mercoledì 30 maggio 2018

Tutte le bufale sulla morte di un presidente


L’ex presidente del consiglio Aldo Moro fu ucciso il 9 maggio del 1978 nella Renault 4 rossa in cui fu trovato, e giaceva in quella posizione rannicchiata, che abbiamo visto in tutte le foto dei giornali e dei libri scolastici, quando ricevette i proiettili mortali dai suoi brutali assassini. I colpi furono 11, che lo uccisero in un tempo massimo di quindici minuti.
Su questi elementi non c’è nessun giallo, non c’è nulla che sia stato nascosto. Al contrario, autorevolissime testate, non so per quale scopo, ipotizzano a 40 anni di distanza dagli eventi, con molti protagonisti ormai deceduti, nuove possibili piste per un giallo che andrebbe analizzato semmai sotto altri profili.
Ad esempio suggeriamo di approfondire, con tanti documenti liberi ormai dal segreto, il piano politico internazionale. Statunitensi e russi nei documenti di intelligence si accusavano a vicenda del terrorismo delle Brigate Rosse, e tutti ritenevano di avere ragione. Probabilmente entrambi avevano colto qualcosa che i nostri mass media nel corso degli anni hanno perso. Ed è per questo che il presente blog, a carattere storico-politico, interviene nella vicenda.
La nostra ricostruzione, giunta a questo punto, si potrebbe collocare non distante da quanto veniva pubblicato nel 1979 nello Speciale della Rai sul cosiddetto “Caso Moro”, a un anno di distanza dai tragici fatti.
Le notizie sulla posizione di Moro nella Renault 4 erano il risultato di una perizia medico legale sul corpo del presidente della Democrazia Cristiana, rapito in via Fani a Roma il 16 marzo del 1978 e ritrovato morto appunto il 9 maggio in via Caetani, sempre nella Capitale. La perizia era stata chiesta dal sostituto procuratore generale presso la Procura Generale della Corte di Appello di Roma, il dottor Guido Guasco, al professor Silvio Merli. Quest’ultimo fu aiutato dai medici Cesare Gerin e Franco Marracino, che già avevamo conosciuto verificando le notizie della Stasi sul presunto tumore di Moro.
Questa perizia è disponibile a tutti su internet, non solo all’archivio Flamigni che abbiamo visto in televisione sulla Rai. Parliamo di un documento proveniente dall’archivio del Senato che si può leggere tra i numerosi allegati della Commissione sulla strage di via Fani del 1989.
Interessanti e abbastanza comprensibili anche ai meno abituati al linguaggio medico sono le conclusioni a cui giunsero i periti, i quali esposero i risultati dell’esame autoptico rispondendo alle domande che gli inquirenti, Guasco e Gallucci, avevano loro posti.
L’ispezione cadaverica avvenne alle ore 16:45 del 9 maggio 1978. Era ufficiale: Moro era morto in quella posizione rannicchiata in cui fu trovato dopo la famosa telefonata dei brigatisti. I periti lo affermarono con certezza a causa di un proiettile deformato che venne trovato nel pianale del portabagagli nel versante sinistro della Renault 4. Questo proiettile era l’unico che non era stato rinvenuto “sul cadavere” e corrispondeva a un foro nel corpo del povero presidente ucciso. La direzione di questo proiettile fu la stessa degli altri dieci, quindi “tutti i proiettili - scrivevano i dottori - hanno attinto la vittima nello stesso vano portabagagli e nella stessa posizione quantomeno del tronco”. Il presidente, in altre parole, non si sarebbe mai mosso mentre gli venivano sparati gli 11 colpi, e la posizione era la stessa del suo rinvenimento, quella vista in tutte le foto dei giornali.
