domenica 19 aprile 2020

Controstoria del Coronavirus


Oltre ventimila morti in Italia per Coronavirus, in poco meno di due mesi. E tutto va bene. Ne siamo sicuri? Ho dei dubbi che i provvedimenti governativi e delle regioni abbiano avuto effetti positivi a livello profilattico. E non solo per i numeri del lotto che escono senza alcun punto di riferimento. 
Iniziamo col dire che è stato perso molto tempo prezioso. Durante le vacanze di Natale, sapendo che abbiamo molte imprese che su impulso del governo lavorano con la Cina, si poteva procedere a una pulizia dei luoghi pubblici, come le scuole, i tribunali. Era già ampiamente nota la pericolosità del Coronavirus. E invece ognuno si è fatto i cavoli suoi. Poi fu deciso di creare un’iniziale bozza di zone rosse, con un primo DPCM. Era il 23 febbraio. Io mi sono segnato la data, perché già sospettavo cose tragiche. Era una sospensione dei diritti inviolabili. Se si chiamano così un motivo ci sarà, no? Inoltre andavamo a ripetere provvedimenti degli Stati pre-unitari ormai superati dai tempi, per non dire ridicoli, quali le sospensioni delle manifestazioni a data da destinarsi. Ho la copia di un manifesto con cui lo Stato austriaco annunciava restrizioni a causa del colera a Brescia, nel 1854: sospensione dei mercati rionali a data da destinarsi. Nel retro la spiegazione dell'editrice La Scuola: "I provvedimenti comunicati con l'Avviso presente a noi sembrano ben poca cosa e presi con una certa sufficienza e con una buona dose di ottimismo, dato che oggi in casi simili verrebbero decise disposizioni ben più drastiche ed efficaci; ma essi rispondono a quanto era usuale e soprattutto si poteva effettivamente fare in condizioni igienico-sanitarie molto diverse dalle attuali (il testo è stato redatto nel 1970, ndr)." 
Cioè è come se in Italia non avessimo ancora l'acqua corrente nei bagni o prodotti adatti a disinfettare i locali. Inoltre nel XIX secolo ancora non era avvenuta la rivoluzione industriale, che modernizzò tutta l'industria, anche quella medico-farmaceutica. I primi vaccini furono scoperti alla fine dell'800. Perché con i mezzi di cui disponiamo i vaccini per il Covid-19 tardano così tanto? Tanto per dire che i paragoni con il passato sono sempre molto pericolosi. 
Il 23 febbraio 2020, dunque, avevamo solo due morti e 79 contagiati in tutta Italia. I giornali erano già tutti pronti, con due morti. Il che fa capire che qualcuno sapeva già prima, qualcuno molto in alto. E poi il criterio delle sospensioni di eventi, delle quarantene (erano le navi che secoli fa venivano trattenute 40 giorni in porto, al loro arrivo, per paura del contagio), delle zone rosse è stato sempre allargato, inasprito, ma mai modificato. Quindi è questa mossa che è stata, oltre che superficiale, deleteria. Anche perché c’è un documentario andato in onda in Svizzera, intorno a fine febbraio, che mostrava dettagliatamente cosa stava accadendo in una delle undici prime zone rosse italiane. A Codogno, i cittadini giravano liberamente nei bar e si accalcavano nelle piazze. Vuol dire che per almeno quindici giorni le norme sono state molto blande, a parte i checkpoint che isolavano i luoghi "focolaio". Ma questo ha un precedente. Il lettore ricorda il sottomarino russo Kursk? Il ragionamento di Conte, non me ne voglia il presidente, è stato più o meno quello. Sono tutti in fondo al mare? Isoliamo il problema e se la vedano loro. Perché furono chiusi gli ospedali di Codogno e non avvenne un controllo capillare della popolazione? Perché furono accusati i meridionali che rientravano da Milano quando nelle undici zone rosse gli abitanti si potevano liberamente infettare tra di loro? Confusione totale. Superficialità.
