessa zona svariati terreni erano di proprietà dei boss della Ndrangheta. Già il 24 aprile del 1977 il quotidiano La Stampa poteva titolare: “Al paese dei sequestratori, San Luca di Calabria esporta criminali al nord”. Era già il centro operativo della Ndrangheta. “Le montagne d’Aspromonte - proseguiva l’articolo di Clemente Granata - possono nascondere delinquenti e vittime.”
Quale distanza separava quindi mafia e terrorismo, se gli affari si intrecciavano così facilmente? Secondo i magistrati del 1977, Pomarici e Caselli, molto poca. Tra la criminalità degli anni di Piombo c’era grande collaborazione. Ma pochi chilometri dividevano pure San Luca e Bovalino dal monte Nardello. E qui bisogna inserire un nuovo protagonista, un fantasma che si è manifestato con la fine del comunismo. Quelle stesse montagne calabresi nascondevano due strategiche basi missilistiche della Nato: erano state posizionate sul Monte Nardello, appunto, in Aspromonte, e sul Monte Mancuso, più a nord, verso Catanzaro. Proprio qui, ma tu guarda che coincidenza, nel luglio del 1980 fu trovato il Mig 23 libico di Gheddafi, che, secondo lo scrittore Edouard Sablier, era in perlustrazione quando fu abbattuto per una vendetta contro le sfide che il Colonnello lanciava in quel periodo contro la Nato. Sablier dimentica che quel Mig, venendo colpito, forse provocò il contemporaneo inabissamento del DC-9 a Ustica.
Quel che è certo è che avvicinarsi alle basi del Monte Mancuso e del Monte Nardello era pericoloso. Quasi impossibile. Mi ha colpito molto un trafiletto della Stampa che fu pubblicato il 20 ottobre del 1982. I carabinieri che sorvegliavano la base del Monte Nardello avevano sparato “numerose raffiche di mitra contro uno sconosciuto che si era avvicinato all’ingresso della base, considerata una delle più importanti del mezzogiorno.” I carabinieri uscirono alla ricerca di questo incauto invasore insieme ai militari americani, in una sorta di gemellaggio certamente non previsto dalla nostra Costituzione. Pochi giorni prima in un altro episodio capitato sul Monte Mancuso si era parlato con decisione di pericolo terroristico per le basi Nato. Travestiti da militari della Nato, due uomini avevano cercato di compiere un attentato. I carabinieri prima spararono in aria, poi, scattato l’allarme, cercarono di colpire gli attentatori in fuga, mancandoli.
Il 1982 era l’anno del sequestro Dozier. Le Brigate Rosse avevano iniziato a minacciare non solo la democrazia italiana ma anche l’imperialismo americano. Come si spiega, allora, che diverse vittime dei sequestri della Ndrangheta furono nascoste, negli anni ‘70, esattamente a poche centinaia di metri dalla base del Monte Nardello? Lo testimoniano gli articoli del 1975 del quotidiano Gazzetta del sud, il quale descrivendo i sequestri di Paul Getty, Giuseppe D’Amico e Domenico Arecchi raccontava di consegne di denaro che avvenivano a breve distanza dalla base americana. Soldi con cui la Ndrangheta, secondo Wikipedia, costruì un intero quartiere di Bovalino, chiamato appunto “Paul Getty”.

sabato 22 settembre 2018

Caso Moro: la pista egiziana fu insabbiata


Il 27 aprile del 1978 i magistrati erano probabilmente a un passo dalla soluzione del caso Moro. Lo si scopre leggendo gli articoli del quotidiano La Stampa, il quale il 28 aprile, con lo statista democristiano ancora vivo, usciva con una notizia sensazionale: erano state trovate a Roma delle cassette postali con i piani per rapire Aldo Moro.
La scoperta fu possibile grazie all’operazione della giustizia egiziana condotta a termine il 25 aprile del 1978 dal procuratore Ibrahim El Kaliubi, che aveva sgominato una rete terroristica internazionale. Tra gli arrestati figuravano anche alcuni cittadini svizzeri, tra cui un giornalista ticinese, e degli arabi. La rete svizzera era nota con il nome di “Soccorso rosso elvetico” e si sosteneva che avesse dei contatti con le Brigate Rosse. Ma c’erano prove concrete. Ad esempio uno dei tre svizzeri, il giornalista ticinese S. M., arrestato al Cairo, aveva “denunciato” l’esistenza a Roma di una casella postale che testimoniava il collegamento con i gruppi che stavano tenendo prigioniero il presidente democristiano. Secondo l’articolo di Silvana Mazzocchi della Stampa, fu l’Interpol a comunicare alla polizia italiana il numero di questa cassetta. Fu aperta e perquisita. All’interno fu trovata un’agendina con delle informazioni in codice. Gli esperti avrebbero dovuto svelarne il contenuto, ma negli articoli successivi queste notizie furono smentite. Si parlò di informazioni di scarsa importanza contenute nelle cassette denunciate dal giornalista svizzero, e questo avvenne quando i magistrati come Imposimato furono costretti a fare le valigie e a programmare un viaggio al Cairo.
E pensare che nella casella postale la polizia aveva trovato un appunto che portava ad un’altra casella segreta. Si trovava nel quartiere Prati. E qui la prova c’era eccome: furono rinvenute lettere della colonna torinese delle Brigate Rosse. Documenti, specificava Silvana Mazzocchi, scritti anche in questo caso in codice. La Mazzocchi aggiungeva che secondo gli impiegati postali le cassette delle Brigate Rosse ebbero un traffico molto fitto nel periodo della strage di via Fani.   
C’era poi una seconda prova che portava le indagini al Cairo. I terroristi di via Fani usarono proiettili provenienti proprio dall’Egitto. Tecnicamente si chiamavano proiettili “Superfiocchi” quelli che furono usati per trucidare la scorta dell’onorevole Moro, in via Fani, il 16 marzo del 1978. Erano stati prodotti dalla ditta Fiocchi di Brescia ed erano stati spediti in Medio Oriente. Chissà, forse si trovavano all’interno di quel traffico di armi che fu scoperto anni dopo dal magistrato Carlo Palermo. Ma questi proiettili ritornarono indietro. Dall’Egitto questo “blocco”, come lo chiamava la giornalista Mazzocchi, fu inviato al porto di Bari per essere utilizzato in via Fani. Un altro blocco di questi proiettili, rubato in Svizzera, sembra che servì per il sequestro del presidente degli industriali tedeschi, Hans Martin Schleyer.
In parlamento si occupò della vicenda in quei giorni l’onorevole Falco Accame, del Partito Socialista, lo stesso Accame che figurava nei rapporti Impedian dell’archivio Mitrokhin. In realtà il rapporto 182 spiega che il KGB cercò di utilizzare Accame nel 1977 per degli interventi politici contro la presenza di sottomarini statunitensi in Sardegna.
Si tornò a parlare della pista egiziana solo a metà agosto del 1978, quando l’onorevole Moro era già morto e il ritrovamento delle cassette postali delle Brigate Rosse veniva già ridimensionato. Era il 13 agosto 1978, la firma dell’articolo era di Vicenzo Tessadori della Stampa. Si indagava ancora sui proiettili della ditta Fiocchi. Ancora per poco.
Che fine ha fatto questa inchiesta? Dopo l’agosto del 1978 se ne perdono le tracce negli archivi dei giornali. Perché fu insabbiata? Gli inquirenti si accontentarono della smentita dell’Olp, il quale escluse qualsiasi contatto con le Brigate Rosse? Il movente di un intervento palestinese in Italia nella primavera del 1978 era molto semplice da capire: il presidente Sadat stava lavorando ai negoziati per i futuri accordi di Camp David. Il 27 aprile del 1978 un articolo siglato R. S. del quotidiano La Stampa relazionava sulle informazioni che in quelle ore giungevano dal Cairo, e segnalavano una serie di contatti tra brigatisti italiani e fedayn palestinesi (si ipotizzò che appartenessero al gruppo “Giugno nero” di “Abu Nidal”) per mettere a segno attentati, rapimenti, assassinii, atti di sabotaggio per compromettere le iniziative di pace di Sadat. Della rete terroristica avrebbero fatto parte, oltre a brigatisti italiani e ticinesi, anche giapponesi dell’Esercito Rosso, e uomini del gruppo “Carlos”.
Ad avvalorare tutte queste piste di indagine ci sono anche i dialoghi tra l’ambasciatore statunitense del Cairo, Hermann Frederick Eilts, e quello di Roma Richard Gardner, poche ore dopo la strage di via Fani. Eilts era preoccupato per la sorte dei suoi uomini. Temeva potessero fare la fine della scorta di Aldo Moro. Sembrava assurdo, invece lo scenario internazionale svelato dalla mia inchiesta dimostra che i timori degli americani erano pienamente giustificati.
Ben diverso è invece il contenuto delle dichiarazioni che l’ex consigliere di Arafat all’Olp, Bassam Abu Sharif, ha recentemente rilasciato alla commissione parlamentare presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni. Ne parla il sito formiche.net in un articolo di Stefano Vespa. Abu Sharif sostiene, in sostanza, la tesi dei servizi segreti sovietici, secondo i quali le Brigate Rosse erano infiltrate dagli americani, che avrebbero cercato di impedire una soluzione che prevedesse una trattativa con le Brigate Rosse. E’ al contrario più probabile che i servizi segreti che si inserivano nelle brigate rosse fossero dei sostenitori dei palestinesi. Lo prova il fatto che Abu Ayad, altro uomo di Arafat, diventò uno dei principali confidenti del Sismi. Da allora l’Olp mantenne buoni rapporti con buona parte della politica italiana.