Ma dov’erano gli assassini quando spararono? “Appare attendibile - aggiunsero - l’ipotesi che il e/o i feritori si trovassero all’interno dell’autovettura a livello del suo sedile posteriore”. Il motivo di questa ricostruzione sta nella traiettoria dei proiettili, che tuttavia non poteva escludere altre versioni dei fatti, ad esempio che gli assassini al momento di premere il grilletto dell’arma si trovassero fuori dalla macchina, davanti al portellone posteriore aperto.
Ma quando morì il presidente? a che ora di quel tragico giorno? La risposta dei periti è molto chiara: la morte si collocava tra le ore 9 e le 10 del mattino del 9 maggio 1978. I colpi furono sparati in rapida successione e, di questi, 8 rimasero nel corpo del presidente e 3 fuoriuscirono, dei quali uno si conficcò nella lamiera dell’auto, due furono trovati tra gli indumenti del defunto presidente al momento dell’ispezione cadaverica. Aldo Moro quella mattina non aveva mangiato niente, o, almeno, non aveva mangiato nelle due ore precedenti all’omicidio. E’ un altro elemento che viene scritto in questa relazione originale del 1978. La morte come detto non fu istantanea ma sopravvenne in un lasso di 15 minuti al massimo.
Il giorno 29 maggio 1978 alle ore 11 fu redatto il verbale in cui i medici legali, oltre a leggere la loro relazione, aggiungevano altri dettagli sui resti ritrovati addosso al cadavere del presidente democristiano. All’Istituto di medicina legale dell’Università di Roma erano presenti esattamente questi dottori: Silvio Merli, Cesare Gerin, Franco Marracino, Claudio De Zorzi, Antonio Ugolini, Gianni Lombardi, Roberto Boragine e Valerio Giacomini. Poi c’erano i tecnici di parte civile che lasciamo da parte perché non ci interessano, in questo momento.
Tra i reperti sono interessanti soprattutto i granelli di sabbia, di cui molto si è parlato. Residui di una gita al mare dei brigatisti con l’ostaggio, o solo vecchie tracce del lavoro del proprietario della Renault 4, che trasportava bitume per la sua azienda? Tra l’altro, apro una piccola parentesi, un mio collega del Resto del Carlino di Ancona diceva di sapere molte cose su questa automobile. E questo particolare è stato reso pubblico, sia pure senza specificare i nomi, da Giorgio Guidelli nel suo libro “Porto d’armi”.
Torniamo alla sabbia: era sui pantaloni e sul lenzuolo che fu usato per trasferire il cadavere all’obitorio. Vi erano inoltre detriti sui parafanghi della Renault 4. Un elemento sottovalutato ma che ci interessa per stabilire se Aldo Moro fu tenuto prigioniero anche a via Maffi 131, nello scantinato della villa della Banda della Magliana, sono le tracce “vegetali” di cui parla la relazione. Una foglia era stata trovata nel pianale anteriore della Renault, altri elementi “vegetali”, forse dei cardi, erano nell’abitacolo posteriore, e poi ancora nei risvolti dei pantaloni del presidente e nella tasca sinistra del suo cappotto.
Questi ultimi dettagli ci colpiscono. Se Aldo Moro fosse stato sempre nell’intercapedine del covo brigatista di via Montalcini certamente non avrebbe potuto raccogliere foglie o fiori. Mentre se fosse stato in via Maffi 131 avrebbe potuto beneficiare di qualche ora d’aria nel giardino in cui era scavato lo scantinato. Sarebbe stato interessante capire se i residui vegetali trovati nell’abitacolo della Renault 4 erano gli stessi rinvenuti sui pantaloni e nella tasca del presidente. La relazione però si ferma qui. Vengono menzionate ancora le spese che vennero fatturate allo Stato per gli esami radiografici, istologici, ematologici e per le analisi autoptiche nonché di laboratorio: 367mila 740 lire.  