Qualunquismo. La Costituzione prevede che sia tutelato l'individuo, non la collettività, quello è un criterio delle democrazie popolari come la Cina. E non solo, anche il nazionalsocialismo aveva quella filosofia alla base del diritto: la comunità di popolo. Il cittadino doveva sacrificare le sue esigenze per raggiungere gli obiettivi collettivi dettati dallo Stato, ossia dal terzo reich di Hitler. Allora schiariamoci le idee, perché la gente probabilmente è obbediente non solo per i telegiornali filo-governativi, ma perché è convinta, come lo sono io, che siamo di fronte a un fatto unico e irripetibile. Mi conforta in questo pensiero il fatto che il lockdown esista anche in altri Stati, anche se sono sempre quelli della NATO a dimostrarsi i più intransigenti, purtroppo, e qualcosa può voler dire. In ogni caso, Conte faccia capire che tutto tornerà come prima e, come speriamo tutti, il Covid-19 sarà nient'altro che un brutto ricordo. Ma se questa può essere una nuova routine politica, su cui costruire campagne elettorali, io mi preoccuperei. Bisogna essere più esigenti verso il governo. Se io come insegnante smettessi di correggere ogni singolo compito e facessi solo correzioni collettive alla lavagna, me ne fregassi delle problematiche di questo o di quello, alla fine avrei tutti contro: genitori, alunni, colleghi insegnanti. Bisogna tornare subito a tutelare l'individuo, e non la salute. Lo Stato non è padrone della nostra vita. E' molto ingannevole il nome del Dicastero inventato dal governo Berlusconi II. L'ex Ministro della Sanità, oggi Ministro della Salute, dovrebbe garantire che ogni cittadino possa trovare negli ospedali pubblici delle risposte soddisfacenti ed esaustive. Basta: la sanità è ciò che gli compete, non la mia o la nostra salute. Le parole hanno la loro importanza, come diceva Nanni Moretti. Ognuno è libero di curarsi o non curarsi. Può autorizzare o non autorizzare un intervento dei dottori. 
Certo, il contagio. Bisogna stare attenti a non diffonderlo. Ma questo vale per tante altre malattie, non ci si può svegliare una mattina e lasciare a casa 60 milioni di persone per paura che succeda qualcosa. A livello potenziale potrebbe succedere di tutto: terremoti, bombardamenti, epidemie di AIDS, di febbre gialla, di malaria, di colera. Ma noi dal livello potenziale, dopo i DPCM, gli ormai famosi decreti personali di Conte, e soltanto dopo, siamo passati alla tragedia nazionale. Attendiamo il ripristino dei sani princìpi e a quel punto si facciano bene i conti, calcolatrice alla mano. Perché anche la teoria secondo cui radunando intere famiglie a casa si evita il contagio è tutta da dimostrare. Mi devono convincere che sia questa la verità. Di fatto il presidente ha riportato in casa persone che erano sparse in uffici magari spaziosi, ma innocui per la sua amata “collettività”. Ha messo bambini a contatto con gli anziani, che per gli svizzeri con il Covid-19 era proprio la situazione da evitare. Ha reso affollate delle abitazioni, magari piccole, perché non tutti possono permettersi superattici, in cui però, di norma, nei nostri tempi moderni non vive mai nessuno, se non la sera. E così avremmo ridotto la diffusione del virus? Non ci credo proprio. C’erano tante soluzioni intermedie che potevano essere prese, anche nella fase più avanzata dell’epidemia. E si è scelto sempre il metodo più duro, più brutale, come può essere un controllo su chi va a prendersi una boccata d’aria. Come nei film di fantascienza, perché ormai siamo diventati quello: un racconto fantastico di Ray Bradbury su una dittatura impossibile del 2050.