domenica 16 settembre 2018

Ponte Morandi: una vecchia storia di tangenti?


Si va profilando sulla storia del crollo del ponte di Genova quanto dicevamo fin dall’inizio. E cioè che, scartata l’ipotesi attentato, bisognava concentrarsi sulla ditta costruttrice per capire le ragioni della tragedia. Non perché chi scrive abbia qualche contenzioso con la Società italiana per condotte d’acqua, ma piuttosto per la presenza in quell’azienda, negli anni in cui il ponte fu costruito, di uomini del clan di Michele Sindona.
Sarebbe bastato fare un minimo di ricerca sulla storia di “Condotte d’acqua”, come facemmo a poche ore dal crollo per semplice curiosità, per capire che qualcosa di strano in quell’azienda c’era. C’era allora e c’è anche oggi, visto che si parla di rischio fallimento, di appalti truccati, e all’estero anche di mafia.
Mafia come quella di Michele Sindona, finanziere che per i suoi traffici sfruttava le amicizie con i membri della loggia massonica Propaganda Due. La sua tessera era la numero 501. Ma in quell’elenco non figurava soltanto lui. La tessera di Loris Corbi, tanto per fare qualche altro nome, era la 562. E sapete ormai bene chi fosse questo personaggio. Era il presidente di Condotte d’acqua. Quando il suo ruolo di piduista divenne di pubblico dominio nei giornali, nel 1981, fu costretto a dimettersi.
Che cosa accadde dunque negli anni ‘60, quando il ponte Morandi fu costruito? La notizia di oggi lo dice chiaramente, e adesso i giornali non potranno più nasconderlo. Secondo una perizia redatta dai consulenti della procura di Genova, la ditta costruttrice cercò di risparmiare sui materiali, non rispettando il progetto dell’ingegner Morandi, che, anzi, aveva cercato più volte di rimediare e di essere inserito nei gruppi di lavoro che si occupavano della manutenzione. Ma bisogna a questo punto aggiungere altri elementi, di carattere storico e politico. La notizia odierna porta alla luce quanto gli studiosi temevano da tempo: e cioè che i soldi della ricostruzione post-bellica, finanziata dopo il 1945 con il piano Marshall, potessero essere finiti nelle tasche dei partiti politici, e in particolare della Democrazia Cristiana, grazie all’intervento di imprenditori compiacenti. Lo dicevamo a proposito di Nino Rovelli, di Edoardo Longarini, e adesso dovremmo solo aggiungere qualche altro nome.
Il quotidiano comunista L’Unità l’aveva scritto il giorno stesso dell’inaugurazione del ponte Morandi: quel viadotto dell’autostrada A-10, che attraversava Genova, era costato cinque miliardi in più. Inoltre la ditta costruttrice, la Condotte d’acqua, non aveva rispettato i tempi di consegna. L’aveva tirata per le lunghe, per poi chiedere molto più di quanto pattuito. La notizia moriva lì, perché il resto della stampa nazionale esultava con il presidente Saragat per il nuovo snodo viario che l’Italia stava mettendo a disposizione degli automobilisti. Ma la storia di Condotte d’acqua continuò ad essere costellata di intrighi. Quando Sindona fu arrestato, nei primi anni ‘80, cercò di difendersi asserendo di trovarsi in quella situazione per una vendetta dei politici, per quello che gli era capitato quando era proprietario di Condotte d’acqua. In un’intervista rilasciata al grande Enzo Biagi e disponibile sul sito Cinquantamila, Sindona disse testuali parole: "Idem con le Condotte d’Acqua, l’amministratore delegato mi disse: ”Noi non possiamo lavorare se non paghiamo i partiti”. Telefonai a Londra: 'Vendete Le Condotte d’Acqua perché non rimango in una società in cui vengono truffati gli azionisti'. Certi partiti non me l’hanno perdonata."
Il Ponte Morandi fu dunque costruito pagando tangenti ai politici? Mettendo insieme gli indizi emergerebbe questa conclusione. Certamente Sindona non fu l’unico faccendiere poco pulito a guidare gli affari di quell'azienda di costruzioni, nata nel 1880 per iniziativa del Vaticano. Intorno al 1973, quando Sindona l’aveva già ceduta all’Istituto per la Ricostruzione Industriale, vi lavorò il discusso Francesco Pazienza, che fece da mediatore per la costruzione di un imponente complesso industriale nel porto di Bandar Abbas, nell’Iran ancora filo-americano e governato dallo scià di Persia. Ma la rivoluzione islamica di Khomeini, nel 1979, creò non pochi ostacoli a questo progetto, lasciando la ditta italiana senza i pagamenti per le opere che aveva già intrapreso. Alle Condotte d’acqua, tuttavia, secondo quanto emerse nei processi che subì per le stragi eversive di destra, Pazienza ebbe modo di fare le conoscenze opportune che gli permisero di entrare nei servizi segreti italiani. Secondo un articolo di Repubblica scritto nel 1987 da Franco Coppola, quando gli chiesero come avesse conosciuto il generale Giuseppe Santovito, Pazienza rispose: “Me lo presentò il fratello, l'ingegner Luciano, per il quale avevo condotto a termine un affare con Khomeini per l'appalto delle condotte d'acqua.”
 

