domenica 29 marzo 2020

Silvio Berlusconi finanziava il suo avversario Prodi?


Silvio Berlusconi nel 1978 versò una 'parcella' di 2 milioni di lire, pari a 6700 euro di oggi, a Romano Prodi, allora in procinto di diventare Ministro dell'Industria. La notizia veniva pubblicata da Mino Pecorelli nel suo settimanale OP, sul numero del 21 novembre 1978. In quel periodo, Prodi, che nell'articoletto veniva erroneamente identificato come Roberto, era un rappresentante della Democrazia Cristiana e il versamento misterioso era la ricompensa per un convegno doroteo a Montecatini. 
Il povero Pecorelli, poi assassinato da mani ignote, con il suo solito arguto sarcasmo definiva il futuro presidente del consiglio dell'Ulivo un economista a pagamento, al punto da sospettare che quei 2 milioni servissero per agevolare le politiche sui piani-casa, ai quali come costruttore milanese il berlusca era ovviamente interessato. 
Dunque, per Pecorelli, le conferenze di Prodi costavano più del normale. Il problema riletto nel 2020 è anche un altro: a mettere mano al portafoglio nel lontano 1978 fu un futuro acerrimo nemico di Prodi, proprio quel Silvio Berlusconi che, da destra, sarebbe stato a lungo il suo antagonista nel bipolarismo della seconda repubblica. Se quindi all'epoca la notizia meritava solo un trafiletto, oggi diventa un vero enigma. Prodi e Berlusconi erano amici ed entrambi collaboravano alla politica democristiana? E poi torniamo a chiederci: sono credibili le accuse della famiglia di Alexander Litvinenko verso il 'Cavaliere', come lo definiva anche Pecorelli? Fu lui a convincere l'ex spia russa ad accusare Prodi di essere del KGB? Ancora interrogativi: al di là di una rivalità apparente tra destra e sinistra, questa politica attuale ci nasconde il suo vero volto? Noi lo abbiamo già anticipato nel libro "Armi di Stato". La risposta è, sì.
Siamo andati a cercare questo convegno doroteo di Montecatini, sfogliando gli articoli d’archivio dei grandi quotidiani. Avvenne alla fine di ottobre del 1978. Davvero gustoso il pezzo di Antonio Caprarica sull’Unità, specialmente perché affrontava l’analisi della politica dorotea da un’angolatura esterna, il marxismo. 
A pochi mesi dal delitto Moro tramontava rapidamente il sogno del compromesso storico DC-PCI e il centro-destra democristiano, guidato dagli onorevoli Piccoli, Ruffini, Bisaglia, Gava riproponeva, proiettata ai futuri anni ‘80, la ricetta capitalistica, sia pure con degli adattamenti alle contingenze: doveva essere una nuova Utopia, come l’opera di Tommaso Moro amata da Silvio Berlusconi. 
Per anni - scriveva Caprarica - i dorotei si erano imposti nei meccanismi del potere attraverso la politica assistenziale. Negli anni Settanta quel sistema era entrato in crisi e serviva una risposta nuova. Quale? Non più centralità democristiana ma accostamento ai comunisti, a quelli nuovi, però, di Berlinguer, già pronti a ripararsi sotto l’ombrello della Nato. Nello stesso periodo, infatti, Mino Pecorelli li accusava di aver costruito un impero capitalistico ricchissimo, in grado di costruire un vasto giro d’affari vendendo prodotti italiani ai paesi dell’est. Caprarica sembra sottolineare proprio questo aspetto. Vorrei riportare il pezzo più significativo, la descrizione della nuova Utopia ipotizzata da Bisaglia: Sarebbe stata “una moderna democrazia industriale, con una nuova qualità della vita, la città che funziona, la scuola, gli ospedali, le poste che funzionano, il tempo libero, lo spazio sociale per i giovani e per i vecchi. In tutto questo non c'è solo una specie di lettura ‘dopo-lavoristica’ della crisi, un'idea di ‘welfare state’ riproposta senza mediazioni; c'è anche la radice di un sistema di equilibri politici che, pure ammessa ma non concessa la caduta delle discriminanti di ‘democraticità’, si affretta a segnare nuovi limiti. Ecco la ‘nuova frontiera’ di Tony Bisaglia. O si accetta questa immagine di sviluppo — ammesso che possa esserlo— e si è legittimati a governarlo: o se ne rimane fuori, e ai margini, liberi quanto si vuole di proporre — come il PCI — una ‘società socialista diversa dai vari modelli attuali’; ma consapevoli che la questione del governo resta un affare tra le ‘forze riformatrici’di derivazione liberaldemocratica, cattolica-democratica e socialista (ma di un socialismo che abbia liquidato ogni legame con il marxismo).” 
Direi che il riferimento all’attualità è evidente. Caprarica sottolinea come la politica del futuro, diciamo del dopo-Moro, poteva essere anche di avvicinamento ai comunisti, ma solo a patto che questi rinunciassero all’applicazione del socialismo reale, e si rimanesse in un ambito assistenziale ma cattolico. Solidale, ma capitalistico. Una società del ‘fare’, una società quindi berlusconiana.
Da parte sua l’onorevole Piccoli sottolineava proprio il cambiamento epocale del PCI, che volenti o nolenti bisognava accettare: “Il problema per la DC degli anni '80 è di fronteggiare un PCI che vanta la sua leale nazionalizzazione, accanto agli altri meriti e caratteri, laicità, pluralismo, democraticità”. Pertanto, il confronto DC-PCI non era più una tattica morotea - spiegava il giornalista Caprarica - bensì un dato di fatto, a cui la DC - secondo Piccoli e Ruffini - avrebbe dovuto rispondere offrendo alla società “uno sbocco”, senza essere più “l’ammortizzatore della società civile”; una via d’uscita rispetto a questo confronto tra destra e sinistra. E questa risposta doveva essere il “solidarismo cattolico”. Con quali strumenti offrirla? - Si chiedeva Caprarica. Il tempo, che nella nostra politica scorre molto lentamente, avrebbe risposto: certamente non col fallimentare governo Craxi o con il Pentapartito, bensì con la seconda repubblica nata da Mani Pulite.
Ma Prodi? Non ce lo siamo dimenticato. Purtroppo Caprarica non lo citava affatto. Lo ritroviamo sul quotidiano La Stampa con il solo cognome. Ma è evidente che l’economista Prodi, destinato a divenire Ministro dell’Industria poteva essere uno soltanto: Romano Prodi, già intervenuto nel 1977 al programma della Rai, Match, condotto dal giornalista Alberto Arbasino, recentemente scomparso. Stando al pezzo di Renzo Villare, Prodi aveva affermato, insieme ad Agnelli, che per il futuro sarebbero stati necessari: più liberalismo, un aumento della produzione industriale nel settore terziario, e conseguentemente maggiori guadagni. Naturalmente il riferimento al Cavaliere di Arcore è del tutto spontaneo.
Molto berlusconiane anche le parole con cui il giornalista della Stampa riassumeva il discorso di Bisaglia al convegno, con cui l’onorevole chiedeva, indovinate un po’ cosa? “di rimettere in moto gli investimenti, ridurre la disoccupazione e diminuire la pressione della spesa pubblica.” Quando denunciavamo la totale mancanza di idee politiche nei programmi di Forza Italia, nel nostro libro L’ultima piovra, in mente avevamo esattamente queste parole di Bisaglia-sconi. 