venerdì 17 aprile 2020

“Salvato già una volta, ieri l’hanno rapito”


“Tre corpi nelle macchine bloccate per strada, crivellate di colpi, perché la sparatoria è stata infernale. Un quarto corpo riverso sull’asfalto, le braccia aperte, come un Cristo in croce, la pistola poco lontana, sfuggitagli di mano, in un inutile tentativo di reazione; una quinta guardia morta all’ospedale”. Sono le parole con cui iniziava il reportage del settimanale Epoca del 22 marzo 1978, che ricostruiva, momento per momento, la strage di via Fani e il sequestro del presidente democristiano Aldo Moro. Nel rileggere questo pezzo, firmato da Marzio Bellacci e Raffaello Uboldi, ci ha colpito la descrizione del quarto militare ucciso, Raffaele Iozzino, l’unico che aveva cercato di uscire dall’Alfetta: per un istintivo proposito di fuga? o per tentare di rispondere al fuoco? Ce l’eravamo già chiesto, ma la novità è che, grazie all’aiuto di Luigi Spinelli, archivista della biblioteca Trivulziana di Milano, possiamo adesso sapere con esattezza cosa c’era scritto nella
prima pagina del Giorno, quella che, nelle foto spagnole del giornale La Vanguardia, risultava appoggiata sulla cintola della guardia, quando era già esanime sull’asfalto. Si tratta della prima pagina del famigerato 16 marzo 1978, che in apertura dava la notizia dell’invasione israeliana del Libano, iniziata due giorni prima, il 14 marzo 1978. Pochi la ricordano e praticamente nessuno l’ha mai collegata al caso Moro. Eppure sembra proprio che questa chiave di lettura apra dei percorsi investigativi interessanti. Il nome in codice era “Operazione Litani”. Dopo la prima guerra civile libanese, Israele aveva deciso di proteggere i suoi confini meridionali creando una fascia di sicurezza all’interno del territorio del Libano. Un po’ come recentemente ha fatto la Turchia, quando ha invaso la Siria per difendersi dai curdi. Politica internazionale. Ma il caso Moro fu anche politica internazionale. A sparare quel giorno erano probabilmente arrivati a Roma dei killer di professione. Terroristi vestiti da avieri con accento straniero, tedesco. La strage di via Fani è un qualcosa di vivo, che pulsa emozioni ogni volta che si apra un vecchio giornale, una voce che da dentro ci chiede di continuare a cercare qualcosa che, forse, ci lascerà sgomenti. Via Fani sembra un luogo senza tempo. Sono talmente tanti i colpi di scena che fuoriescono da quella tragedia che ti chiedi: ma come può essere accaduto tutto questo in un solo giorno? E’ come se non fosse mai finita quella sparatoria micidiale, “infernale”. Finita ieri, pochi minuti fa. Mino Pecorelli raccontò di testimoni, che erano alla finestra e potevano riconoscere gli assassini. Erano stati protetti con l’anonimato per scongiurare vendette dei brigatisti. Dove sono
finiti? Uno di loro aveva girato un filmino, o - specificava Pecorelli su OP - scattato una serie di foto. Istantanee non del luogo dell’attentato, ma degli attimi in cui si consumò la tragedia. Dov’è questo filmino? Possibile che nessuno l’abbia mai cercato in tutti questi anni? Adesso danno la colpa a Gladio, agli americani. Ma il pensiero dei giornalisti, in quei momenti, andò soprattutto ai “sovversivi”. Scrisse Italo Cucci sul Guerin Sportivo del 22 marzo 1978. “Ci sentiamo partecipi dello sgomento che tutti ha preso in questi giorni difficili in cui s’attenta alla libertà dell’Italia. Ai nostri lettori, ai giovani che ci seguono con l’entusiasmo, la gioia di vivere che solo lo sport oggi può dare, chiediamo solo di essere ancora e sempre diversi da quella teppaglia giovanile che si batte per il solo ideale della sovversione.” Giovani