sabato 1 settembre 2018

Gli investimenti segreti del Vaticano

Bernardino Nogara (1870-1958), banchiere e ingegnere del Vaticano, in una foto in pubblico dominio di Wikimedia Commons.

Perché i nostri quotidiani non scrivono che a Genova il 14 agosto 2018 è crollato il “ponte del Papa”? Questa è la cruda, amara realtà, se dovessimo tentare una ricostruzione storica. E’ incredibile che nel motore di ricerca di Google News, cercando “Condotte d’acqua”, cioè il nome della società che negli anni ‘60 costruì il ponte Morandi sulla A10 di Genova, e aggiungendo Sindona, si ottenga un solo risultato, risalente a pochi mesi prima del crollo del Polcevera. Si tratta di un articolo di Today del 28 giugno 2018, sulla crisi dell’attuale gestione dell’azienda. Non sembra una dimenticanza, sarebbe troppo grave. Ci pare piuttosto che si cerchi di evitare di scendere nell’argomento. 
Eppure con un’inchiesta giudiziaria in corso sui materiali di costruzione del ponte, sarebbe inevitabile tornare al 1967. L’articolo di Today, nel tratteggiare brevemente la storia di “Condotte”, come viene chiamata la ditta romana, specificava che negli anni ‘60 questa apparteneva all’Amministrazione Speciale della Santa Sede, e a Bastogi, per poi venire rilevata da Sindona. Pare che la quota di partecipazione del Vaticano in “Condotte” ammontasse a 7 miliardi di vecchie lire, e che il presidente fosse un'influente personalità del Vaticano, erede di una storica famiglia: Giovanni Battista Sacchetti. Sia quest’ultimo, sia Massimo Spada, comparivano in un articolo della Stampa del 1959 nel quale, su richiesta politica, venivano pubblicati dall’allora ministro delle finanze Preti i redditi degli anni ‘50 di alcuni uomini della Santa Sede. Vediamoli un attimo perché sono interessanti. L’avvocato Massimo Spada era passato da un reddito dichiarato di 2.600.000 lire nel 1951 ai 20.600.000 lire nel 1958, con un progressivo incremento. Molto curiose le dichiarazioni del marchese Giovanni Battista Sacchetti, presidente di Condotte d’acqua. Ogni anno l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate gli contestava i redditi, correggendo al rialzo le sue cifre. Nel 1951 ad esempio, se il Sacchetti aveva dichiarato 5.146.328 lire di reddito, l’ufficio gliene contestava 27. Nel 1952 dai 5.774.976 milioni dichiarati si passava ai 35.718.430 lire che risultavano dai controlli. Nel 1953 si andava dai 7.363.999 dichiarati ai 36.388.359 lire contestati. Nel 1954 da 9.207.680 a 31.778.994. Nel 1955 da 12.726.833 a 31.890.144 lire. E ogni anno il marchese Sacchetti preferiva andare in causa con lo Stato. Nell’elenco figuravano poi l’ingegnere Bernardino Nogara, l’ingegnere Eugenio Gualdi, il principe avvocato Marcantonio Pacelli, l’avvocato Vittorino Veronese, l’ingegnere Enrico Piero Galeazzi, e infine il principe Carlo Pacelli.
Ma abbiamo anche trovato la vera prova che Michele Sindona e Massimo Spada si conoscevano già prima dell’ottobre 1969. In quel periodo ci pare che non avvenne una vera vendita di “Condotte” a Sindona, quanto piuttosto un passaggio di consegne tra due gruppi di amministratori. Ebbene i due uomini subentranti, Spada e Sindona, vantavano già un’amicizia decennale nella politica economica della Santa Sede. Nel numero 25 dell’inverno 1986 dell’opuscolo “Covert Action, Information bulletin”, pubblicato a Washington e presente nell’archivio della CIA, a pagina 35, si legge che uno dei primi passi mossi da Sindona per avvicinarsi al denaro del Vaticano fu la conoscenza verso la fine degli anni ‘50 di Massimo Spada, definito un nobiluomo del Vaticano e un anziano membro della Banca Vaticana, lo IOR. Fu in quel periodo che Sindona strinse amicizia anche con il futuro papa Paolo VI, il cardinale di Milano, Giovanni Montini. Fu dai soldi percepiti dal Montini che Sindona iniziò la scalata alla banca che poi mandò in rovina, la Banca Privata Italiana, un istituto di credito che riceveva i fondi direttamente dallo IOR. Papa Montini fu accusato dallo stesso giornale di aver aiutato i criminali di guerra nazisti a rifugiarsi all’estero e a sfuggire alla cattura.
Di questi personaggi si occupava anche il nemico comunista in Ungheria, molto interessato a colpire gli esponenti filo-americani del Vaticano. Due gli articoli che sono disponibili in archivio: quello dell’11 aprile 1958 del giornale Új Szó, e nel numero di Dolgozók Lapja del 15 ottobre 1960. I giornalisti magiari polemizzavano sul potere temporale della chiesa, scrivendo: “Il Vaticano è uno dei poteri più capitalisti, e serve gli interessi del capitalismo. E gli interessi del capitalismo non hanno nulla a che fare con gli interessi della pace nel mondo.” Bernardino Nogara e Massimo Spada figuravano come due importanti personaggi della Santa Sede, al timone degli affari della Banca vaticana dello IOR, cui era collegata una delle più grandi banche svizzere, la Schweizerische Kreditanstalt. Di conseguenza la caratteristica, - specificava il giornale ungherese Dolgozók Lapja - di questi conti correnti era la segretezza e l’impossibilità per le autorità pubbliche italiane di accedervi. Massimo Spada era già all’epoca presidente di quattro società italiane e della Banca cattolica del Veneto, ma pare fosse vicedirettore in altre ventuno società. Nogara, inoltre, risultava essere stato attivo nella gestione di varie aziende, tra le quali la Montecatini, che diverrà presto la futura Montedison, fabbrica leader della chimica ma anche della produzione di armi.

