mercoledì 27 dicembre 2023

L’ispettore Agnesina, genio delle indagini o dei depistaggi?

 
Il 5 gennaio del 1956, alla vigilia dell’Epifania esplode un pacco bomba davanti a una finestra dell’Arcivescovado di Milano. Anche se la stanza dove avviene la deflagrazione è quella di monsignor Carlo Martani, assistente diocesano di Azione cattolica, il vero destinatario del gesto sembra subito chiaro: il futuro Papa Paolo VI, Giovan Battista Montini, che in quel 5 gennaio si apprestava a celebrare l’anniversario del suo arrivo a Milano.
E’ un attentato terroristico che fa sensazione. Montini a Milano in quel momento è molto apprezzato dalla gente, anche se non da tutti, evidentemente. La notizia riempie le prime pagine dei quotidiani. Il caso vuole che in quel momento le stanze dell’Arcivescovado, dove è esploso l’ordigno, una bomba rudimentale costruita in un barattolo di latta, siano deserte. Così la strage viene soltanto sfiorata. Si registrano danni al palazzo, ma nessuno rimane ferito.
Il luogo del fatto è poco distante da piazza Fontana, a Milano, in cui tredici anni più tardi si registrerà un altro attentato, stavolta ben più sanguinoso, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. L’attentatore, racconta il quotidiano Stampa Sera, forse è fuggito proprio attraverso piazza Fontana. Si pensa subito a un’azione a sfondo politico. Le indagini della Questura scattano immediatamente, e tempestivo è anche l’intervento del Ministero dell’Interno, il quale invia a Milano l’ispettore Vincenzo Agnesina, affinché con il suo fiuto di investigatore risolva l’enigma.
Nato a Potenza il 26 novembre del 1897, Agnesina entrò in Polizia durante il Ventennio fascista, facendo rapidamente carriera fino a diventare, nel 1943, la guardia del corpo di Benito Mussolini. Fu sempre Agnesina, nel dopoguerra, a ritrovare il cadavere del Duce che era stato trafugato a Predappio. Durante la guerra fredda fu Questore a Milano dal 1946 e poi Ispettore di Pubblica Sicurezza per conto del Ministero dell’Interno. Era considerato l’esperto dei grandi casi di cronaca nera. E come tale fu ricordato dal quotidiano La Stampa il giorno della sua morte, il 29 gennaio 1966. Ma era davvero questo Vincenzo Agnesina?
Nei giorni successivi alla strage mancata all’Archivescovado di Milano, Agnesina si diede da fare per indirizzare le indagini, che già parlavano di un attentato compiuto da svariati terroristi, verso la tesi dell’attentatore solitario. A suo dire, chi aveva agito non aveva nulla a che fare con i partiti politici. Non poteva che essere un pazzo con istinti suicidi. Magari una persona in difficoltà, che l’Arcivescovado stava assistendo con il suo istituto di beneficenza, ma che, insoddisfatta degli aiuti ricevuti, aveva deciso di agire con quell’insano gesto. In questo identikit non è difficile scorgere qualcosa che Agnesina aveva già affrontato nei mesi precedenti. Esattamente un anno prima, il 9 gennaio del 1955, un altro più grave atto terroristico si era verificato al cinema Metropolitan di Ancona e due donne erano morte. Anche in quel caso le prime indagini riferivano di un possibile conflitto a fuoco tra più individui. Da Roma si mosse il solito ispettore Agnesina, ed ecco che la pista cambiò immediatamente. Niente più attentato o sparatoria, ma azione isolata di un attentatore solitario: Michele Cannarozzo. Finanziere, con una famiglia numerosa a carico e in difficoltà economiche, Cannarozzo era depresso - dissero i giornali - poiché gli era stata negata una casa popolare. Avrebbe agito da solo per protestare contro le ingiustizie sociali.