anche stranieri, dicevamo. Sulla prima pagina di quel Giorno che fu trovato addosso a Raffaele Iozzino c’era sicuramente un messaggio. Un testo che poteva essere adatto alla storia di Aldo Moro. Partendo dal titolo in alto e scendendo verso sinistra si leggerebbe, nelle righe che risaltano maggiormente da una certa distanza: “Terra bruciata per i fedayn, salvato già una volta ieri l’hanno rapito”. Oppure, includendo anche i titoli defilati a centro pagina, sulla destra: “Terra bruciata per i fedayn, Begin: ‘Non ci ritireremo dal sud-Libano’, Andreotti oggi alla camera, ancora malumori, salvato già una volta ieri l’hanno rapito.” L’uomo rapito cui realmente accennava Il Giorno era Angelo Apolloni, un costruttore di 32 anni che aveva subito un secondo
agguato. Il riferimento ad Aldo Moro, se c’era, era assai sottile, comprensibile a pochi nel 1978. Emergerà pubblicamente in interviste più recenti. Il presidente democristiano, quattro anni prima, si era salvato per miracolo dall’attentato al treno Italicus. Uomini dello Stato lo avevano fatto scendere all’ultimo istante per fargli firmare dei documenti. Dunque, come interpretare quelle righe: chi aveva salvato Moro dalla bomba era stato costretto a compiere il rapimento? Il giornale serviva per mandare un messaggio in codice ai politici che gestivano i rapporti con i palestinesi (il famoso Lodo Moro)? Per poterlo dire con certezza dovremmo sapere come si presentava la scena del delitto, in via Mario Fani, immediatamente dopo la fuga dei terroristi. Al contrario, magistrati o semplici passanti poterono camminare indisturbati vicino ai cadaveri delle vittime, alle auto crivellate di colpi, sui bossoli di cui era disseminato l’asfalto di via Fani, come testimoniano le immagini della Rai. Il corpo di Iozzino colpisce per quel giornale, ma non solo. Sembra uno di quei ribelli che i nazisti impiccavano e poi lasciavano con un cartello derisorio, sprezzante, tra le braccia. L’auto presidenziale era piena di giornali, nell’Alfetta si intravedeva una copia del democristiano Il Popolo. Il pover’uomo per un tragico scherzo del destino era rimasto - come giustamente notavano i giornalisti di Epoca - nella stessa posizione del crocifisso. Braccia aperte e gambe convergenti fino ai piedi sovrapposti. Che qualcuno abbia ricomposto la guardia deceduta in modo da offrire quel messaggio? Qualcuno tra i killer?
Ciò che possiamo dire, senza timore di essere smentiti, è che la sparatoria non si esaurì dopo che i terroristi sul lato sinistro di via Fani, e cioè provenendo dal bar Olivetti, ebbero scaricato le loro armi (si noti, armi che venivano usate dalla Repubblica di Salò al tempo dell’ultima guerra mondiale) sui poveri uomini della scorta. Vi fu, contrariamente a quanto scritto nelle sentenze dalla magistratura, un killer che fece il giro dell’auto presidenziale e sparò due colpi di grazia al maresciallo Leonardi, che sedeva di fianco al guidatore, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci. Tutto questo deve essere durato pochi attimi, prima che il gruppo armato si allontanasse con l’ostaggio. In un’altra foto del quotidiano di Barcellona, La Vanguardia, si intravede appena la testa del povero maresciallo, appoggiata allo schienale. La schiena del carabiniere è sprofondata sotto al cruscotto, infossata tra il sedile e la portiera semiaperta, crivellata di colpi. Ma sulla sinistra, in un frammento intatto del vetro, si notano in controluce due fori, perfettamente simmetrici ad altri due fori distinguibili sul giaccone di Leonardi. In un primo tempo li avevamo scambiati per una borsa aperta. Il killer fece in tempo ad avvicinarsi per assicurarsi che tutti fossero morti? C’era poco spazio tra la 2300 e la Fiat 128 di Moretti. C’era stato un tamponamento. Perciò immaginiamo che abbia dovuto compiere un giro più largo intorno alla 128. Poi si avvicinò, alzò il braccio destro, come si vede nei film sulla mafia, e sparò due colpi sul povero Leonardi. A quel punto potrebbe aver concluso il suo giro di perlustrazione finale appoggiando un paio di fogli di giornale sulla guardia rimasta