martedì 24 marzo 2020

“Gli arresti illegali, le persecuzioni e le discriminazioni” dei democristiani in Somalia


“DRILL - vero nome Sansone Vito, nato il 21.8.1913 a Castelvetrano, caporedattore, residente in via Camilluccia 195 c, telefono 34 34 00, responsabile affari esteri de Il Paese.” 
Il dossier cecoslovacco numero 334 che sfogliamo oggi si occupava della politica estera italiana, aprendo un’inedita finestra sui dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana sulla Somalia. 
Tanti sono infatti gli spunti che si possono trarre dalle informative di questo giornalista, Sansone appunto, redatte tra il 1960 e il 1961. Si era alla vigilia dello scandalo delle banane, la prima grande inchiesta sulla corruzione politica in Italia, che scoppiò proprio per colpa del monopolio sull’importazione delle banane somale. Le aziende della vendita all’ingrosso vincevano l’appalto indovinando sempre il prezzo massimo previsto dal bando. Chissà perché. E il cittadino tirava fuori dalle sue tasche i soldi in più che finivano in tangenti e, vedremo dalle informative di Sansone, anche nel mantenimento di un sistema fascista di sfruttamento della manodopera locale. 
Come non credere a ciò che la spia cecoslovacca segnalava ai sovietici? E’ un fatto incontestabile che nel periodo del centrismo democristiano molto denaro pubblico, finanziamenti americani del piano Marshall inclusi, potesse misteriosamente sparire anziché servire per la ricostruzione del meridione, tanto per dirne una che avrete sentito. Ora però sappiamo qualche altro aneddoto, difficile da reperire sui libri o anche su internet, negli archivi dei quotidiani. Possiamo ricostruire gli ultimi spostamenti del presidente dell’ENI, Enrico Mattei, cogliere nuovi spunti di riflessione nell’apprendere che il dirigente marchigiano, perito tragicamente con il suo aereo a Bascapè, stava cercando pericolose alleanze politiche nella RAU, cioè tra gli egiziani, i nasseriani, facendo leva su amicizie pericolose fasciste, esponendosi alle lotte fratricide per l’egemonia politico-economica in Africa Orientale. Inoltre potremmo iniziare a chiederci se quel fiume di denaro pubblico italiano, che si perdeva nei meandri della burocrazia per sovvenzionare le gerarchie del capitalismo italiano in Somalia, fosse l’antenato di quei 1900 miliardi, ve li ricordate, che qualche decennio più tardi Craxi, Andreotti e il Pentapartito spedirono laggiù per aiutare i nostri fratelli (dittatori) africani. 
E chissà se la giornalista Ilaria Alpi conosceva tutte queste trame, se le sospettava, se qualche coetaneo di Vito Sansone le aveva parlato di questi forti legami economici con il nostro Paese, quando si recò in Somalia alla ricerca di scoop sui rifiuti tossici, esponendosi così a una morte prematura ed atroce. Al lettore l’ardua sentenza. 
Pubblichiamo l’intera nota informativa di Vito Sansone, aggiungendo qualche informazione sulla sua vita. Oltre a essere un caporedattore de Il Paese, fu un prestigioso inviato dell’Unità in Africa e nell’est europeo, in Polonia in particolare. Non sappiamo se ciò che leggerete dalle sue stesse parole sia stato mai pubblicato nei suoi articoli o nei suoi libri. Ci sembrava comunque giusto lasciare al suo stile impeccabile il racconto dei fasti, e dei nefasti, della Somalia italiana. Certamente non ci è piaciuto leggere le sue ricevute di pagamento, con tanto di firma autografa, nel dossier delle spie cecoslovacche. Non è un giornalismo realizzato e impacchettato per qualche ministero, estero in questo caso ma nemmeno italiano, quello che speravamo di intraprendere. E invece eccoci qui. Vito Sansone non fu il primo e non sarà certo l’ultimo. 