venerdì 31 agosto 2018

“Ponte Morandi”, il ruolo del Vaticano


Sul crollo del Ponte Morandi sulla A10 di Genova la stampa estera è molto dura. Gli inglesi chiamano in causa in questi giorni nei loro articoli la mafia siciliana. Secondo alcuni esperti britannici, tra cui Dave Parker, accademico di Belfast ma anche editore e giornalista, il ponte negli anni ‘60 sarebbe stato costruito con materiali scadenti per risparmiare.
Ma quali prove esistono che sia stata questa la causa della tragedia del 14 agosto 2018? Avevamo scritto che Michele Sindona fu proprietario per un certo periodo di Condotte d’acqua e che la ditta fu probabilmente usata per coprire i debiti di altre aziende del finanziere siciliano, complice, si disse, l’IRI. Questa è sicuramente una conferma che la pista mafiosa battuta dagli inglesi non è affatto una bufala. Avevamo anche scritto come data indicativa dell’ingresso di Sindona il 1969.
Lo confermiamo. A fornirci questa certezza è un articolo dell’archivio del quotidiano La Stampa. Il 30 ottobre del 1969 venne data la notizia delle dimissioni del consiglio di amministrazione di Condotte d’acqua e del subentro di altri tre personaggi. Tra questi figurava proprio Michele Sindona. Ma c’è dell’altro da dire. Insieme a Michele Sindona stava rilevando la ditta costruttrice del Ponte Morandi anche un suo uomo di fiducia, Massimo Spada, che tuttavia era anche un importante esponente del Vaticano. Significa che c’è una continuità tra la gestione precedente, durante la quale fu costruito il ponte sul Polcevera, e quella successiva. La Santa Sede, infatti, fino a quel momento, il 1969 appunto, figurava come proprietaria di Condotte d’acqua insieme a Bastogi. Il presidente si chiamava Giovanni Battista Sacchetti, una personalità del Vaticano. Nomi a parte, delle ditte proprietarie di Condotte d’acqua si era parlato anche di recente sui giornali (ma prima del crollo del ponte), in seguito al disastroso stato di crisi in cui versa questa storica azienda, con arresti per corruzione (il 14 marzo è stato messo in galera il presidente Duccio Astaldi), e accuse che all’estero parlano proprio di gestione mafiosa nella costruzione di tunnel.
Ma torniamo al 1969, quando di mafia ancora non si parlava. Anche perché il proprietario di Condotte d’acqua era la Santa Sede del Vaticano, in poche parole il Papa Paolo VI. E se il Vaticano con Massimo Spada continuava a gestire gli affari della ditta romana costruttrice del ponte di Genova, c’era un altro uomo, e avevamo detto anche questo, che era ai vertici di Condotte d’acqua negli anni ‘60 e vi rimarrà anche con Sindona, Loris Corbi: passava da vice-presidente e direttore generale a presidente e amministratore delegato.
Ma chi era Massimo Spada? Il 7 ottobre 1980 sul quotidiano La Stampa usciva la notizia dell’interrogatorio di questo dirigente sindoniano. I magistrati in quel momento indagavano sul crac delle aziende del mafioso italo-americano. Spada aveva 75 anni ed era presidente della Banca Cattolica del Veneto, vicepresidente e membro dell’esecutivo della Banca privata finanziaria e anche dell’esecutivo della Banca Unione. Il giornalista della Stampa precisava che le ultime due erano creature “dell’avvocato di Patti”, di Sindona. Infine, quale ulteriore legame con il Vaticano, Spada era rappresentante dell’Istituto opere di religione. Un ulteriore ritratto di Spada veniva disegnato dal grande accusatore di Sindona, Carlo Bordoni. Mi sembra il caso di riportare integralmente quanto fu virgolettato quel giorno del 1980 dalla Stampa: “Uomo di Sindona al 100 per centro, schiavo dello stesso che lo ricattava sia pur pagandolo profumatamente bene. Uomo di punta del Vaticano, del Banco di Roma, e di una infinità di altre banche nelle quali la Santa Sede o Sindona avevano degli interessi, a parte le innumerevoli altre cariche che egli ricopriva nelle varie società del gruppo Sindona.” “Spada era inoltre - proseguiva Bordoni - l’uomo di Sindona che conosceva nei minimi dettagli tutte le rocambolesche transazioni finanziarie italiane ed estere del suo ‘amico Michele’, come egli lo chiamava”.
Di questa storia si sono occupati libri e articoli di giornale, che trovate tranquillamente online. Quello che a noi interessava dimostrare era che Condotte d’acqua non fu acquistata da Sindona solo per caso, per un anno, per poi cederla all’IRI, ma era sicuramente inserita nel disegno criminale del mafioso italo-americano. Inoltre i due personaggi di cui abbiamo parlato, Corbi e Spada, dimostrano che la Santa Sede, sebbene non possa essere accusata di aver costruito il ponte Morandi con materiali scadenti, era certamente legata a Michele Sindona già prima del passaggio di consegne nell’ottobre 1969. Ciò avveniva attraverso il ruolo primario svolto, prima e dopo, da Loris Corbi, e per la presenza di un esponente del Vaticano del calibro di Massimo Spada anche dopo la vendita di Condotte d’acqua a Sindona.

Un altro nome ricorrente nella storia di Condotte d'acqua è Fintecna. Fu questa azienda-contenitore del gruppo IRI a privatizzarla nel 1997 cedendola alla Ferrocemento costruzioni e lavori pubblici. Ma Fintecna si era occupata anche della manutenzione di Ponte Morandi, in particolare nel 1993 (probabilmente appaltando i lavori a un privato), e ora rischia di tornare ad occuparsene, dopo tutto quello che è successo a Genova, grazie all'intervento statale di Cassa Depositi e Prestiti invocato dal governo grillino. Fintecna è infatti controllata da questa banca pubblica protagonista assoluta della politica italiana. E si tornerebbe al punto di partenza, o almeno agli anni Settanta.

mercoledì 29 agosto 2018

La destra complice dei palestinesi nelle stragi?

Il campo di addestramento palestinese in Libano, per i terroristi neofascisti, come si presenta oggi sulle "mappe" dei telefonini.

