venerdì 26 giugno 2020

E se gli alieni di San Benedetto fossero dei missili?





Il 13 novembre del 1978 su La Stampa usciva un pezzo sconcertante a firma di Bruno Ghibaudi.
All’opinione pubblica nazionale veniva proposta una storia assurda: si passava di punto in bianco da un pezzo sulle Brigate Rosse o su Vallanzasca ai misteri insondabili delle Marche, di San Benedetto, per essere precisi. Ghibaudi titolava: “Scoperto in Adriatico un triangolo maledetto?” E nel sottotitolo aggiungeva: “Sono scomparsi due marinai, accadono fenomeni strani”. D’improvviso le Marche diventavano terra d’approdo degli alieni.
“Colonne d'acqua che si levano altissime e all'improvviso, a volte guizzando a poche decine di metri dai pescherecci; fasci di luce che sprizzano di colpo come se fossero venuti dal nulla per scomparire dopo qualche attimo nel buio della notte; interferenze elettromagnetiche potenti sui radar delle imbarcazioni, captate anche dai radar a terra delle capitanerie di porto di San Benedetto e Ancona; strane sagome scure che emergono dal mare e dopo aver sostato per qualche attimo a pelo d'acqua in posizione statica acquistano rapidamente velocità per scomparire in lontananza; piccoli globi di luce rossa o bianca, silenziosi e mobilissimi, che si spostano a scatti per poi immergersi e allontanarsi in tutte le direzioni; ondate gigantesche che si sollevano qua e là, come se il mare si aprisse per lasciar passare oggetti misteriosi in entrata o in uscita”.
Ma poi il giornalista della Stampa ne aggiungeva altri di fenomeni strani che sarebbero accaduti nella zona di San Benedetto. Ovvero barche che avrebbero trovato attrezzature per la pesca che non erano state smarrite da nessuno o forse da barche svanite nel nulla, e poi due morti, i cadaveri di Gianfranco e Vittorio de Fulgentiis, pescatori dilettanti trovati cadavere il 13 ottobre del 1978, ripescati a Martinsicuro. La barca capovolta risultava in condizioni perfette, senza traccia di incidenti. I marinai affermavano infatti che il mare era calmissimo. I fatti rimasero senza spiegazione e impaurirono i pescatori delle Marche con ricordi che si trascinano fino ad oggi.
Dopo il rinvenimento della relazione Matricardi sui missili del monte Conero, questo giallo può avere finalmente una soluzione molto attendibile e documentabile. In quell’autunno del 1978 furono lanciate svariate ipotesi. Una ci interessa particolarmente. Si parlò di “manovre militari” o “eruzioni sottomarine”. Ebbene, se è vero, come ci ha spiegato il generale Schipsi, che per predisporre 50 rampe di missili Jupiter servono 50 chilometri, l’unica zona che poteva servire allo scopo non poteva essere che il mare. Nel 1961 il rapporto della NATO chiamato “Goedhart” indicava “la marca di confine con la Jugoslavia” come la più a rischio nel caso l’URSS avesse deciso di invadere l’Occidente, "da settentrione e da oriente". Nell’Adriatico centro-settentrionale il fondale marino raggiunge a stento la profondità di 50-70 metri. Quindi, quale luogo migliore poteva esserci per costruire delle piattaforme sottomarine collegate tramite tunnel o tramite navi con il comando del monte Conero?