La Somalia e il mandato fiduciario italiano

Nel 1948 a Mogadiscio si verificavano luttuosi avvenimenti. Nel corso di scontri tra indigeni ed europei, che si trasformavano ben presto in una vera e propria caccia all’uomo, rimanevano uccisi 43 italiani e un numero imprecisato di somali. La carneficina si svolgeva sotto gli occhi di una commissione di studio inviata in Somalia dalle Nazioni Unite. 
Più tardi si seppe che i sanguinosi incidenti erano stati provocati dai capitalisti italiani locali, capeggiati da un certo Calzia, uomo di fiducia della Società Anonima Duca degli Abruzzi, in combutta, si dice, con gli inglesi. Scopo della provocazione, le cui gravissime conseguenze non erano state previste dagli organizzatori, era di dimostrare all’opinione pubblica mondiale che una volta rimasti soli, i somali avrebbero massacrato la popolazione europea. I responsabili degli eccidi non furono mai trovati, per cui si ritiene che almeno una parte di essi provenisse dalla Somalia britannica.
In questo modo si affermava la “necessità” della “presenza italiana” in Somalia, per la quale si batteva, a quel tempo, sul piano internazionale, il governo De Gasperi, sollecitato in tal senso dai maggiori interessati: da una parte il Banco di Roma e altri istituti legati al Vaticano, i quali hanno forti partecipazioni azionarie sia nella Società Duca degli Abruzzi sia nel monopolio delle banane, e dall’altra la burocrazia fascista del Ministero dell’Africa Italiana, la quale non era disposta a perdere le ricche prebende provenienti dalla loro attività coloniale del capitale locale e i corrispondenti interessi costituiti nella metropoli. 
Poco più di un anno dopo i fatti di Mogadiscio, il 21 novembre 1949, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, raccomandava che la Somalia ex italiana (in base all’art. 23 del trattato di pace firmato a Parigi nel 1947, l’Italia aveva rinunciato a tutti i suoi possedimenti africani) fosse costituita in Stato indipendente e sovrano, e che la sua indipendenza divenisse effettiva dopo un periodo di 10 anni di regime internazionale di tutela, e ciò allo scopo di sviluppare le condizioni economiche e sociali del territorio. Autorità incaricata dell’amministrazione fiduciaria veniva scelta l’Italia, assistita da un consiglio consultivo permanente formato dai rappresentanti dell’Egitto, della Colombia e delle Filippine. 
L’Assemblea generale dell’ONU accoglieva in questo modo, parzialmente, le insistenti richieste italiane tendenti ad ottenere un mandato senza limiti di tempo, nonostante la maggioranza dei somali fosse contraria a un ritorno italiano e chiedesse una amministrazione collettiva delle quattro grandi potenze: Stati Uniti, Unione Sovietica, Inghilterra e Francia. Senonché il timore che l’URSS mettesse piede in Africa, e il desiderio del governo di Washington di favorire le aspirazioni dei partiti conservatori italiani, impegnati nella lotta contro le forze socialiste, convinsero gli Occidentali ad appoggiare il punto di vista del governo De Gasperi, respingendo analoghe richieste riguardanti la Libia e l’Eritrea, ragioni che per gli americani e per gli inglesi presentavano un maggiore interesse strategico ed economico.
Il 2 dicembre 1950, l’Assemblea dell’ONU approvava un accordo di tutela con l’Italia, il quale raccomandava al governo di Roma: 1) di incoraggiare lo sviluppo di libere istituzioni politiche, favorendo in ogni modo l’evoluzione delle popolazioni del territorio verso l’indipendenza; 2) di procedere alla valorizzazione delle risorse naturali, stimolando lo sviluppo dell’agricoltura, del commercio, dell’industria; 3) di promuovere il progresso sociale della popolazione, proteggendo i diritti e le libertà fondamentali di tutti i suoi elementi, senza discriminazioni di razza o di religione. 
L’accettazione del mandato sollevò non poche critiche in Italia, persino in seno allo stesso governo. L’Italia, infatti, si assumeva una eredità disastrosa lasciata dal fascismo, senza esserne preparata. Sicché l’impegno si risolveva praticamente in pesanti sacrifici finanziari per la realizzazione di un programma assai arduo che prevedeva, in sostanza, il trapasso lento e faticoso della società somala, organizzata ancora su base tribale, da una economia pastorale a una economia mercantile. 
I motivi ufficiali con cui il governo De Gasperi giustificò la richiesta prima e l’accettazione dopo, di un onere così gravoso, furono allora i seguenti: salvaguardare gli interessi e gli investimenti italiani nel territorio: acquistarsi meriti particolari per facilitare l’ingresso dell’Italia all’ONU; inaugurare in Africa una politica nuova, di conquista dei mercati. A distanza di quasi un decennio, le ragioni reali della “presenza italiana” in Somalia appaiono molto meno nobili e, in definitiva, assai banali. Oltre ai motivi già ricordati, infatti (pressione del Banco di Roma e di altri istituti finanziari legati al Vaticano, combinate con quelle della burocrazia fascista, allineatasi pienamente con la Democrazia Cristiana), alla base dell’operazione fiduciaria si può individuare un calcolo che doveva rivelarsi erroneo, quando già era troppo tardi per correre ai ripari. Sia le autorità italiane, sia i capitalisti locali erano convinti che l’Italia dovesse rimanere in Somalia sine die, e che il termine di 10 anni assegnato dall’ONU per l’esecuzione del mandato dovesse perdere, col passare degli anni ogni valore prescrittivo. Le cose andarono per un altro verso e furono gli stessi americani a dire al governo italiano che non era il caso di farsi illusioni. 
Quali furono le conseguenze di questo calcolo sbagliato? Enormi e fortemente negative. Sino al 1954, difatti, l’Amministrazione Fiduciaria Italiana per la Somalia (AFIS) non fece praticamente nulla, né sul piano economico, né su quello sociale-politico. L’AFIS era stata affidata a un gruppo di cosiddetti “specialisti”, vecchi uomini dell’apparato coloniale fascista, i quali si rifacevano a metodi e a sistemi superati dalla evoluzione che, nei dieci anni che questi funzionari erano stati lontani dall’Africa, aveva subito la coscienza politica e sociale delle popolazioni somale, per effetto e in armonia con il risveglio dei popoli afro asiatici. 
Questo tipo di conduzione colonialistica, senza programmi e senza precisi obbiettivi, provocò un inutile spreco delle assai limitate somme stanziate dal governo italiano, che furono in parte spese male per incapacità amministrativa, e in parte intascate da funzionari disonesti e dai fiduciari del capitale italiano locale, che si dedicavano ad una attiva opera di corruzione degli attivisti politici indigeni, i quali avrebbero dovuto formare l’ossatura politico-amministrativa del futuro Stato indipendente. 
Una tale situazione, assolutamente negativa, si prolungò fino al 1954. E ciò nonostante i partiti somali avessero più volte segnalato al Consiglio di Tutela dell’ONU gli arbìtri, gli arresti illegali, le persecuzioni e le discriminazioni cui si erano abbandonate le autorità italiane, e malgrado si fosse avuta una energica protesta del rappresentante colombiano in seno al Consiglio consultivo permanente insediatosi a Mogadiscio. Più volte, è vero, la Segreteria generale dell’ONU intervenne più o meno apertamente per richiamare l’AFIS all’ordine, ma il risultato più apprezzabile in questa schermaglia sussurrata, fu che il governo di Roma riuscì a fare allontanare il “pericoloso” colombiano dal suo posto!
La maggiore opposizione in loco, le autorità colonialiste italiane la trovarono in quegli anni, nella formazione politica chiamata Lega dei Giovani Somali, che si era costituita tra il 1943 e il 1950, con un ardito programma di rinnovamento volto innanzitutto a trasformare la struttura sociale, basata primitivamente sulle tribù, in quella di una nazione moderna e indipendente. Questo partito era riuscito ad affermarsi anche per via di un equivoco di cui rimase vittima la diplomazia britannica. L’Inghilterra, che occupava in quel tempo la Somalia italiana, aveva creduto di scorgere negli indirizzi politici della Lega, una accentuata nota anti-italiana; reputò quindi opportuno coltivare e incoraggiare questa tendenza, nella speranza che essa portasse col tempo i “giovani somali” a chiedere il mandato britannico, realizzando così l’idea lungamente accarezzata da Londra, di un Somaliland (Somalia italiana e Somalia inglese uniti insieme), incorporato nel Commonwealth. Il disegno inglese, tuttavia, andò deluso dai “giovani somali”, i quali dimostrarono ben presto di perseguire obbiettivi molto più rispondenti agli interessi nazionali del loro popolo, cioè a dire sottrarsi a ogni forma di soggezione o di tutela indeterminata e puntare decisamente verso l’indipendenza del [parola incomprensibile]. [Q]uesto preciso impegno di lotta li portò, come abbiamo già visto, a chiedere un’amministrazione controllata dalle quattro grandi potenze. L’errore degli inglesi consistette nel fatto che essi non compresero che la politica della Lega era “anti-italiana” in quanto anti-colonialista.
Quando agli inizi del 1950 l’Italia subentrò agli occupanti britannici, le autorità nominate dal governo di Roma si posero lo obbiettivo di scompaginare le file della Lega dei Giovani Somali, e pensarono di poter raggiungere questo scopo alleandosi e corrompendo i partiti conservatori locali, il più importante dei quali è il “Lighil e Mirifle” (HDM), che per essere l’espressione di gruppi agricoli e di pastori arretrati, si oppone alla Lega, la quale rappresenta invece i ceti mercantili in sviluppo.
Durante il quinquennio 1950-54, la Lega si trovò dunque a combattere la battaglia dell’indipendenza contro un fronte unico formato dall’AFIS e dai partiti conservatori. La lotta, tuttavia, anche a causa dei limiti imposti dal regime fiduciario, che impediva alle forze politiche locali l’esplicazione di una politica estera corrispondente agli interessi nazionali somali, fu indirizzata tutta verso il conseguimento della libertà politica, trascurando la libertà economica, in mancanza della quale la prima non acquista un senso compiuto. L’AFIS, infatti, nonostante le ripetute raccomandazioni del Consiglio di Tutela dell’ONU, frustrava ogni tentativo di trasformare la struttura economica del Paese, mentre i somali si trovavano nella obbiettiva impossibilità di rivolgersi al credito finanziario di nazioni amiche.
Le autorità italiane e il capitale locale credevano di avere avuta partita vinta, quando il 28 marzo 1954 giunse inaspettata la vittoria della Lega nelle elezioni amministrative. Fu quella una grave sconfitta subita dall’AFIS, che mise in luce i metodi superati e sostanzialmente inefficienti applicati dai funzionari italiani. Palazzo Chigi corse ai ripari inviando sul posto un vecchio ed abile funzionario, il dottor Piero Franca, che sotto il regime fascista aveva fatto in Etiopia gran parte della sua carriera e che, rientrato in Italia aveva assimilato le nuove tecniche paternalistiche del neo-capitalismo e del neo-imperialismo, rivolte a perpetuare la dominazione occidentale nei grandi imperi coloniali. Franca Procedette a una rapida correzione della linea politica dell’AFIS, consistente in un avvicinamento del gruppo dirigente della Lega. L’operazione ebbe l’appoggio incondizionato del vescovo di Mogadiscio monsignor Filippini. 
Il compito [p]ostosi dal Franca fu essenzialmente quello di spostare l’asse politico della Lega dalla piattaforma neutralistica uscita dalla Conferenza di Bandung, a quella atlantica, cercando di convincere i dirigenti meno solidi dei “giovani somali” che se volevano davvero trasformare le strutture economiche del loro Paese, sarebbe stato necessario ottenere gli aiuti occidentali, e i capitalisti locali della convenienza di adeguarsi al movimento di idee nuove determinatosi in Asia e in Africa nel dopoguerra, che costituiva un comodo paravento dietro il quale avrebbero potuto esercitare in un clima tranquillo il loro potere economico, che è quello effettivo.
La nuova tattica adottata dall’AFIS provocò non pochi cedimenti tra i dirigenti della Lega, una involuzione di questa ultima verso forme di compromesso filo-occidentali e un considerevole spostamento a destra di tutta la politica del territorio. A determinare questa situazione contribuì non poco l’insufficiente preparazione e la mancanza di esperienza politica del quadro dirigente della Lega, portato ad accettare le soluzioni più facili senza preoccuparsi eccessivamente della prospettiva.
Bisogna prendere anche in considerazione il fatto che il dottor Franca aveva saputo alimentare le illusioni nazionalistiche dei somali, affiancando abilmente la sua opera di avvicinamento e di corruzione del gruppo dirigente della Lega, con la realizzazione graduale del passaggio dei poteri dalle autorità fiduciarie a quelle somale: amministrazione della giustizia, polizia, affari economici locali, riscossione dei diritti doganali ecc. Egli, in altri termini, seppe sfruttare l’inevitabile stato d’animo euforico che suscitava nei somali l’acquisizione della libertà politica.
Resta comunque il fatto che, nonostante le abili manipolazioni del Franca, le prospettive per i somali di acquistare accanto a quella politica anche la libertà economica, rappresenta a tutt’oggi un miraggio, e che questo compito non potrà mai essere portato a termine dalla Italia, la quale è venuta così meno ai precisi impegni assunti di fronte alla collettività internazionale.
Sono molti coloro che adesso in Italia, in seno alla stessa maggioranza, ritengono che l’accettazione del mandato sia stato un errore e che comunque, una volta accettatolo si doveva compiere uno sforzo adeguato agli impegni presi. Svanita già da lungo tempo ogni speranza di rimanere in Somalia a tempo indefinito, il governo di Roma si è preoccupato delle ripercussioni negative che il fallimento del mandato fiduciario potrebbe avere sul prestigio italiano, per cui si è affrettato ad assicurare l’ONU che l’Italia continuerà a prestare assistenza anche oltre il 1960. D’altra parte, non più di quattro mesi fa, durante un lungo soggiorno a Roma, il ministro dell’economia somala si è incontrato con il presidente dell’ENI, ingegner Enrico Mattei, al quale ha esposto i pericoli cui si troverebbe esposta la Somalia nel caso in cui il governo italiano dovesse tradurre in pratica il suo progetto di abbandonare al suo destino il capitale italiano locale, abolendo il regime protezionistico di cui beneficiano attualmente i prodotti del monopolio bananiero, degli zuccherifici della Società Duca degli Abruzzi e di altre imprese italiane che operano in Somalia. Il ministro somalo ha fatto presente a Mattei che un passo del genere significherebbe la fine poiché il governo di Mogadiscio ricava quasi tutte le sue entrate dai dazi doganali imposti a tali prodotti. Senza dire che gli zuccherifici rappresentano l’unica attrezzatura industriale esistente nel territorio. “Se abolite le barriere protezionistiche - ha concluso il ministro somalo - in Somalia si sfascia tutto e il giorno dopo i comunisti avranno il sopravvento.”