freddata sull’asfalto. Potrebbe aver sistemato il cadavere nella posizione crocifissa per completare la sua opera perfetta, frutto di un ingegno criminale di alta scuola, dileguandosi tranquillamente nel traffico di Roma. E’ molto probabile che sia questa la dinamica dell’agguato, perché coincide con la ricostruzione di Epoca, fatta con l’aiuto dei testimoni. La Fiat 2300 di Moro arriva in via Fani poco dopo le 9 del mattino, seguita dall’Alfetta bianca con la scorta. All’altezza del civico 111, la Fiat 128 “color panna” di Moretti frena e costringe la 2300 di Moro e l’Alfetta a un tamponamento a catena. Scendono subito due terroristi dalla 128 di Moretti e sparano raffiche di mitra sulla 2300 presidenziale, quindi piomba una quarta macchina, una 132 di colore scuro con altri terroristi, che si affianca all’Alfetta con la scorta. Da questa 132 scendono altri terroristi che “falciano la scorta di Moro”. In totale i testimoni parlarono di undici uomini e una donna. Dodici terroristi in tutto. Ecco, sono importanti questi passaggi del settimanale Epoca. Dice: “Pochi secondi di terribile silenzio. Poi un terrorista strappa dal sedile posteriore della vettura presidenziale l’onorevole Moro, gettandolo nella portiera già aperta della 132, che ha il motore acceso, pronto a partire. Alcuni terroristi salgono nella macchina in cui Moro è tenuto prigioniero. Altri due restano lì per alcuni istanti, poi fuggono a piedi. La 128 color panna viene abbandonata.” Cosa fecero i due terroristi che non partirono nella 132 di colore scuro con l’ostaggio a bordo? Spararono i colpi di grazia e sistemarono il cadavere di Iozzino in quella strana postura? (anche se confessiamo di non avere una grande esperienza sulle
posture cadaveriche, a parte qualche film visto in televisione). E cosa ne fu di tutti gli altri, visto che, oltre a Moro, nella 132 non potevano salire più di quattro terroristi?




giovedì 2 aprile 2020

Vendevano figurine al maresciallo Tito


Vendeva figurine al maresciallo Tito. Una delle caratteristiche della casa editrice di figurine EDIS di Torino fu quella di riuscire a inserirsi non soltanto nei mercati europei, ma anche comunisti. 
Il direttore dell’azienda, Ferruccio Vizzotto, in un’epoca di distensione dei rapporti politici, era riuscito a vendere le sue figurine allo Stato jugoslavo. L’esportazione fu molto coraggiosa ma redditizia. Le figurine EDIS furono molto apprezzate dai bambini slavi. Ancora oggi, nel 2020, è facile reperire nei mercatini online la raccolta sulle auto e le moto, uscita a Belgrado con il nome: “Oto Moto”. Era il 1971. Copertina molto simile alla versione italiana, interni praticamente identici. 
L’editore ovviamente non era la EDIS, la quale non poteva muoversi liberamente e distribuire merce sul mercato comunista. Se ne incaricò lo Stato governato da Tito attraverso il marchio: “Auto-moto savez Jugoslavije”, che voleva dire: Associazione Auto-Moto della Jugoslavia. Un altro storico album della prima EDIS fu “La vera storia del west”. Una raccolta più rara finita ugualmente oltrecortina, sotto la sigla commerciale KRAS, ossia Josip Kras: fabbrica di cioccolatini caramelle e biscotti - Zagabria.