Certo, stiamo sconfinando nella fantascienza, nelle storie alla James Bond. Eppure la spiegazione più semplice è questa. Il comandante Matricardi è preciso, troppo preciso per lanciare fake news. Nel dossier descrive dettagliatamente gli esperimenti americani nello spazio con i razzi Atlas e Redstone: il cosiddetto progetto Mercury, attraverso cui a cavallo del 1960 un uomo veniva sparato nello spazio all’interno di un missile trasformato in una sofisticatissima e affidabilissima navicella spaziale. E’ preciso, inoltre, nell’identificare altre basi di Jupiter: quella del Lago Maggiore, altrettanto misteriosa, e quella di Potenza Picena, che il generale Schipsi ci ha confermato essere stato uno dei più importanti centri radar delle Marche.
E allora andiamo a rileggere bene le descrizioni delle strane apparizioni di San Benedetto. Il 3 novembre del 1978, La Stampa offriva questa descrizione: “Secondo molte testimonianze, in diverse occasioni colonne d’acqua alte circa trenta metri e larghe non meno di cinque si sono improvvisamente sprigionate dai flutti, formando un fungo pauroso prima di ricadere a ventaglio. Tutto questo, solitamente in condizioni di mare calmo e cielo sereno.”
Il 29 novembre 1978, sempre sul quotidiano La Stampa di Torino, usciva un pezzo dal titolo assai sinistro: “Il ‘diavolo’ nell’Adriatico”. Il 9 novembre di quello stesso anno, dalla motovedetta CP 2018 comandata dal sottufficiale Nello Di Valentino partiva questo telegramma verso la capitaneria di porto. Erano esattamente le ore 20:45. “Vediamo sulla nostra dritta, a circa 800 metri di prora, un razzo rosso chiaro che si alza dal mare e sale verticalmente.” “Arrivato ad un’altezza di circa 200 metri, il razzo è improvvisamente scomparso.” L’articolo ci informava quel giorno che la motovedetta compì una perlustrazione della zona, senza trovare nulla, nessun natante da cui quel razzo potesse essere partito. Il sottufficiale Di Valentino aggiunse che il razzo non cadde ‘ad ombrello’ come quelli usati per le segnalazioni, ma che scomparve come se si fosse dissolto. Ci si chiese se potessero navigare sommergibili, ma il comandante Di Valentino lo escluse senza esitazioni: con una profondità di 23 metri ciò era praticamente impossibile. Nella stessa zona, quel giorno del 1978, un altro natante, un motopeschereccio, registrò fenomeni insoliti. L’acqua cominciò a ribollire e la nave prese a navigare a tutta velocità senza bisogno dei motori, poi l’acqua si calmò e la nave si fermò.
Cos’era accaduto? Oggi con il documento Matricardi possiamo spingerci dove nessuno avrebbe mai pensato. Siamo andati a vedere su Youtube un filmato di un lancio di un missile da una piattaforma sottomarina. Esistono molti video dei test che i russi hanno effettuato recentemente, ma il Giornale sostiene in un articolo sulla Corea del Nord che questa tecnologia era conosciuta dai sovietici fin dal 1960. Ebbene, cosa potevamo vedere, in questi filmati, se non oggetti luminosi, con una scia rosso chiara, alzarsi verticalmente dal mare, innescando colonne d’acqua e scomparendo rapidamente nel cielo? Con le conoscenze che abbiamo è tutto molto più semplice, ma chi andrà a spiegarlo ai parenti di quei poveri marinai che probabilmente i loro congiunti sono stati vittime della guerra fredda?