Il 29 febbraio 1956 si svolsero in Somalia le elezioni politiche, che furono ancora una volta vinte dalla Lega dei Giovani Somali, la quale conquistò la maggioranza assoluta e formò di conseguenza il governo presieduto ancora oggi da Abdullahi [incomprensibile]. La prima assemblea somala risultò così composta: 43 deputati alla Lega; 13 al “HDM”, partito di opposizione capeggiato da Abdul Kadr Muhammad Adam; 3 al partito democratico somalo; 1 all’Unione Marrehan, partitino filo-occidentale. Insieme ai 60 deputati somali siedono all’Assemblea 4 deputati italiani, 4 arabi, 2 indo-pakistani. In seguito al passaggio dei poteri al governo somalo sono rimasti di pertinenza dell’AFIS soltanto i due dipartimenti degli Affari Esteri e della Difesa, che verranno trasferiti in mani somale dopo le elezioni politiche fissate per il prossimo marzo.
L’avvenire democratico della Somalia si presenta, però, piuttosto oscuro. La Lega è praticamente scissa in due tronconi, di cui quello governativo persegue una politica filo-occidentale staccandosi sempre più dalle posizioni neutralistiche fissate nei principi di Bandung, mentre quello che si trova adesso all’opposizione, segue la linea nasseriana ed è soggetto perciò ad ogni sorta di persecuzione. La corruzione esercitata dal capitale italiano locale, d’altra parte, si è caratterizzata nel trasferimento di titoli azionari e di cointeressenze di alcuni dirigenti governativi, dilagando anche nelle file dei sindacati, per cui gli scioperi e le lotte salariali si sono rarefatti appiattendo vieppiù la vita politica e frenando lo sviluppo democratico del Paese. 
Sintetizzando le osservazioni fatte sin qui, si può affermare che a poco più di un anno dalla scadenza del mandato fiduciario, il bilancio dell’AFIS rispetto ai compiti a lei assegnati dalle Nazioni Unite è quasi del tutto fallimentare, non essendo stati realizzati i compiti economici preminenti e fondamentali rispetto a quelli di altra natura. Uno sguardo rapidissimo ai bilanci dell’AFIS, del resto, ci conferma nella convinzione che il governo italiano, durante tutti questi anni, non si è mai posto seriamente i compiti assegnatigli dall’ONU, preoccupandosi, in compenso, di conquistare la Somalia all’atlantismo e danneggiando quindi il movimento di liberazione dei popoli arabi ed africani, dei quali Fanfani si dichiara amico.
Le cifre dimostrano innanzitutto che non è vero che l’Italia abbia regalato miliardi ai somali, poiché quasi tutte le somme che costituiscono il contributo italiano (circa 70 miliardi di lire sinora) sono state spese per pagare i funzionari dell’AFIS e per sostenere gli oneri derivanti dal funzionamento dei servizi nel territorio. Ciò risulta tra l’altro da una relazione segreta e molto critica preparata da un funzionario della Corte dei Conti, la quale osserva che il bilancio del territorio, secondo le previsioni per l’anno 1956 presentava la seguente struttura: entrate effettive del territorio somali (un somalo circa 87 lire) 35.403.500; entità straordinarie a copertura del disavanzo, somali 32.516.732-totale: somali 67.720.232; spese effettive ordinarie di parte civile: somali 59.939.175; spese effettive ordinarie di parte militare (corpo di polizia somala) somali: 9.220.000; spese effettive straordinarie: somali 1.761.057 (investimenti e lavori pubblici)-totale: somali 67.920.232.
La relazione poneva in rilievo come le spese per il personale a carico del bilancio ammontassero a somali 37.933.376, vale a dire all’55,35% del totale delle spese effettive. Fatti questi rilievi, la relazione segreta affermava testualmente: “Tale incidenza - eccessiva per qualsiasi pubblica amministrazione - risulta tanto più negativa per un paese come la Somalia in via di formazione e di sviluppo, e costituisce un grave ostacolo per il suo rapido sviluppo”.
Il bilancio statale somalo, tuttavia, è aumentato negli ultimi due anni di circa dieci milioni di somali all’anno, sia perché è stato mantenuto il regime protezionistico per i principali prodotti (a spese del consumatore italiano), sia perché è stata abolita la esenzione dal pagamento delle tasse di cui beneficiavano i capitalisti italiani locali. Esiste inoltre un piano di sviluppo della Somalia per il periodo 1954-60 per somali 124.281.142 comprensivi anche di alcuni interventi americani, dai quali, però, bisogna sottrarre 28 milioni circa di somali costituiti da investimenti privati e destinati ad operare nell’ambito del capitale italiano locale, per cui rimangono 96.081.142 di somali, pari a poco più di otto miliardi di lire in sette anni, per trasformare l’economia somala. Si tratta, non c’è bisogno di rilevarlo, di una somma assolutamente insufficiente.
Qualche risultato, invece, ha conseguito l’AFIS nel campo della pubblica istruzione, portando la popolazione scolastica da poche centinaia di unità al 2,3% dell’intera popolazione. 


