venerdì 22 dicembre 2017

Quell’incubo nucleare su Ustica

Un A-7 Corsair statunitense simile a quello caduto a Ustica il 10 novembre 1969, in una foto del 1968 di Terry Anderson archiviata su Wikimedia Commons.
Sono le ore 10 di una calda mattina d’autunno del 1969. E’ il 10 novembre, per l’esattezza, un periodo di scioperi che verrà poi ricordato come l’”autunno caldo” della contestazione. Un mese più tardi una bomba esploderà nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, nel centro di Milano, seminando morti, panico, provocando indagini e processi infiniti. Ma tutto questo non lo può immaginare il pilota dell’aereo A-7 Corsair dell’aviazione statunitense, che sta sorvolando il cielo di Ustica.
E’ decollato dalla portaerei Saratoga, e poi ha fatto perdere le sue tracce. Partono richieste di soccorso verso la capitaneria di porto di Palermo, di Trapani e di “Marisicilia”. Lo raccontano i giornali che escono il giorno 11 novembre 1969 con questa notizia. La Stampa gli dedica un piccolo articolo, L’Unità, un’intera pagina.
Per i comunisti è l’ennesimo scandalo targato NATO. Si tratta di militari, e perciò avranno ancora una volta qualcosa da nascondere. L’A-7 Corsair sembra che stesse effettuando un normale volo di ricognizione. Ma è un aereo da guerra, probabilmente pieno di armi, di missili, forse anche a testata nucleare.
Ed è subito giallo, perché siamo in guerra fredda, è in corso il conflitto in Vietnam, e la versione ufficiale fornita dai vertici militari della marina statunitense non convince nessuno, né il governo italiano interviene per fare luce sull’accaduto. Del resto quando i soccorsi delle forze armate italiane sono partiti, il comando statunitense li ha bloccati e rimandati a casa. Sul posto si stavano recando direttamente i militari americani della sesta flotta. Il pilota dopo poche ore viene dato per disperso. Non si sapranno mai il suo nome e la sua sorte. Secondo il quotidiano L’Unità, i comunicati ufficiali, diramati attraverso l’agenzia Ansa, arrivano dopo le 21 dello stesso 10 novembre, precisamente un primo alle 21 e 14 e un altro alle 21 e 45.
Il luogo dell’incidente resta comunque poco chiaro. Per L’Unità l’aereo statunitense è caduto quasi certamente vicino all’isola di Ustica, perché le prime richieste di soccorso fornivano quelle coordinate, mentre secondo La Stampa (gli articoli non sono mai firmati) si sarebbe inabissato a 60 miglia dalle coste siciliane e a una quarantina dall’isola di Ustica. L’aereo civile DC-9 dell’Itavia che precipitò nel 1980 fu ritrovato più a est, tra Ustica e l’altra isola di Ponza, anche se, essendo esploso in volo, i suoi rottami si sparsero in un braccio di mare molto ampio.
Ma quello caduto undici anni prima era un aereo militare, dunque dotato di armi. Il comunicato statunitense - secondo il quotidiano comunista L’Unità - non smentiva che l’A-7 Corsair potesse aver portato con sé negli abissi marini delle testate atomiche. Lo si escludeva soltanto perché gli americani specificavano che si trattava di un caccia intercettore, e per queste caratteristiche doveva risultare molto leggero. Sulla Stampa del 12 novembre 1969 ecco dunque la smentita categorica con un altro articolo. “Non recava bombe H l’aereo inabissatosi nel Mediterraneo”, titolava il quotidiano della famiglia Agnelli. La smentita arrivava dal comando NATO di Napoli, che intendeva replicare a “supposizioni infondate”, dovute alla richiesta di annullare i soccorsi dei militari italiani.
Tutto questo prodigarsi in scuse con il timbro ufficiale, ad ogni modo, non era sufficiente a fugare tutti i dubbi. Anzi. Il 20 novembre 1969 era un giornale ungherese, Nepujsag, a tornare sull’argomento parlando proprio di mistero fitto e di un rischio nucleare per la Sicilia. Grazie al resoconto di un corrispondente dell’agenzia sovietica Tass affermava: “Gli americani non consentono nemmeno al comando NATO di effettuare la ricerca, e i soccorsi sono gestiti solo da unità della sesta flotta degli Stati Uniti.”
Il fatto che il nome del pilota restasse segreto era la prova che gli Stati Uniti cercavano di nascondere qualcosa. “Le autorità locali italiane - proseguiva il giornale magiaro - sostengono che il disastro non si è verificato sulle acque territoriali italiane, ma in alto mare, presumibilmente a 60 miglia dalle coste italiane tra Ustica e la Sardegna. Se questo è il caso, allora logicamente si può presumere che altre navi di soccorso inviate alle navi da guerra, aerei, elicotteri e "Corsair" statunitensi rimangano nell'area indicata. I corrispondenti della redazione di Palermo della radio e della televisione italiana hanno fatto il giro con un aereo sopra l'area designata martedì, ma non hanno visto questi soccorsi.” “Non c'è dubbio che qualcosa si sta nascondendo e questo "qualcosa" è un pericoloso bombardamento che causa contaminazione radioattiva, scriveva L’Unita mercoledì.”