Come funzionava questa esportazione in un sistema economico diverso dal capitalismo, dove tutta l’economia, dalle industrie, all’agricoltura, ai supermercati, era controllata e ideologizzata dal Partito-Stato? Lo abbiamo chiesto a Enzo Reda, direttore commerciale della EDIS - Torino dal 1983 in poi.
Enzo Reda, se la ricorda la raccolta “Oto moto”?
<Sì, avevamo contatti con la ex Jugoslavia - ci risponde Reda, che, come saprà chi legge il nostro blog, è anche un apprezzatissimo artista e un grande esperto di enogastronomia -. Io però nel 1979 non c'ero ancora. Kras non mi dice niente, però il Dr. Vizzotto di casini commerciali ne ha combinati tanti, almeno fino al mio arrivo.>
La Jugoslavia di Tito non era un partner commerciale ideale vista la sua politica.
<Noi avevamo un mediatore che qualche piccolo affare lo mise in piedi.>
Una curiosità gliela posso far vedere io: album Jez calciatori Jugoslavia 1974-75, fatto in collaborazione con la EDIS Torino, anche la grafica è quella dell’EDIS 1969-70.
<Con Milos Marinkovic (un nome che compare nell’ultima pagina dell’album. Ndr) ho poi lavorato anch'io negli anni ottanta.>
Ah... notizia interessante. Beh sarebbe bello capire come si potesse costruire un’attività commerciale privata con il regime di Tito.
<Avevamo delle garanzie bancarie affidabili, sono sempre stati solvibili, certo non erano cifre da capogiro...>
Cioè? Vi appoggiavate a banche private? Certo, ma i controlli? Non c’erano? Agivate in regime di concorrenza?
<Le forniture partivano soltanto quando il denaro era depositato sulle nostre banche, che avevano accordi con le loro.>
Quindi loro a Belgrado compravano i vostri prodotti. Da alcuni anni però si parla molto delle foibe. Quando lei fece l’accordo per la EDIS con la Jugoslavia sapeva di quei fatti tragici? Dell’esodo degli istriani?
<Negli anni ottanta non c'erano ancora le problematiche che vennero alla luce soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino e il collasso dell'Unione Sovietica e del blocco di Berlino. Io mi recai per lavoro in Albania nel 1992 e vidi soltanto mini bunker dappertutto, tanta gente per strada e pochi camion Dodge che gli americani avevano dato ai cinesi e questi avevano sdoganato ai poveri albanesi. Anche pagando non si trovava niente, la migrazione di massa si verificò poco dopo.>
C’è un aneddoto su Tito che ci può raccontare?
<Posso solo dirle che avevo un intermediario di Zagabria, che aveva rapporti con il governo e la Dinamo. E che trattavamo piccole quantità che venivano pagate su banche italiane con valuta nostra.>
Quel Milos Marinkovic di cui mi parlava?
<Avevo poi un altro intermediario jugoslavo a Trieste, era una persona coltissima che insegnava sanscrito. Andai a trovarlo un paio di volte ma non riuscii a combinare nulla di costruttivo. Sì, l’altro era Marinkovich.>
Ha letto il libro di Charles Levinson “Vodka-cola”, sull’impero di aziende del PCI di Berlinguer che lavoravano per i paesi dell’est? Pensa che la EDIS potesse far parte di quell’ambiente politico-economico?
<La Edis di politico non aveva proprio nulla e in quegli anni nessuno, che io sappia, ebbe l'iniziativa di informarsi sui nostri piccoli affari con la Jugoslavia: tutto era fatto alla luce del sole (noi in fondo si contava poco o nulla). In quegli anni esportammo una fornitura in un paese arabo (non ricordo quale) che ci pagò con una partita di ottimo tè che rivendemmo in Italia.>
Infatti la EDIS non figura nell’elenco di aziende di Berlinguer pubblicato dal giornale OP di Mino Pecorelli.