Sulla Somalia convergono differenti interessi politici e strategici, dando luogo a un complicato intreccio di relazioni politiche sia sul piano interno, sia sul piano internazionale. Preminenti sono, nell’ordine, gli interessi americani, inglesi, etiopici, italiani ed egiziani.
L’Etiopia vorrebbe fagocitare la Somalia e finanzia a questo scopo il partito liberale somalo diretto da Haggi Burraco, e alcuni dirigenti dell’”HDM”. Gli Stati Uniti, che sono legati al governo di Addis Abeba politicamente e militarmente attraverso le basi americane in Eritrea, in un primo tempo appoggiavano la tesi etiopica, ma in seguito ripiegarono sulle posizioni del capitalismo fondiario italiano in Somalia, che postulano adesso un territorio indipendente in cui gli italiani assolverebbero alle funzioni di gendarme. Il ripiegamento di Washington si spiega con il fatto che gli americani hanno trovato ricchi giacimenti di petrolio in Migiurtinia, la regione somala più arretrata, che controllano al solo scopo di impedire la estrazione del prezioso liquido. Essi si urtano tuttavia con l’ENI, altro grande concessionario, il quale ha invece intenzione di avviare un’intensa produzione dei propri pozzi.
Il dipartimento di Stato americano, secondo voci attendibili, ha trovato il suo uomo di punta nel primo ministro somalo Abdullahi Issa. Per questo motivo, Mattei è stato costretto a cercare l’appoggio della RAU, con esito che appare molto incerto. Uomo della RAU, ma non di Mattei, è a Mogadiscio Haggi Mohammad Husein che alcuni mesi fa è stato fatto imprigionare dal primo ministro ed è stato rilasciato dopo alcune settimane di detenzione.
La tesi britannica si rifà sempre all’idea di una Somalia unita al Somaliland incorporato nel Commonwaelth. Questa idea, combattuta dai dirigenti governativi somali, si fa strada ora tra alcuni gruppi di opposizione della Lega, e non è da escludersi che venga sostenuta come rischio calcolato e scelta del male minore, di fronte alla invadenza americana. Tra l’altro la lotta tra Londra e Washington per il controllo delle basi strategiche del petrolio, è ai ferri corti, e l’Inghilterra compirà ogni sforzo per raggiungere un risultato a lei favorevole.
I francesi per timore che possa sorgere un dominion britannico ai loro confini sono favorevoli alla tesi etiopica. La RAU, infine, è per l’indipendenza della Somalia.


Gli uffici italiani dell’AFIS sono attualmente in via di smobilitazione, avendo adempiuto, nel modo che si è visto, al loro compito. Due uomini, tuttavia, sembrano destinati, su richiesta degli stessi leaders somali interessati, a rimanere sul posto dopo il 1960 o comunque ad avere una parte di numi protettori. Essi sono il dottor Gasparri, uomo di indubbie capacità, che tiene i legami con l’ONU, e il dottor Franca, che ultimamente è stato combattuto dal Gasparri, entrato nel giuoco di Mattei (mentre l’altro è un uomo dell’on. Dominedè). Franca è stato segretario dell’AFIS fino a qualche anno fa; ha chiesto quindi di diventare amministratore generale con il rango di ambasciatore, ma il “terremoto” di Palazzo Chigi, al quale non è stato estraneo Mattei, ha reso vane queste sue aspirazioni. Egli si è dimesso dalla carica di segretario, ma rimane nel giuoco, in attesa di tempi più propizi.


Un problema che rimarrà probabilmente in sospeso ancora per molto tempo, è quello della definizione dei confini somalo-etiopici a valle dell’altipiano etiopico. Il governo di Addis Abeba, attuando una tattica dilazionatrice, si rifiuta di trattare con il governo di Roma, ciò evidentemente perché conta di tenere in mano una carta assai pericolosa costituita dal fatto che, essendo le sorgenti dei grandi fiumi somali compresi nel proprio territorio, è in grado di inquinare o addirittura di inquinarne le acque, tra le pochissime di cui dispone la Somalia.


Per finire crediamo sia utile allegare un elenco delle persone che rappresentano il capitale italiano locale e di cui le autorità italiane si sono servite per gli scopi già illustrati.
- Commendatore Boero, ex gerarca fascista, interessato alle saline locali, alle compagnie di trasporti e alla LAI.
- Avvocato Quaglia, ex agente dell’OVRA, spia nell’affare Zaniboni, esiliato in Somalia da Mussolini perché pretendeva troppo per i suoi servigi. E’ legale delle concessionarie delle piantagioni di banane, capo della deputazione italiana in seno all’Asse [parola incomprensibile] somala e uno dei principali consiglieri dell’AFIS.
- Commendatore Buffo, latifondista bananiero.
- Monsignor Filippini, vescovo di Mogadiscio. Il vescovado è proprietario della più grossa conceria della Somalia, nonché di una industria artigiana del legno, nella quale viene sfruttato il lavoro di centinaia di trovatelli meticci.