La strage di Bologna del 2 agosto 1980 fu opera dei palestinesi, ma in collaborazione con i neofascisti. Uno dei più gravi attentati avvenuti in Italia potrebbe avere una soluzione definitiva e sorprendente.
Erano le 10 e 25 e faceva molto caldo, quel giorno. All’improvviso una miscela di esplosivo di circa 30 chili scoppiò nella sala di attesa della stazione di Bologna, mentre intere famiglie si spostavano verso le località di villeggiatura. L’esito del vile gesto dei terroristi fu la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200.
Nelle prime ore vi furono due rivendicazioni telefoniche, una dei NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari della destra, e una delle BR, le Brigate Rosse della sinistra. Entrambe le rivendicazioni furono smentite da successivi comunicati. Ma gli inquirenti puntarono subito sulla pista neofascista. Vi furono depistaggi dei servizi segreti, ma per la magistratura gli esecutori materiali potevano essere solo tre: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro dei NAR, con la complicità di Luigi Ciavardini (fonte L'Espresso e Wikipedia). Ma chi erano i mandanti politici dell’attentato? E perché far morire così 85 persone inermi? Su questo le indagini sono state insufficienti e nei giorni scorsi i quotidiani in occasione del 38esimo anniversario della strage lo hanno sottolineato polemicamente.
Eppure una risposta era disponibile sui libri fin dal 1983. Il giornalista francese Edouard Sablier era certo che il mandante dell’attentato di Bologna fosse Abou Ayad, definito da Sablier “il più vicino collaboratore di Yasser Arafat”, il capo dell’Olp, ossia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. L’autore del libro, che si intitola “Il filo rosso”, individuava quattro gruppi di terroristi agli ordini dei palestinesi dell’OLP: i marxisti-leninisti che combattevano una guerriglia urbana nei paesi industrializzati, come la banda Baader-Meinhof e le Brigate Rosse, i guerriglieri che combattevano fuori dalle città nei paesi in via di sviluppo, come in Asia e America Latina, i separatisti europei, come i baschi dell’Eta o gli irlandesi dell’Ira, e infine un quarto gruppo comprendente i neofascisti italiani, francesi e tedeschi.
Il quartier generale di tutti questi gruppi era il Libano, dilaniato da una guerra civile tra cristiano-maroniti e rifugiati palestinesi. I gruppi di sinistra venivano addestrati nel campo palestinese di Chatila, quelli di destra, tra cui anche i lupi grigi turchi come l’attentatore del Papa, Alì Agca, a Bir Hassan. In Francia, Italia e Germania secondo Sablier avvenne una collaborazione tra terroristi di destra e di sinistra che portò non solo alla strage di Bologna, ma anche agli attentati dell’Oktoberfest di Monaco e della sinagoga della Rue Copernic di Parigi. A progettare queste stragi fu sempre Abou Ayad. La fonte di queste informazioni fu Walter Ulrich Behle, un terrorista neonazista tedesco catturato dai cristiani-maroniti del Libano nel 1981.
Ma allora perché questi neofascisti, e i due nomi indicati dalla magistratura, Mambro e Fioravanti, possono rientrare benissimo anche in questo nuovo scenario, avrebbero ucciso decine di persone insieme ai palestinesi? Per poter rispondere mi sono andato a guardare su Youtube diverse trasmissioni televisive, tra cui “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli. Di una complicità palestinese si era parlato già altre volte. La stessa storia raccontata da Sablier, della confessione di Behle, è presente nella sentenza emessa dalla Corte di Assise di Bologna dell’11 luglio del 1988. Nell’elenco dei fatti di quei giorni del 1980-81 compare una notizia Ansa, fatta girare negli ambienti inquirenti dalla Questura di Bologna il 25 giugno 1981, nella quale venivano riportate le dichiarazioni del falangista palestinese Naum Farah, che accusava Abou Ayad sia della strage di Bologna che di quella di Monaco, dicendo le stesse cose di Behle, pur senza specificare che si trattava di terroristi neofascisti. L’indiscrezione non ebbe seguito.
La Commissione Mitrokhin negli anni duemila tornò sulla vicenda. Il giornalista Gian Paolo Pellizzaro, consulente della Mitrokhin, alla fine dei suoi studi affermò che per la bomba di Bologna i responsabili erano Carlos “Lo sciacallo” e il suo gruppo tedesco-palestinese, sempre legato al Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp) di Habash. Questa tesi si scontrò con numerose obiezioni da parte dei politici dell’attuale sinistra. Lo scetticismo era dovuto a un accordo segreto noto ormai alle cronache come “Il lodo Moro”. Si trattava di un patto di non aggressione firmato dal democristiano Aldo Moro con l’Olp, secondo il quale i palestinesi si impegnavano a far passare armi in Italia, ma senza usarle contro il nostro paese. Pellizzaro sostenne che quel patto venne interrotto per l’arresto in Italia di un palestinese all’inizio del 1980.
Edouard Sablier fornisce a mio avviso una risposta assai più precisa. Innanzitutto stipulare un patto con l’Olp non escludeva affatto la possibilità di subire attentati, poiché i palestinesi erano divisi in svariati gruppi in lotta sanguinosa tra di loro, e il Fronte del rifiuto, come veniva chiamato il Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp) di George Habash e Wadi Haddad, di cui parlo spesso anch’io, non accettava che si stabilissero accordi con il nemico occidentale o israeliano, perché il suo scopo principale non era la liberazione della Palestina bensì la guerra permanente negli stati occidentali. Ma non solo. Nel maggio 1972 avvenne il “patto di Badawi”. George Habash invitò tutti i rappresentanti dei gruppi terroristici in Libano per programmare una lotta comune contro il nemico occidentale, in cui ogni gruppo sarebbe andato in soccorso dell’altro. “Il patto di Badawi - scrisse Sablier - è l’atto di nascita ufficiale del terrorismo mondiale”. Ma dietro a tutta questa struttura, che non escludeva certo i neofascisti, come sottolineò anche il segretario di stato americano nell’era Reagan, Alexander Haig, c’erano i russi del KGB e i cubani di Fidel Castro. Certamente non gli americani.
Ma è veramente così? Io credo che la caratteristica del terrorismo degli anni Settanta che si delinea dalla mia indagine “impossibile” sia una certa trasversalità, cioè un legame bipartisan tra fronti ideologicamente opposti. Un’interconnessione segreta che ha impedito, come denunciarono gli stessi autori dei due ottimi libri sul terrorismo internazionale, Sablier e la Sterling, che si facesse piena luce sugli scopi politici del terrorismo. Infatti la collaborazione tra estrema destra ed estrema sinistra cui accenna Sablier la si ritrova anche nella relazione della Stasi sui gruppi terroristici italiani. Alla voce NAR, ecco cosa si poteva leggere: “Cellule Armate Rivoluzionarie” (NAR). Fu chiamato anche il “gemello delle Brigate Rosse” e considerato l'organizzatore del “Terrore Nero”. A fondare i “NAR” fu Franco Anselmi. Secondo alcuni esperti dell'anti-terrorismo italiano vi confluirono “membri delusi dal “MSI” che voltarono le spalle alla politica legale, dedicandosi alla lotta contro il sistema. Si sapeva anche di una collaborazione che il capo dei “NAR” aveva con le “Brigate Rosse”.”
Qualche dubbio bisogna porselo prima di dare per chiusa la faccenda: come poteva un servizio segreto comunista, in combutta con il KGB, fornire la stessa analisi sul terrorismo del segretario di Ronald Reagan? Alcuni servizi di spionaggio dei paesi socialisti non erano al corrente dei piani del KGB? Può darsi. Oppure entrambi, USA e URSS, avevano interesse a far proseguire il terrorismo palestinese in Europa. Lo potrebbe dimostrare l’inchiesta sullo scambio armi-droga del giudice Carlo Palermo, nella quale erano implicati sia uomini della loggia P2 italiana, sia uomini della CIA, il servizio segreto americano, sia industrie della Cecoslovacchia, come la Merkuria, una ditta di Praga che scambiava prodotti di ingegneria, o armi, con beni di prima necessità da distribuire in patria. Le armi partivano per il Medio Oriente con la mediazione di oscuri personaggi siriani legati al regime di Assad, e tramite una ditta bulgara chiamata Kintex. Ma un simile traffico era possibile soprattutto grazie alla copertura garantita dalla mafia siciliana.
Un altro capitolo riguarda i risvolti politici di un possibile legame tra la destra e i palestinesi. Non bisogna dimenticare quei personaggi italiani che giustificarono la violenza del terrorismo palestinese. Bettino Craxi nel novembre del 1985 fece in Parlamento dichiarazioni molto contestate. In un clima politico certamente più formale e meno violento di quello attuale, l’aver parlato di “legittimità” della lotta palestinese non poteva passare inosservato. Che fine avrebbe fatto il leader del Partito Socialista, se oltre al coinvolgimento di alcuni suoi uomini dello scandalo armi-droga si fosse anche saputo che i mandanti della strage di Bologna erano proprio palestinesi? Bisognerà infine rianalizzare sotto una nuova luce la notizia uscita nel 2018 sull’Espresso, secondo la quale Arafat, nel suo diario, avrebbe annotato che Silvio Berlusconi pagò a Craxi i famosi 10 miliardi dello scandalo All-Iberian per finanziare l’Olp. La destra che siede oggi in Parlamento è complice del terrorismo palestinese?