sabato 26 maggio 2018

Forlani nella P2? Le accuse gravi del 1977

 
C’era anche Arnaldo Forlani tra gli iscritti della loggia massonica P2. Lo affermò il grande accusatore, Francesco Siniscalchi, durante una puntata di “Proibito” che andò in onda il 18 luglio 1977 sulla Rai, con la conduzione del compianto Enzo Biagi. C’erano certamente altri personaggi della Democrazia Cristiana nella massoneria deviata. Uomini che, come Forlani, avevano rivestito un ruolo di primo piano nel governo e nelle istituzioni pubbliche, quali Mario Tanassi e Gaetano Stammati.
Ciò vuol dire che non sappiamo ancora tutto sulla loggia massonica segreta Propaganda 2, fondata da Licio Gelli, contraria alla nostra costituzione repubblicana perché questa vieta la segretezza delle associazioni, soprattutto se di stampo militare. E durante la puntata di Biagi di nomi di militari ne vennero fatti parecchi.
Eppure fu lo stesso presidente del consiglio Arnaldo Forlani, il 21 maggio del 1981, a rendere pubblica, con un certo ritardo a dire il vero, la lista di 962 iscritti alla P2, per poi dimettersi poco dopo in seguito allo scandalo. Si seppe che alcuni politici del governo vi erano coinvolti: Manca del PSI e Foschi della DC.
Forlani non figurava nell’elenco, e nemmeno Tanassi, mentre Gaetano Stammati, altro nome noto all’epoca, che secondo Siniscalchi aveva ammesso pubblicamente la sua presenza nella loggia di Gelli, compariva tra le 962 tessere piduiste.
Cosa c’era di così segreto in questa massoneria deviata da sfuggire a inchieste giudiziarie e giornalistiche? Nella puntata di “Proibito” durante il dibattito fu detto che i membri della Loggia Propaganda 2 non si conoscevano vicendevolmente. E questo fa pensare che vi fosse una compartimentazione simile a quella delle Brigate Rosse. Il centro del potere era probabilmente nelle mani di qualcuno considerato intoccabile. Gli americani della CIA?
Un “centro occulto” da cui partivano ordini micidiali esisteva sicuramente nel terrorismo di sinistra. Lo affermò, il 12 marzo 1981, Sergio Martinelli, un operaio di Bergamo coinvolto nell’omicidio Torreggiani, il gioielliere che era stato assassinato dal gruppo di Cesare Battisti. Martinelli veniva definito dal giornalista svizzero di Gazzetta Ticinese, Gianfranco de Turris, un “pentito minore”. Confessò agli inquirenti che questo “centro occulto” preparò “rapine, omicidi, e attentati, mandando al massacro migliaia di giovani e un’intera generazione per fini oscuri”.  
Ma potevano gli americani, come affermato dai servizi segreti sovietici, manovrare anche dei falsi terroristi di sinistra? Un collegamento in realtà c’è e sembra molto concreto. Il giornale di estrema sinistra “Lotta Continua” veniva stampato da una tipografia di proprietà della CIA. Suonerebbe come un controsenso. Da “Lotta Continua” partirono le filippiche contro le inchieste della polizia sulla bomba di Piazza Fontana, contro la destra, contro la Democrazia Cristiana, l’imperialismo americano. I tre leader della testata, Sofri, Bompressi e Pietrostefani, furono condannati per l’omicidio del commissario Calabresi.
Eppure quel giornale senza i soldi della CIA non sarebbe mai esistito. Lo accertò il 31 luglio del 1988 un’inchiesta del noto giornalista Marco Nozza del Giorno. I fatti erano incontestabili: un certo Robert Hugh Cunningham insieme al figlio figurava titolare della società che gestiva la tipografia di “Lotta Continua” a Roma. Ma questi signori erano anche fedeli esecutori degli ordini del presidente Ronald Reagan, il quale nominò Robert Hugh Cunningham responsabile dell’informazione del partito repubblicano in Europa. Talmente alla luce del sole questo legame tra sinistra estrema e Stati Uniti che l’ex direttore di “Lotta Continua”, Boato riusciva appena ad assicurare a Marco Nozza che i suoi redattori, sebbene fossero al soldo degli americani, erano liberi di scrivere quello che volevano.

Ho provato personalmente a fare delle ricerche nell'archivio della Cia. Dei riscontri ci sono in questa terribile storia, che sta facendo il giro del web. Diciamo riscontri indiretti. Esiste un Hugh Cunningham che viene citato più volte, anche se solo per cognome, in lettere e documenti segreti e pare che si occupasse di addestramento nel settore dell'intelligence. Questo dal 1969 al 1981, più o meno. Era sicuramente un dirigente molto rispettato. Anche Wikileaks ha conservato nel motore di ricerca un cablogramma, ma non è stato divulgato pubblicamente. Compare nell'archivio Cia inoltre un Samuel Meek, che secondo Marco Nozza sarebbe il nome di uno dei primi soci di Cunningham. C'è un ulteriore documento di Wikileaks datato 1975, proveniente da Genova, che non è leggibile online. Riguarda il supporto straniero a "Lotta Continua". Dagli altri si evince che gli ambasciatori statunitensi in Italia seguivano costantemente l'attività della sinistra extraparlamentare e leggevano gli articoli dei loro giornali. Ciò significa che, se c'era un progetto segreto di intelligence su "Lotta Continua", su Toni Negri e "Autonomia Operaia", non tutti a Washington ne erano informati.
Marco Nozza citò tra i presunti finanziatori iniziali di "Lotta Continua" anche Michele Sindona, il finanziere mafioso italo-americano morto avvelenato nel 1986. Bisognerebbe allora prendere in esame il finto rapimento che lo stesso Sindona organizzò nel 1979. Fece arrivare alla polizia delle lettere in cui un fantomatico gruppo di sinistra chiamato "Giustizia proletaria" annunciava di averlo condannato a morte. Si scoprì invece che era una truffa per evitare l'arresto. Ciò da un lato dimostra che Sindona aveva in mente quest'idea di costruire delle minacce firmate da una falsa sinistra, dall'altro che non fu difficile in quello specifico caso per la magistratura svelare l'inganno.
Tutto questo, comunque, mi induce a ritenere che la nostra politica sia stata caratterizzata fin dai primi anni Settanta da uomini che avevano la caratteristica di fornire all’esterno un’immagine falsa della realtà. Una moda che evidentemente non è ancora finita.