martedì 17 marzo 2020

Aldo Moro conosceva un piano segreto di difesa nazionale


Cosa poteva sapere l’ex presidente del consiglio Aldo Moro, personalità di spicco dei democristiani, dei progetti militari della Nato? Era stato informato delle manovre tedesche in Sardegna? E della progettata invasione dell’ex Germania Est? 
I magistrati, i giornalisti, quando Andreotti nel 1990 raccontò che 622 uomini scelti erano pronti a fronteggiare un attacco del Patto di Varsavia, si domandarono se fossero segreti connessi al sequestro dei brigatisti. Il dossier 327 può contenere una risposta. Fanfani e Moro erano stati messi al corrente di qualcosa di molto simile a quanto rivelato da Andreotti. Nella seconda metà del 1960 furono informati di un progetto segretissimo di difesa civile in caso di attacco.
Se ne occupa l’importante documento 53, intitolato proprio “difesa civile”, datato 18 ottobre 1960. La spia dei cecoslovacchi affermava che il Ministero della Difesa possedeva quattro progetti di difesa del territorio pronti all’uso, ossia - scriveva - contrassegnati con la dicitura: “pronta adozione”, senza bisogno di modifiche.
Bisogna a questo punto ricordare al lettore poco esperto di storia italiana che nell’ottobre del 1960 si era da poco insediato il governo Fanfani III, che prendeva il posto del discusso governo di centro-destra, con Tambroni alla presidenza appoggiato dai missini, durato da marzo a luglio di quello stesso anno. Il documento 53 spiega, appunto, che proprio i sospetti generati dall’ascesa al potere della destra avevano convinto il Ministero della Difesa a rivedere quei progetti di difesa civile, ritenendo plausibile che il governo Tambroni avesse messo le mani su quel piano senza segnalarlo “a tutti i ministri e tanto meno alla segreteria della Democrazia Cristiana”.
Perché affermiamo che quel piano era segreto? Perché veniva specificato che al termine del riesame dei quattro punti era stato redatto un documento, “rimesso personalmente a Fanfani e a Moro”, ma - specificava lo scrivente - “di questo rapporto non esiste copia al M.D. (Ministero della Difesa ndr) o almeno se esiste non è facilmente reperibile.” Per saperne qualcosa era necessaria un’indagine, in quanto al ‘riesame’, che si era tenuto nell’agosto del 1960 su richiesta del Consiglio dei Ministri, avevano partecipato solo il Ministro e il capo della polizia. Il Ministro, ovviamente, era il solito Giulio Andreotti. 
Il primo dei quattro progetti di difesa - scriveva la spia dell’Stb - ricalcava una bozza di legge che era stata proposta al Parlamento dal democristiano Scelba nel 1951, ma era stata bocciata. Prevedeva la “mobilitazione e militarizzazione dei dipendenti civili dei ministeri militari e del Genio Civile.” Secondo il protocollo, in 48 ore questo personale avrebbe dovuto essere mobilitato. 
Siamo andati a cercare negli archivi questa proposta di legge di Scelba, trovando un articolo sul quotidiano La Stampa. I cronisti registravano quel giorno, il 22 giugno 1951, la forte resistenza dell’onorevole comunista Pajetta, il quale bollava la legge come “fascista”. Eppure in quel progetto vi erano alcuni punti che sarebbero stati utili persino oggi, in quanto il piano non riguardava soltanto “la protezione della popolazione in caso di guerra”, ma anche, al punto uno, “la riorganizzazione dei servizi di protezione della popolazione civile in caso di calamità in tempo di pace.” Cioè calamità naturali, come potrebbe essere il Coronavirus di questi giorni, nei quali a nostro avviso è mancata del tutto una normativa di riferimento. Lo Stato ha cercato di inseguire il diffondersi del contagio attraverso decreti presidenziali del tutto atipici.
Ma lasciamo perdere l’attualità e torniamo al 1960. Al punto due, il piano segreto del Ministero della Difesa parlava di norme per la mobilitazione degli agenti e dei graduati di pubblica sicurezza in congedo e in pensione. Però molto più interessante è il punto tre, che fa pensare a qualcosa che si avvicini alla P2, se non proprio alla Gladio andreottiana. Il terzo punto del piano di difesa civile prevedeva la mobilitazione e militarizzazione di un quinto dei dipendenti dei ministeri civili. Ciò vuol dire che poteva esistere una lista ridotta di persone “scelte”, appunto un quinto del totale, che avrebbe potuto garantire il normale funzionamento dello Stato in caso di attacco militare. Questa selezione veniva gestita secondo un protocollo redatto dalla polizia di stato e dai carabinieri. Infine vi era un quarto punto che prevedeva la mobilitazione del personale dell’IRI e dell’ENI, anche qui con norme prestabilite.

La vera storia di Gladio in Sardegna


L’Italia e l’ex Germania Ovest si accordarono, nel 1960, per la cessione ai tedeschi di una parte della Sardegna. Scopo dell’operazione era addestrare i militari di Bonn per realizzare rapidamente un’invasione dell’ex Germania Est. 
A sottoscrivere questi accordi fu il ministro della difesa italiano, Giulio Andreotti. E’ la notizia che appare più significativa tra le numerose relazioni spionistiche in italiano di Doro, la spia dell’Stb cecoslovacco che altri non era che un fidato collaboratore dello stesso Andreotti, Giulio Caroli. 
Il piano di invasione dell’ex Germania Est si chiamava in codice “Deco II”. Si trattava di un’operazione lampo, simile a quella poi condotta a termine pochi anni dopo da Israele contro l’Egitto e la Siria. Deco II sarebbe dovuta durare tre giorni, una sorta di “piccola guerra” - viene definita -. Avrebbe dovuto mettere l’Europa e l’Onu di fronte a un fatto compiuto, onde evitare polemiche politiche e diplomatiche.
I sovietici grazie a Doro erano a questo punto a conoscenza del progetto. Solo un anno più tardi, nel 1961, a Berlino Est veniva eretto il famigerato muro, che tanti tedeschi cercarono di valicare venendo brutalmente uccisi. Si apriva con questo dossier 327, che nel nostro computer abbiamo denominato “Gladio”, una guerra segreta mai raccontata.
Intanto “la preminenza militare della Germania di Bonn nella organizzazione atlantica - sottolineava Doro nella sua relazione del 12 dicembre 1960 - diventava un fatto acquisito”. Germania Ovest e Gran Bretagna avevano appena unificato la propria aviazione. Il Ministro Andreotti, per non restare fuori da questi intrighi all’interno della Nato, incontrò il suo collega ministro della difesa della Germania Ovest, detta anche Rft, Strauss, e il capo dello Stato Maggiore, Kammhuber. Il vertice, su cui Andreotti non volle rilasciare dichiarazioni per la stampa, si tenne a Bonn e a Bad Godesberg. Il primo obiettivo dei colloqui fu l’integrazione “dei servizi logistici delle forze armate tedesche e italiane”. Doro afferma nel suo resoconto che era già operante un primo accordo sperimentale per l’addestramento di truppe della Rft in Sardegna, agli ordini del comando Nato. Per il futuro, Andreotti auspicava un’integrazione logistica ancora più completa. 
Su queste esercitazioni tedesche in Sardegna era già trapelato qualcosa nelle relazioni precedenti di Doro. Nel documento 27, molto sbiadito che abbiamo reso leggibile ritoccando al computer il contrasto, veniva specificato che un battaglione tedesco avrebbe iniziato un addestramento congiunto con reparti italiani sulle rampe missilistiche Ajax-Hercules della Sardegna meridionale. Questo sarebbe accaduto a partire dal novembre del 1960. Alla fine dell’esperimento, le rampe sarebbero state occupate stabilmente dai tedeschi per l’addestramento dei suoi granatieri di Ingolstadt. Al comando del reparto vi era il generale Roehmer, “che durante la guerra - si legge a malapena nel documento - col grado di colonnello comandò un reggimento della Wermacht in Sardegna”.
Dunque, l’Italia di Andreotti strinse accordi con i gerarchi del Terzo Reich? Nella Rft vi era una linea di continuità con la politica espansionistica di Hitler? E’ una domanda che si erano posti anche i nostri servizi segreti dell’epoca. La prima parte delle relazioni di Doro, di questa seconda cartella del fascicolo 327, è occupata infatti da un’indagine che fu condotta su due uomini dell’ex Germania Ovest, Bauer e Fleischmann, che erano stati inviati nell’est europeo per spiare l’operato degli stessi agenti della Nato. Si scoprì grazie al lavoro diplomatico del colonnello Mauri che gli agenti al comando dell’americano Donovan, diretti dal colonnello Bruckendorff, erano tutti tedeschi di Bonn, per una precisa volontà del generale Nordstad, convinto che l’unico servizio segreto efficiente fosse quello di Bonn. In realtà, le informazioni che pervenivano in Italia lasciavano intuire che l’ex Germania Ovest stesse già aggirando gli accordi post-bellici, costruendosi in segreto una “Budeswehr nera” pronta all’occorrenza all’azione, accanto all’esercito regolarmente dichiarato agli organi diplomatici. Tra questi reparti segreti operavano sia quello della Sardegna, sia un “centro di reclutamento” in Alto Adige, autonomo rispetto alle bande “irredentistiche filo-austriache”. Ma questa Germania “nera” proveniva dalle file della Wermacht di Adolf Hitler? In parte si può dire di sì, perché il direttore dei servizi di informazione in Italia era l’ex gerarca di Hitler, il colonnello Gehlen, un militare dal passato denso di ombre. Ma è altrettanto vero - stando alle informazioni ricavate da Doro - che Bauer e Fleischmann, ossia le spie delle spie di Donovan e Bruckendorff, provenivano dal reparto dell’ammiraglio Canaris, che fu un eroe positivo, un martire della liberazione dal nazi-fascismo. In questo caso Doro tace sulla triste sorte dell’ammiraglio Canaris, ma ci viene in soccorso Wikipedia, la quale spiega che l’ammiraglio Wilhem Canaris lavorò a lungo segretamente per rovesciare il regime di Hitler, fino al “fallito complotto” del 20 luglio 1944, al suo imprigionamento, alle torture e all’orribile morte per strangolamento che gli fu inflitta dal Reich pochi giorni prima della fine della guerra.
Torniamo ora agli accordi tra Andreotti e i tedeschi dell’ovest. Durante quella riunione fu stabilito un programma suddiviso per punti. Il primo era il pieno appoggio al piano Nordstad per una forza atomica della Nato. Il secondo era il “riconoscimento della prevalenza militare tedesca nella Nato ed appoggio a tutte le iniziative tedesche miranti al rafforzamento di questa prevalenza”. Terzo punto: integrazione “bilaterale o multilaterale” di alcune forze armate e dei servizi militari, tenendo presente sempre l’efficienza dei tedeschi nella Nato. Ulteriori istruzioni prevedevano la creazione di unità unificate di addestramento su missili sia in Italia che in Germania; la concessione di basi permanenti in Italia per l’esercito tedesco in cambio della “concessione all’Italia di alcune licenze di fabbricazione di strumenti ottici ed elettronici di uso militare”; infine un progetto per l’integrazione delle flotte navali “leggere e sottomarine” italiana e francese. 
In generale, ciò che emerge dai documenti è la posizione tutt’altro che subordinata dell’Italia nello scacchiere militare occidentale. La nostra non era affatto, come da più parti si vorrebbe far credere, una nazione sconfitta nella seconda guerra mondiale e occupata militarmente dalla Nato, bensì parte attiva e fondamentale di un ambizioso progetto militare americano e tedesco.