giovedì 25 giugno 2020

"Le 50 rampe sul Conero? Una bugia dei cecoslovacchi"


Pronto, generale Domenico Schipsi? Lei negli anni Ottanta era comandante del Quinto corpo d’armata dell’Esercito Italiano, ci dica la verità: è mai esistito un patto militare col maresciallo Tito?
“Eh ma queste sono notizie top secret”
Ed è per questo che ci interessano.
“Sì, ricordo vagamente questo patto con la Jugoslavia. Era il 1982. Era cambiato il sistema d’allarme. Avevamo 72 ore di tempo per predisporre le unità. Questo voleva dire poter mandare i soldati in licenza molto più lontano.”
E il patto con la Jugoslavia cosa c’entra?
“Il patto con gli jugoslavi ci consentiva di prepararci meglio a un eventuale scontro con l’Unione Sovietica. Bisogna pensare che avevamo l’unità sovietica a 300 chilometri da Gorizia. Troppo poco. Il patto con la Jugoslavia consisteva in uno scambio di unità a Lubiana. Ci consentiva da quel momento in poi di impegnare i sovietici in un combattimento in territorio jugoslavo, rallentandone l’avanzata verso l’Italia.”
Questo patto fu progettato prima o dopo la morte di Tito?
“Sicuramente dopo, ma venne preparato anche prima, negli anni ‘70.”
Cosa ricorda di quella Jugoslavia? E’ vero che si stava avvicinando agli Stati Uniti?
“Certo, la Jugoslavia aveva avuto aiuti dagli Stati Uniti e si stava avvicinando progressivamente al mondo occidentale. Un professore di mio figlio una volta disse che noi italiani stavamo combattendo contro la Jugoslavia, cosa assolutamente falsa.”
Ma non le avevano mai parlato, all’epoca, delle Foibe, di quegli italiani uccisi dai partigiani di Tito e buttati nelle fosse comuni?
“Noi prendevamo soltanto ordini. Non potevamo discutere nulla. Contrariamente a quanto ho sentito dire, l’Esercito non ha mai tentato di fare il colpo di Stato.”
Cosa ricorda del Maresciallo Tito?
“Lo ricordo come un buon capo militare partigiano, ma un po’ furbacchiotto, con l’imprimatur della falce e martello. Uno che si diceva comunista ma viveva in una grande villa su un’isola al largo di Pola.”
Cosa sapeva Tito dei segreti militari delle nostre basi, tipo Aviano?
“Tutto. Ad Aviano venivano conservate armi speciali senza possibilità di lancio.”
E sul Monte Conero?
“Me l’hanno detto che lei parla del Conero. Lì c’era la possibilità di mettere l'intero comando con i radar nelle caverne.”
Un documento dell’archivio di Praga parla però anche di 50 rampe per missili Jupiter...
“Jupiter? 50 rampe? E' inverosimile, i cecoslovacchi hanno messo in giro falsità. Avere 50 rampe significa disporre di 50 chilometri di spazio. E poi gli Jupiter non si mossero mai dagli Stati Uniti. Ne furono testati solo alcuni in Turchia. La conosce la storia dei missili di Cuba, no? Ci fu una trattativa con i sovietici.”
Se vuole le mostro il documento.
“Me lo mandi pure, ma i cecoslovacchi erano famosi per altre cose, per le bombe. Vendevano materiale per fabbricare esplosivi, che poi dovevano far credere a un attentato delle Brigate Rosse o dei neri, mentre erano i sovietici i veri responsabili.”

giovedì 18 giugno 2020

1986, Italia e Belgrado si accordano per quale guerra?