I due fatti, di Ancona e Milano, tuttavia, seguirono destini differenti. Se infatti ad Ancona la teoria di Agnesina fu seguita alla lettera dal questore e dalla polizia, con una caccia all’uomo degna di un film americano, con tanto di taglia sull’attentatore-pazzo che andò a suicidarsi vicino Venezia, a Milano dell’attentatore solitario, “con gli occhi spiritati”, come già iniziavano a raccontare anche i cronisti milanesi, non si seppe più nulla. La storia cadde nell’oblio fino all’agosto successivo, quando riemrse per puro caso. Almeno così sembrerebbe. Su una cosa soltanto Agnesina ebbe ragione. Disse che l’attentatore si sarebbe fatto notare con qualche gesto. In effetti, Carlo Alberto Volpi, un militante di estrema destra, figlio di quell’Albino Volpi implicato nel delitto Matteotti, si tradì scrivendo una lettera al suo avvocato. Arrestato per reati finanziari, minacciò dal carcere il suo legale e amico, Eligio Noja, facendo chiari riferimenti all’attentato all’Arcivescovado di Milano. La lettera fu intercettata dalla polizia. Ma Volpi aveva una gran voglia di parlare, poiché, stando alla ricostruzione fatta dall’inviato della Stampa il 22 agosto del 1956, scrisse un memoriale e cercò di venderlo ai giornali. Interrogato in Questura, fece altri nomi, tra i quali soprattutto quelli di Hermes Vecchio e Settimio Bazzi, nonché di Ampello Spadoni, ex colonnello della formazione fascista Ettore Muti. La confessione del Volpi, dopo attente verifiche, fu giudicata attendibile. Gli altri estremisti cercarono di negare, ma non riuscirono a convincere gli inquirenti. Il processo di primo grado si concluse con delle condanne a uno o poco meno di due anni di reclusione per tutti e cinque gli imputati, mentre dell’appello, che fu celebrato nel 1958, non ho trovato tracce in archivio. Il sito religioso La bottega di Nazareth, in una sua ricostruzione del 2018, confermava in ogni caso che tre estremisti di destra erano stati condannati. Quanto alle implicazioni politiche dell’attentato di Milano, c’è da aggiungere che anche il Movimento Sociale Italiano cercò di prendere le distanze dal gruppetto di facinorosi, ma la loro appartenenza all’area della destra emerse con chiarezza nei mesi successivi in seguito ad altri episodi di violenza con conseguenti processi giudiziari. Anche nel caso dell’Arcivescovado, come avvenne dopo la strage di piazza Fontana, si arrivò all’incriminazione dei fascisti seguendo la pista anarchica. Un legame tra queste fazioni di estremisti, apparentemente agli antipodi, evidentemente poteva esserci.
Dunque, tornando all’ispettore Agnesina, quale fu il suo ruolo in questa storia? I documenti che ho trovato su di lui non lasciano molti dubbi. Che fosse un genio delle investigazioni è assolutamente da escludere. Intanto, non era pensabile creare un unico profilo degli attentatori sia per il fatto di Ancona, sia per quello di Milano, semplicemente perché non si stava dando la caccia a un serial killer, ma si trattava di due distinti attentatori, visto e considerato che Cannarozzo si era già suicidato al momento dello scoppio della bomba dell’Arcivescovado. In merito a un altro famoso fatto di cronaca, in cui Vincenzo Agnesina fu inviato a coordinare le indagini, e mi riferisco alla rapina di via Osoppo a un furgone portavalori del 1958, il cronista dell’Unità scrisse testualmente: “Agnesina brancola nel buio, in cambio rastrella indiscriminatamente la città e rispedisce i meridionali ai paesi di origine.” Anche questo modus operandi ricorda ciò che avvenne dopo la strage del Metropolitan di Ancona. Pure allora venivano fermati e interrogati indistintamente tutti i cittadini, compresi coloro che non c’entravano niente, seguendo il principio secondo cui rastrellando a destra e a manca qualcosa si finisce per raccogliere. Una prassi, come sottolineava l’inviato dell’Unità, tutt’altro che democratica. Ma del resto Agnesina era un inquirente che veniva dal fascismo. E nel secondo dopoguerra entrò a far parte di quella rete di questori italiani impegnati nella lotta al Comunismo. Ce ne dà testimonianza un rapporto “confidential” della CIA del 15 aprile 1948, nel quale si riferiva che Agnesina poteva contare nella sua lotta al comunismo su 500 nuovi agenti. Di un suo rapporto preferenziale verso i fascisti ci parla, inoltre, un articolo del quotidiano ungherese Nepujsag del 28 luglio 1962. In quel caso, stando alle accuse, Agnesina avrebbe usato degli estremisti di destra per infiltrarli nelle proteste degli operai della Fiat e deviare, in tal modo, una pacifica manifestazione verso gli scontri con la polizia. Quello che a questo punto mi domando è: l’estrema destra fu artefice anche della strage del Metropolitan di Ancona? E’ possibile. Nella mia ricostruzione del caso Cannarozzo, per il libro La porta dell’Ade, avevo evidenziato svariati riscontri oggettivi sulla possibile innocenza del militare della finanza. Ora mi chiedo pure qualcos’altro: qual era il vero volto di Cannarozzo? La foto segnaletica che fu pubblicata dai giornali per lanciare la caccia al “wanted”, nel momento in cui viene messa accanto a quella di Agnesina fa rabbrividire. I tratti somatici del finanziere sembrano molto simili a quelli dello stesso ispettore. La famosa immagine segnaletica di Cannarozzo, per caso, è una foto di Agnesina da giovane? Se così fosse, la taglia sull’attentatore sarebbe, oltre che contraria alla Costituzione, una presa in giro. Forse, e sottolineo, forse, perché è una mia idea priva attualmente di riscontri, la vera storia della strage del Metropolitan deve essere ancora scritta.