sabato 14 marzo 2020

Carabinieri fondatori di Gladio? Documento choc dei comunisti


L’accusa arriva da una spia cecoslovacca. Il colonnello dei carabinieri Mauri, il suo assistente, il tenente Lonero, e il capitano di corvetta Luciani tra aprile e maggio del 1960 parteciparono come rappresentanti italiani ai lavori di due commissioni della Nato. Lo scopo era quello di creare una Centrale Unificata dei Servizi di Informazione, a guida statunitense.
Lo apprendiamo dal dossier dell’Stb catalogato come 10443_327, all’interno del quale furono archiviati svariati resoconti in italiano di una serie di riunioni, che avvennero tra Ankara e Parigi, per riorganizzare i servizi di controspionaggio della Nato. La ragione di questi vertici militari segreti, ai quali non sempre - sottolineano le relazioni - la politica era presente, pare che fosse lo scarso rendimento offerto dal controspionaggio, ossia delle spie occidentali che fino al 1960 avevano operato oltrecortina, anche in Jugoslavia e Austria. Ragion per cui da quel momento in poi sarebbe stata la CIA, l’intelligence americana operante all’estero, ad assumere il controllo dei servizi segreti europei. Nasceva in quei mesi la cosiddetta Gladio? Ma chi è l’accusatore? Ovviamente si tratta di una spia, di un italiano, soprannominato Doro, il quale in cambio di numerosi pagamenti forniva informazioni agli ex cecoslovacchi. Chi si nascondeva dietro Doro? Dovrebbe trattarsi di Giulio Caroli. Una scheda, redatta in italiano, descrive così questo “Doro”. Anni 48, democristiano dal 1950, fece carriera fino ad entrare nella segreteria del ministero. Era un uomo di Andreotti, uno dei più influenti della corrente “primavera”, “per quanto manifesti opinioni democratiche” - sottolineava la biografia della spia - “per questa ragione non è affatto in cattivi rapporti rapporti con Fanfani, come accade invece ad altri andreottiani della segreteria del m.” Nel ministero si occupava dei rapporti con l’estero e degli stranieri. “E’ persona seria e degna di fede”, concludeva la scheda.
Al contrario, noi che scriviamo questo articolo nel 2020 non possiamo certamente considerare “degna di fede” una spia prezzolata che vendeva segreti militari. Basterebbe una sbirciata fugace tra i numerosi dossier che ci sono stati inviati dall’archivio di Praga per comprendere che questi segreti, che pure siamo qui a sviscerare, furono venduti ai sovietici da giornalisti e politici che avrebbero potuto, se tali segreti mettevano a rischio i loro concittadini, pubblicare ogni notizia, ogni indizio, sui giornali nazionali a loro disposizione. Ma non lo fecero. Leggiamo, all’opposto, ricevute di pagamento, con l’intestazione del consolato cecoslovacco, scritte a mano da queste spie, in certi casi con l’imbarazzante causale: “pagamenti per lavoro giornalistico”.
Dunque, i lettori dei giornali italiani non seppero della nascita di questo servizio segreto unificato a guida statunitense, che avrebbe provocato un polverone politico non indifferente, secondo noi. Sì, perché l’Italia in questa storia ebbe un ruolo di primaria importanza.
Nel documento 59, ad esempio, Doro scrisse: “Lo S.M. (cioè lo Stato Maggiore ndr) italiano ha già sino da marzo predisposto i piani per questa unificazione dei servizi di informazione della Nato, unificazione che si è rivelata indispensabile nelle ultime riunioni del Consiglio della Nato e del Comitato degli Stati Maggiori. Questi piani - prosegue la relazione - prevedono l’invio in America, a scopo di addestramento, di ufficiali ed agenti del servizio di informazioni militare dell’esercito ed il parallelo provvisorio inquadramento di ufficiali americani nel Servizio di informazioni italiano, allo scopo di studiare la utilizzazione dei quadri nel futuro servizio unificato. In particolare sono state affidate ad ufficiali americani la sorveglianze ed il controllo delle reti di agenti italiani in attività nella Jugoslavia ed in Austria.” Era una prova abbastanza chiara dell’intrusione degli americani nei servizi segreti italiani, che tante volte la stampa denunciò negli anni successivi, specialmente dopo i tentativi di golpe De Lorenzo e Borghese.
Un altro nome che compare nel dossier è quello del generale Nordstad, che in una fase iniziale fu il presidente della commissione incaricata di formare la cosiddetta “Centrale unificata” dei servizi segreti Nato. Dopo le prime riunioni fu sostituito dal maggiore britannico Sanders. Ebbene, più volte il generale Nordstad, quando l’esistenza di una struttura parallela denominata Gladio-Stay Behind fu rivelata da Andreotti, venne associato a manovre militari occulte.
Intanto il colonnello Mauri continuava ad informare il Ministero della Difesa sulle linee guida di questa nuova Centrale Unificata dei Servizi di Informazione. In primo luogo nei settori sovietici in cui i servizi di controspionaggio occidentale erano rimasti inattivi, specialmente i greci e i turchi, gli agenti sarebbero stati radicalmente sostituiti da quelli americani. Mentre lo sarebbero stati parzialmente i servizi italiani, belgi, francesi e olandesi. Ben 64 agenti segreti italiani sarebbero stati soppiantati da agenti della CIA. Non vi sarebbe stata alcuna sostituzione infine tra le file dei servizi britannici e canadesi.
Un’altra notizia che emergeva dalle relazioni del colonnello dei carabinieri Mauri - sempre stando alle rivelazioni di Doro - era che gli americani non spiavano soltanto i sovietici, ma pure gli europei! “Questi gruppi di agenti - specificava Doro - hanno operato non alle dipendenze della CIA, ma alle dipendenze dirette dello stesso Donovan. In altre parole questi agenti avevano il compito non di compiere azioni di spionaggio contro l’URSS e le democrazie popolari ma di spiare le spie inglesi, francesi, belghe, italiane e le stesse spie americane dipendenti dalla CIA.”
Tutto questo contorto sistema spionistico, un labirinto la cui via d’uscita era solo nelle mani degli statunitensi, fu esposto dal Donovan ai rappresentanti della Nato il 2 settembre, a Parigi, presso la sede del Deuxieme Bureau, tra vibranti proteste inglesi e italiane; del Mauri stesso.
In questa Centrale unificata della Nato un posto di rilievo era riservato ai tedeschi dell’ovest. Infatti Donovan aveva assegnato la carica di vicedirettore della Centrale unificata, nonché di supervisore delle varie riunioni, al colonnello Bruckendorff. I delegati delle nazioni occidentali ebbero reazioni contrastanti, tra stupore, rassegnazione al predominio tedesco, e passiva accettazione nel caso degli inglesi.
Non c’era accordo tra le varie nazioni - sempre se ci fidiamo di questo rapporto di Doro - che non erano riuscite a stabilire con esattezza quale arsenale di armi e basi missilistiche fosse esattamente a disposizione del Patto di Varsavia. Un fallimento che stava portando alla nascita di Gladio? Probabilmente sì. Doro informò Praga che il 4 settembre il colonnello Mauri aveva dato notizia del cambiamento al vertice della Nato. Gli americani del colonnello Donovan dal primo settembre controllavano in Europa quattro settori: coordinamento delle attività degli agenti delle democrazia popolari; reclutamento dei nuovi agenti sul posto; interpretazione delle informazioni; riorganizzazione dei servizi oltre i confini dell’URSS.
Inoltre era nato l’ufficio ‘D’ diretto dal generale americano Hubert G. H., che avrebbe ripartito il lavoro dei servizi segreti della Nato. Come non pensare al famigerato ufficio D del SID italiano, che fu al centro degli scandali degli anni ‘70? 
Da quel momento in poi, da quel settembre 1960, gli agenti segreti occidentali non avrebbero più lavorato suddivisi in varie zone del territorio, bensì concentrandosi su una singola materia. In questo modo - era l’annotazione di Doro - gli americani speravano di superare in efficienza i servizi sovietici. I quali tuttavia, come avrete certamente intuito, ne erano informati prima ancora che la CIA iniziasse a mettersi all’opera.