Un discorso a parte va fatto sul presunto depistaggio dei servizi segreti. Nella sentenza dell’11 luglio del 1988 si possono leggere le motivazioni con cui i vertici dei servizi furono condannati per aver simulato un attentato nel 1981. In pratica avvenne questo: fu trovata nella stazione di Bologna il 13 gennaio 1981, sull’Espresso 514, una valigetta contenente lo stesso esplosivo usato sempre a Bologna il 2 agosto 1980, e il Sismi ritenne che potesse essere opera di un’organizzazione internazionale pronta a una serie di attentati sui treni. Di questo gruppo terroristico avrebbero fatto parte membri spagnoli dell’Eta, i quali avrebbero rubato 8 quintali di esplosivo in Spagna il 26 luglio 1980, ma sarebbero stati inclusi anche noti terroristi di destra, come Marco Affatigato, svariati esponenti del Fane, un gruppo considerato vicino ai servizi segreti francesi, e neonazisti tedeschi. Tra questi ultimi compare anche Walter Ulrich Behle, anche se il nome risulta storpiato forse per un errore di trascrizione, che fu catturato dai libanesi e, come abbiamo visto, rivelò la pista palestinese per svariati attentati di quel periodo.
Se gli inquirenti avessero seguito la pista indicata dai servizi segreti italiani, senza per questo entrare nel dettaglio delle indagini su quella valigetta e su chi l’avesse confezionata, avrebbero scoperto quella rete internazionale che si trova descritta su tutti i libri redatti da giornalisti e storici di fama mondiale. Male, insomma, non avrebbero fatto, visto che qualche anno più tardi vi fu l’ultimo grande attentato terroristico proprio su un treno, il famoso Rapido 904 del 23 dicembre 1984.
Ancora una volta, a mio personale giudizio, dopo l’informativa sulla strage di piazza Fontana, dai servizi segreti era arrivata l’informazione più vicina alla verità storica, ma era stata ignorata. Ciò non toglie che il mondo dello spionaggio e del controspionaggio fosse torbido e diviso in clan, fazioni che probabilmente difendevano un’ideologia politica. Mi riferisco alla fazione andreottiana di Gian Adelio Maletti contrapposta a quella di Vito Miceli, che era apertamente filo-arabo e filo-libico. Fu Miceli, secondo quanto si legge su Wikipedia, a far firmare al famoso (perché le cronache parlano spesso di lui) colonnello Stefano Giovannone quel patto di non belligeranza con i palestinesi dell’Olp. Per la precisione fu proprio George Habash del Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp) la controparte del Lodo Moro. Con Habash c’erano Bassam Abu Sharif, portavoce dell’Fplp e consigliere di Arafat all’Olp, e infine Abu Anzeh Saleh, rappresentante dell’Fplp che risiedeva proprio a Bologna. Ed era sempre Saleh il palestinese arrestato a Ortona, insieme a membri di Autonomia Operaia, per detenzione di missili. L'incidente avvenne poco prima della strage di Bologna. Ciò, secondo la commissione Mitrokhin, avrebbe fatto saltare il Lodo Moro e dato il via libera agli attentati palestinesi anche in Italia. 
 

domenica 19 agosto 2018

Il ponte Morandi negli affari di Sindona?