Tra i tanti scheletri nell’armadio della prima repubblica c’è anche un accordo militare assai nebuloso tra Italia ed ex Jugoslavia. L’annuncio fu dato giovedì 6 marzo 1986 sul quotidiano La Stampa: il Ministro della Difesa, Giovanni Spadolini, stava per condurre in porto il primo accordo militare con Belgrado, tecnico-militare, per la precisione. Ad accoglierlo c’erano il ministro jugoslavo, Branko Mamula, e una folta schiera di militari titini.
Gli incontri avvennero nella capitale dell’ex Jugoslavia. “E questo - sottolineava l’ex presidente del consiglio, rappresentante del Partito Repubblicano - anche se noi siamo nella NATO e loro un paese non allineato.”
Dunque una follia consapevole, quella compiuta dall’ex Ministro della Difesa, perché altre spiegazioni non riusciamo a trovarle. I termini dell’accordo - scriveva La Stampa - consistevano in una “cooperazione per la ricerca scientifica collegata agli armamenti, la possibile coproduzione di attrezzature, lo scambio di informazioni e conoscenze sulle tecnologie emergenti e la costituzione di un comitato per la cooperazione economico-militare.”
Beh, è chiaro che il nostro pensiero non può che correre al monte Conero, che abbiamo lasciato ostaggio di missili Jupiter degli americani e di pericolose armi atomiche. Spadolini, che proprio in quel periodo aveva seccamente smentito una possibile presenza di armi nucleari sopra il bel mare di Portonovo, intendeva condividere anche quel tipo di tecnologia con la sua controparte? E’ lecito azzardarlo, in quanto nella conferenza stampa di quel giorno, che Spadolini condusse accanto al busto dell’ormai defunto maresciallo Tito, si parlò proprio di missili NATO. Era ancora viva la preoccupazione per il terrorismo, e, secondo il nostro ministro, quale migliore strategia potevamo escogitare se non stringere un accordo con coloro che pochi mesi prima avevano concesso asilo politico al fuggiasco omicida dell’Achille Lauro, Abu Abbas? 
Spadolini affermò che i missili statunitensi era giusto installarli sul nostro paese (si riferiva ovviamente all’unica base di cui all’epoca l’opinione pubblica discuteva, Comiso, ndr), ma che nessuna missione era prevista nel Mediterraneo. E allora perché questo accordo, si domandavano tutti. Forse nascerà una terza posizione in mezzo a USA e URSS? Un qualcosa con quel sinistro appellativo, in realtà, già l’avevamo avuto senza bisogno degli Jugoslavi. E allora? Tra una gaffe di Spadolini sull’improprio confronto tra la guerra Iran-Irak e quella dei Balcani del 1912, e qualche altra domanda dei giornalisti, il pezzo di Alberto Rapisarda si concludeva senza altre grosse rivelazioni. 
Ma non fu l’unico. Il giorno successivo il cronista della Stampa tornava sull’argomento per rimarcare che, finalmente, dopo anni di diffidenze, Italia e Jugoslavia avrebbero condiviso informazioni, non solo nel settore tecnologico e scientifico, ma anche “dottrinale, strategico e addestrativo”. Sì, insomma, gli Jugoslavi ci tenevano a fare qualche esercitazione insieme ai nostri militari, per farla breve, e possiamo anche aggiungere che già nel 1980 la NATO aveva partecipato a un addestramento delle forze armate di Tito. Per Spadolini, la vicenda Abu Abbas era solo un brutto ricordo, si fidava ciecamente di Belgrado per ristabilire la pace nel Mediterraneo. 
E intanto verso la capitale serba venivano aumentate le nostre esportazioni di armi. Il 1986 era un periodo di grave crisi per la ex Jugoslavia, crisi politica interna e crisi economica, con un deficit di bilancio ormai incolmabile. Così, quale migliore idea se non investire nelle armi italiane? Forse costavano poco, azzardiamo. “Gli jugoslavi sono molto interessati ai nostri sistemi militari elettronici - aveva scritto Alberto Rapisarda il 5 marzo 1986 -: radar, apparati di puntamento, missili anticarro, missili ‘Otomat’.” E visto che negli scambi commerciali con Belgrado eravamo tra i primi al mondo, ecco un’occasione per far salire le aziende italiane, partecipate dell’Efim e non, da 130 miliardi di fatturato a cifre molto più alte.
Peccato che questo ciclo di articoli, non solo di Rapisarda ma anche miei, in genere si concluda quando chiude i battenti l’ufficio stampa e chi ha organizzato la conferenza, con tanto di buffet e brindisi finale, manda tutti i giornalisti a casa con la pancia piena. 
Peccato perché ne avremmo voluto sapere di più. La storia della Jugoslavia è assai complessa. Un bellissimo documentario della tv svizzera spiegava qualche anno fa che, alla morte di Tito, le cose cominciarono a prendere subito una brutta piega. Le varie etnie ed ideologie entrarono in conflitto. Milosevic e Tudjman, serbi e croati, lanciarono l’uno contro l’altro velenose campagne di stampa, strumentalizzando anche fatti storici della seconda guerra mondiale, simili a quelli che adoperano i nostri politici per litigare in televisione, dividendosi tra tifoserie della Resistenza e ultras della Repubblica di Salò. 
Sappiamo tutti come andò a finire. Nel 1982, sempre sul quotidiano La Stampa, i comunisti jugoslavi avevano già capito: “dalla morte di Tito, le attività anti-socialiste sono diventate più aggressive. Si era ‘infiltrata’ persino “l’ideologia delle Brigate Rosse nelle file della nostra gioventù e nei loro giornali” - scriveva sul Komunist, Lazar Moisov, ministro ‘designato’ degli Esteri - “anche le tendenze anarco-individualiste sono tornate alla ribalta, così come quelle cominformiste con le quali abbiamo già, una volta, regolato i conti”. E ancora se la prendeva con i giornali, colpevoli a suo dire di gettare discredito su certe persone e ambienti della dirigenza comunista nazionale. Era il 21 febbraio 1982. Quattro anni dopo, gli accordi tra Spadolini e Mamula. E altri cinque anni dopo, la guerra tra serbi e croati, la grande fuga dei profughi, e per finire, nel 1999, l’intervento della NATO con le bombe intelligenti.