mercoledì 11 marzo 2020

Gli abusi di potere del Conte


Draconiana, drastica, senza precedenti. All’estero l’hanno definita così la decisione presa lunedì 9 marzo 2020 dal presidente Conte: mettere un’intera nazione, l’Italia, con oltre 60 milioni di abitanti, agli ‘arresti domiciliari’. L’accusa? Essere vulnerabile all’influenza cinese, il temuto Coronavirus. 
Ha fatto bene il leader della coalizione di centro-sinistra a interrompere le libertà costituzionali? O si è tornati agli Stati Assoluti di inizio Ottocento, quando i sovrani potevano decidere vita e morte dei propri sudditi? Secondo alcuni giuristi che ci hanno scritto, non sono le misure draconiane il vero dramma nazionale, quanto il mezzo che il presidente ha adoperato per raggiungere uno scopo condivisibile: la tutela della salute pubblica. 
Il presidente Giuseppe Conte, nonostante sia un professore di diritto, si è mosso da Azzeccagarbugli in un groviglio di leggi e leggine, che ha rivoltato sempre e soltanto in suo favore. Perché questa libertà di manovra? Come mai, si chiedono questi giuristi, tutti tacciono quando potrebbero tranquillamente fare resistenza in Parlamento contro le libertà neanche troppo nascoste del presidente?
L’articolo 77 della Costituzione è molto chiaro, anche se spesso da oltre dieci anni viene disatteso. Stabilisce che: “Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.”
Perché, dunque, due Camere regolarmente al lavoro non si sono riunite per stabilire cosa fosse più giusto fare nell’interesse dei propri elettori, lasciando il palcoscenico televisivo al solito ‘principe’ di casa Italia, Giuseppe Conte? E’ veramente incomprensibile e bene fanno, a nostro giudizio, gli esperti di diritto a lamentarsene. 
Ecco cosa dice il nostro lettore: “Io contesto il mezzo. Il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri non è il Presidente statunitense e lo strumento d'urgenza ad hoc si chiama "decreto legge" e non "decreto del presidente del consiglio dei ministri". Con questo strumento infatti usualmente si dettano mere norme amministrative ed organizzative della Pubblica Amministrazione e della Presidenza del Consiglio, al contrario qui si tratta di bloccare il Paese ed i suoi movimenti con tanto di sanzioni penali!”
Equilibrismi legislativi, insomma, quelli di Conte, favoriti dall’improvvisa cecità e sordità dei nostri politici, chissà perché così affascinati dalla dittatura cinese, al punto da volerne imitare a tutti i costi le misure brutali e repressive. Con conseguenze devastanti: le denunce, provocate dal mancato rispetto di questi ‘decreti’, stravolgono il senso originario delle leggi penali. Come ad esempio è il caso dell’articolo 438 del codice penale, che si sono visti contestare alcuni cittadini usciti dalle zone rosse. Dice: “Chiunque cagiona un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l'ergastolo. Se dal fatto deriva la morte di più persone, si applica la pena [di morte].” Si tratta probabilmente di un retaggio del vecchio e mussoliniano Codice Rocco, mai del tutto aggiornato. Grazie al decreto del presidente, in questi giorni basta uscire da una zona rossa per motivi di svago per trovarsi magari accusati di terrorismo! E badate bene, cari lettori, che oggi è capitato per un virus, uno dei tanti che sono sfuggiti alla dittatura cinese negli ultimi 40 anni, domani potrebbe ripetersi per altre emergenze, che in Italia, come sapete, sono all’ordine del giorno dell’agenda di governo.