Clamoroso, il ponte Morandi di Genova fu costruito da una società che Michele Sindona rilevò nel 1969 e che l'IRI, comprandola a sua volta, usò per coprire i buchi di altre ditte di Sindona in fallimento, come la famosa Immobiliare. Si levarono all'epoca, era l'agosto del 1977, voci che fosse lo stesso Sindona a spingere l'IRI verso operazioni di salvataggio delle sue aziende in crisi. Voci che venivano smentite seccamente.
L’ho scoperto curiosando nel solito archivio del quotidiano La Stampa, colpito come tutti gli italiani dalla tragedia del 14 agosto 2018, con la morte di 43 persone nel crollo del viadotto “Polcevera” o “ponte Morandi” dell’autostrada A10.
Il viadotto maledetto era stato inaugurato cinquant’anni prima, nel settembre del 1967. E’ stato il TG5 a mostrare nei giorni scorsi il titolo del quotidiano torinese su quello storico giorno. Pioveva a dirotto mentre il presidente della repubblica, il socialdemocratico Saragat, percorreva per la prima volta quel tratto avveniristico di autostrada. Il ponte, progettato come tanti altri dalla mente dell’ingegner Riccardo Morandi, fu realizzato dalla società “Condotte d’acqua” per conto dell’IRI, ente pubblico titolare delle autostrade italiane. Saragat quel giorno corse ad abbracciare i tecnici della società, per ringraziarli di aver costruito un’opera la quale, a loro dire, sarebbe dovuta durare per millenni come i ponti romani, e che non avrebbe avuto bisogno di manutenzione.
Il presidente di “Condotte d’acqua”, ditta che costruì molte opere soprattutto in Piemonte, all’epoca era Loris Corbi e vi rimase anche sotto la gestione di Sindona, e poi con l'IRI. "Condotte d'acqua" dal 1969 era stata rilevata dal discusso finanziere siciliano. Nel 1985 Loris Corbi fu chiamato a testimoniare al processo per la morte di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore del tribunale fatto uccidere da Sindona affinché non ponesse fine al suo lavoro di ricostruzione degli affari sporchi del banchiere italo-americano, membro oltretutto della mafia di New York.
Ma che riflessi può avere questa notizia sul crollo del ponte a Genova? La tragedia è avvenuta perché si risparmiò usando materiali scadenti? E’ il dubbio che mi sono posto e a cui come giornalista ho voluto cercare di rispondere. Di fatto proprio nel periodo in cui le ditte di Sindona entravano in crisi, dal 1977 in poi, e il tribunale con Ambrosoli tentava di salvaguardare i creditori, anche sul ponte Morandi iniziavano i primi problemi. Il TG5 ha pubblicato il documento con cui l’ingegner Morandi, nel 1979, ammetteva che la sua opera aveva bisogno di restauri, opere di cui si incaricava nel 1981 la stessa IRI, che nel frattempo aveva rilevato da Sindona la stessa società “Condotte d’acqua” e aveva cercato di privatizzarla, senza successo per l'opposizione dei sindacati, cercando in questo modo liquidità per salvare dal fallimento l'Immobiliare. 
Intanto lo Stato pagava: se nel 1967 la costruzione del ponte Morandi aveva portato via dalle casse statali cinque miliardi di vecchie lire, nel 1993 un nuovo intervento di manutenzione, che l’IRI affidò a Fintecna, costò 40 miliardi di vecchie lire, cifra che, sebbene fosse soggetta alla svalutazione della Lira, era già consistente, e che non è lontana dai 20 milioni di euro che la società Autostrade aveva stanziato a maggio 2018 per un futuro restauro che non ebbe il tempo di porre in atto.
Pioveva ancora, come nel 1967, il 14 agosto 2018, mentre 43 persone perdevano la vita nel crollo del ponte Morandi, ripreso da telecamere e finito sotto il vaglio della procura di Genova. Sulle prime qualcuno parlò di attentato: nel video della polizia si notavano dei bagliori che precedevano il crollo di una delle tre torri che reggono il ponte. Bagliori o lampi testimoniati anche da un post su Twitter di Valerio Staffelli di Striscia La Notizia. Erano fulmini dovuti al temporale? O scoppi di linee elettriche che passavano per la superficie stradale? Non lo sappiamo, serviranno i rilievi dei tecnici per dirlo.
Di certo però in questa storia si resta nell’orbita dell’IRI, e inevitabilmente anche di Michele Sindona, che la democristiana IRI tentava di salvare.
Il ponte è una voragine senza fondo che nei decenni ha divorato miliardi di denaro pubblico per manutenzioni a cui si poteva fare a meno, probabilmente, e che nonostante questo ha ucciso 43 persone. Gli sfollati del quartiere di Genova attraversato dai resti del ponte Morandi, ora pericolante, verranno aiutati con uno stanziamento di fondi e di alloggi forniti da Cassa Depositi e Prestiti. Guarda caso questa banca pubblica, di cui mi sono occupato nei miei libri, detiene il 100% anche di Fintecna, la ditta che nel 1993 si prese cura della manutenzione da 40 miliardi di lire del ponte Morandi.
Speriamo per le famiglie delle vittime che le inchieste giudiziarie arrivino a una ricostruzione migliore della nostra. Che facciano finire in prigione, e non solo ai domiciliari come spesso si vede in televisione, i colpevoli della malagestione del ponte, e che non terminino con la solita avvilente archiviazione.

martedì 26 giugno 2018

Calciatori curati con metodi sovietici


La Novocaina usata dai massaggiatori per permettere a un calciatore infortunato di proseguire la partita era una scoperta della medicina sovietica. Lo si apprende grazie a un documento del 22 novembre 1950 con il quale la CIA, il servizio segreto americano, traduceva in inglese un testo pubblicato nel precedente mese di giugno nell’URSS. La scoperta dei russi consisteva nel fatto che la Novocaina aveva la capacità di irritare i nervi riportandoli a una condizione di normalità. Gli studiosi si chiamavano Vvedenskiy e Ukhtomskiy e secondo il documento rispondevano alle critiche affermando che la cura a base di Novocaina era indicata solo in alcuni casi particolari, come ad esempio le infiammazioni o nei disturbi del tono muscolare, ma si rivelava efficace come nei trattamenti a base di droghe.
Gli americani della CIA erano molto attenti anche alla Procaina, un altro anestetico che avevamo letto a proposito di persone morte dopo un’iniezione di Penicillina, negli anni Sessanta, esattamente come capitò allo sfortunato calciatore della Roma, Giuliano Taccola. Secondo i magistrati italiani le morti per le iniezioni di Penicillina avvenivano sempre quando essa era associata alla Procaina. Ebbene, un documento della CIA del 22 novembre 1955 si preoccupava di monitorare la produzione nei paesi del Patto di Varsavia di questo particolare tipo di anestetico, la Penicillin-Procaina, che nasceva, in questo caso almeno, nei laboratori cecoslovacchi di Roztoky.
Non sappiamo se i massaggiatori fossero a conoscenza delle implicazioni politiche delle loro cure ai bordi dei campi di calcio, ma certo è che il rimanere in campo, come scrissero i giornali, curati con la Novocaina diventava un atto eroico che il pubblico apprezzava. Del resto le leggi sul doping, in Italia, non erano così severe nell’immediato dopo-guerra. La prima fu la numero 1099 del 1971. Basterebbe leggere il numero 20 del settimanale Guerin Sportivo 1979 per rendersi conto che molte sostanze erano considerate legali, nonostante i medici fossero consapevoli dei loro rischi per la salute. La ragione, certamente discutibile, per cui non erano vietate consisteva nel fatto che l'azione di questo doping non era immediata e dunque non avrebbe falsato l'esito di una gara.
Tra i farmaci permessi, l’articolo di Stefano Tura intitolato “Prima e... doping” citava, non solo i cardiotonici come il Micoren, gli analettici-bulbari, le vitamine o gli zuccheri, che spesso furono citati in epoca recente nei racconti dei calciatori al magistrato inquirente Raffaele Guariniello, o ancora i farmaci “xantinici” come la caffeina, ma parlava anche dei pericolosi anabolizzanti proteici come il Nandrolone, divenuto illegale solo con una nuova legge nel 2000. E sappiamo bene quanti sportivi furono scovati negli anni duemila con questo farmaco dopante che gonfia la massa muscolare! Si pensi soltanto che la miccia che fece scoppiare le polemiche sui giornali furono le dichiarazioni pubbliche dell’allenatore Zeman, il quale ironizzò sui muscoli sospetti dei giocatori della Juventus. Ma eravamo ancora nel 1998.
Le sostanze vietate già negli anni Settanta erano invece la Fentermina, il Metilfenidato, le Amfetamine, l’Efedrina, la Stricnina, l’Ibogaina, che è un curioso farmaco prodotto in Africa Equatoriale e permette una maggiore resistenza alla fatica, e infine un antidepressivo come la Pargilina.

lunedì 25 giugno 2018

Ustica: fu atto di guerra contro ‘l’amico’ Gheddafi?


Forse fu un atto di guerra, un’esercitazione militare sicuramente no. Lo scenario internazionale che fece da sfondo al disastro dell’aereo DC-9 a Ustica il 27 giugno del 1980 ormai è molto chiaro. Lo si desume dagli archivi dei quotidiani, facilmente consultabili online, e dai documenti non più coperti dal segreto, specialmente all’estero.
Nei primi giorni successivi alla sciagura, in cui morirono 81 persone, i militari raccontarono di un’esercitazione che era in corso la sera del 27 giugno 1980. Ciò avrebbe impedito al radar di Marsala di visualizzare i velivoli che sorvolavano il cielo della Sicilia. Di esercitazione si è parlato recentemente sui giornali anche in relazione al racconto del militare americano Brian Sandlin, il quale, intervistato da Andrea Purgatori su La7, ha descritto una battaglia tra aerei statunitensi e libici nella quale sarebbe rimasto coinvolto anche il DC-9.
Eppure l’esercitazione della Nato si era conclusa il 30 maggio del 1980. Lo si può leggere sul quotidiano La Stampa del 15 maggio 1980. Il titolo dell’articolo di Piero Cerati era molto eloquente: “Navi di sette Paesi alleati a Napoli si ‘allenano’ per i casi d’emergenza”. “Forza di Dissuasione 1/80” era il nome in codice dell’esercitazione, ed era nota anche alle forze del Patto di Varsavia, tanto che anni dopo la citava anche un giornale ungherese. Il 15 maggio 1984 sul quotidiano Új Szó si poteva leggere: “Il Mar Mediterraneo da Alessandria a Gibilterra è attualmente un'area estremamente pericolosa, ha scritto nella recensione di ieri della Pravda Yuriy Vladimir.” E poi, sulla strage di Ustica, Új Szó aggiungeva: “è emersa una nuova prova del fatto che il missile lanciato da una simile pratica militare nel giugno 1980 ha causato la catastrofe dell’aereo con 81 persone.”
E’ proprio leggendo queste righe che mi sono messo a cercare sui giornali tracce di questa esercitazione, che veniva organizzata fin dal 1975, e per due volte all’anno, con una durata massima di un mese per ciascuna. Ed è apparso chiaro che c’era un problema di date. Piero Cerati descriveva in questo modo lo scenario di guerra di quei giorni: “Le navi formano una piccola squadra, che comprende il ‘Carabiniere’ (italiano) e l’Adatepe (turco), due caccia con armamento convenzionale; il Vreeland (americano) e il Brighton (inglese), due fregate con missili radar asserviti.” In un primo momento la ‘task force’ sarebbe rimasta nel golfo di Napoli, almeno dal 16 al 26 maggio. A quel punto si sarebbe avviata in alto mare per incrociare e appoggiare eventuali altre unità anche aeree. Lo scopo era quello di simulare una crisi internazionale improvvisa. Quest’ultima fase sarebbe stata, secondo Cerati, “un’esercitazione complessa che durerà dal 26 al 30 maggio”.
Cosa avvenne dunque la sera del 27 giugno 1980, se la ‘task force’ non era più operativa da 28 giorni? Per rispondere a questa domanda possiamo utilizzare un’altra informazione proveniente dai quotidiani. Il 27 giugno 1980, cioè lo stesso giorno del disastro di Ustica, sulle pagine del quotidiano La Stampa vi era un’altra notizia fondamentale. Il titolo dell’articolo era: “Gheddafi compera dalla Rai duecento ore di programmi”. Si scopre così che in quel periodo c’erano a Roma dei delegati del governo libico, e sarebbero probabilmente ripartiti quello stesso giorno. I giornalisti della Rai che per anni si sono occupati del caso Ustica avrebbero dovuto saperlo, perché gli uomini di Gheddafi erano esattamente nei loro uffici, quel drammatico giorno di 38 anni fa, per contrattare l’acquisto di programmi da trasmettere in Libia. Ecco il testo molto eloquente del giornale: “In questi giorni infatti una delegazione della tv libica ha visionato nella sede della Sacis alcuni dei migliori programmi culturali, di spettacolo, di intrattenimento, film, telefilm realizzati dalla Rai.”
Quali conclusioni trarre a questo punto? Potremmo iniziare a unire le tante certezze e disegnare un possibile scenario. Se è vero che i direttori degli aeroporti facevano parte dell’organigramma dell’Aeronautica militare, come scritto nel libro di medicina legale di mio nonno, non è assurdo pensare che, come sostenne nel 2000 l’onorevole Carlo Ciccioli, il direttore dell’aeroporto di Bologna fosse in grado di costringere il DC-9 a ritardare il decollo per scopi militari, cioè, in questo caso, per permettere a un aereo statunitense di inserirsi nella sua scia. Ma perché l’aviazione statunitense avrebbe dovuto compiere un simile azzardo? Evidentemente perché Gheddafi, che in Italia era trattato da amico, in ambito internazionale risultava il capo del terrorismo. Dunque poteva essere necessario monitorare gli aerei di Gheddafi, sia quelli di ritorno dalla trasferta nelle sedi della Rai, da Roma verso Tripoli (a meno che gli emissari libici non viaggiassero su un volo di linea), sia altri eventualmente decollati dal territorio libico. Una reazione improvvisa dei libici potrebbe aver innescato la guerra aerea che è stata ipotizzata da molti, e potrebbe aver causato la morte di 81 cittadini italiani innocenti.

Ma quella appena formulata è solo un'ipotesi. Che non può non tener conto di quanto esce sulla stampa. Ce ne potrebbero essere anche altre di teorie. Se ad esempio il Phantom di cui parlò l'onorevole Ciccioli non fosse stato americano ma italiano si potrebbe attribuire la caccia ai libici ai nostri servizi segreti, quelli perlomeno in disaccordo con la fazione più vicina a Gheddafi. 
A proposito del ritardo del DC-9, Andrea Purgatori sull'Huffington post ha scritto che l'aereo di linea rimase due ore sulla pista di Bologna per il maltempo. Sono andato a cercare le mappe meteorologiche. Esiste una carta sinottica delle ore 18 del 27 giugno 1980 del sito tedesco Wetterzentrale, la quale mostra che vi erano in quel momento sull'Italia delle correnti tese di tramontana. E questo per la mia piccola esperienza di osservatore esclude che su Bologna vi fosse un temporale, essendo sottovento. Mentre è possibile che il temporale si stesse scatenando su Ustica. Nell'archivio del quotidiano La Stampa le previsioni del tempo di quel giorno in effetti parlavano di cielo poco nuvoloso al nord e di temporali al sud. 
Quindi come escludere che il DC-9 fosse fermo per il maltempo? Ma quanti altri aerei avrebbero potuto fermarsi per la pioggia e non lo fecero? Basti pensare alla morte di Enrico Mattei dell'Eni, o alla fine tragica dei giocatori del grande Torino. Semmai per quel ritardo del DC-9 si potrebbe parlare di eccesso di zelo inconsueto. O di un'ottima copertura per altre oscure operazioni.