Infatti il giornale del Partito Comunista già martedì 11 novembre aveva pubblicato un secondo articolo, sotto alla notizia della scomparsa dell’A-7 Corsair, nel quale rimarcava che erano già una quarantina, in tutto il mondo, i velivoli della NATO precipitati con il loro carico atomico. Un caso eclatante era capitato nel 1966 in Spagna, a Palomares. Ma non solo. Sempre a Ustica un altro aereo militare era precipitato intorno alla mezzanotte tra sabato 8 e domenica 9 agosto del 1953. In questo caso si trattava di un C-119 da trasporto del tipo “Flyng box car” ovvero “vagone volante”. Lo raccontava nel numero del 10-11 agosto 1953 il quotidiano La Stampa. Il velivolo apparteneva al comando americano di Wiesbaden, nell’ex Germania Ovest. Era partito da Udine e percorreva la consueta rotta verso Tripoli, dove sarebbe dovuto atterrare. Ma non lo si vide arrivare. Le ricerche furono condotte da mezzi aero-navali di quattro nazioni: Italia, Francia, Stati Uniti e Inghilterra. Il risultato fu il salvataggio di cinque dispersi, mentre nulla si seppe degli altri 19 militari, scomparsi tra i flutti del mar Tirreno, che era agitato per le cattive condizioni atmosferiche. 
Ancora un’altra tragedia si consumò a Ustica mercoledì 24 agosto del 1955, e vittima ne fu un altro velivolo militare, un bimotore C-45 di ricognizione della Guardia di Finanza. Decollato alle 15 da Palermo, per rintracciare una nave di contrabbandieri di tabacchi esteri, si inabissò per un problema tecnico vicino all’isola di Ustica, mentre volava a pelo d’acqua per permettere a un agente di fotografare i contrabbandieri. I militari a bordo erano quattro, Giuseppe Russo, Vincenzo Ganci La Rosa, Giuseppe Gandolfo, Luigi Giglio. Si misero in salvo con un battello pneumatico, mentre il C-45 si inabissava nelle acque di Ustica. I quattro naufraghi furono prelevati dai contrabbandieri, i quali, armi in pugno, offrirono ai militari la salvezza su una nave di passaggio, a patto che non fossero denunciati prima delle quattro del mattino, in modo da poter sfuggire all’arresto. E così pare che le cose andarono.
Storie affascinanti, che riemergono dalle polveri digitali dei giornali, i quali accostano in pochi secondi epiche imprese della guerra fredda a cronache dei nostri giorni. Ciò non toglie che undici anni sono troppo pochi, tra il giallo dell’A-7 statunitense e il mistero del DC-9, per poter credere che sia tutto merito degli archivi di internet. Non è possibile che i giornalisti che raccontarono la tragedia di Punta Raisi del 1978 e quella di Ustica del 1980 potessero aver dimenticato le tragedie precedenti, né potevano evitare di porsi degli interrogativi. Che fine avranno fatto quei velivoli inabissatisi tra i flutti? Come è stato possibile che, quando fu recuperata la carcassa del DC-9, molti anni dopo la strage, nessuno notò nei fondali, peraltro altissimi in quella zona (sui 3700 metri), i pezzi degli altri aerei caduti in acqua? Erano stati tutti recuperati? E con loro le armi nucleari?
Sì, perché senza voler lanciare allarmismi, è tuttavia chiaro che l’A-7 Corsair dovesse essere dotato di armi, quel 10 novembre del 1969. Wikipedia spiega che si tratta di un velivolo utilizzato dal 1967 al 1991, dotato di lanciarazzi, bombe al Napalm, missili antiradar e missili nucleari anti-nave. Per sottostare ai limiti di portata, quegli aerei venivano fatti decollare con i serbatoi semi-vuoti, sfruttando dei kit aerocisterna del “Greyhound” durante il volo. In questo modo potevano volare armati di tutto punto.
Dunque che quel giorno l’aereo della NATO fosse del tutto privo di armi è difficile crederlo. Quanto invece alla portaerei Saratoga, da cui partì l’A-7 Corsair, non dovrebbe essere confusa con la nave che secondo Wikipedia fu messa fuori uso nel 1946 da un incidente in un test nucleare. Infatti risulta che una portaerei Saratoga era ancora attiva durante la prima guerra del Golfo Persico, contro l’Irak di Saddam Hussein, nel 1991.
E’ possibile che nel golfo di Napoli si aggirasse durante la guerra fredda anche una nave spia dei russi, perché lo accennava un opuscolo della Democrazia Cristiana nel 1953. Lo scenario di guerra di cui si è spesso parlato per la strage del DC-9 del 1980 viene in questo modo pienamente confermata. Gli incidenti di cui abbiamo parlato spiegano pure tutte le attenzioni dell’ambasciata americana per quei Cessna che precipitarono, nel dicembre 1978, sempre sulla rotta Friuli-Sicilia. E per quel volo Alitalia che il 23 dicembre dello stesso anno precipitò uccidendo 108 persone.
Ma avevano davvero qualcosa da nascondere gli statunitensi nel 1980? Oppure i depistaggi sulle reali cause dell’incidente del DC-9 furono dovuti a un attentato del colonnello libico Gheddafi, con il quale la loggia P2 aveva stretto un patto segreto, denunciato dal famigerato dossier Mi-Fo-Biali, con cui si stabiliva la cessione dei segreti della nostra difesa aerea in cambio di petrolio a basso costo?

giovedì 21 dicembre 2017

Gli americani indagarono su un altro caso Ustica


Il governo degli Stati Uniti fu mai contattato per indagare sulla strage di Ustica? E’ quanto ci si domanda scoprendo sul sito di Wikileaks che l’ambasciata di Washington, un anno e mezzo prima che il DC9 dell’Itavia cadesse a Ustica, il 27 giugno del 1980, portando con sé negli abissi del Mediterraneo 81 vittime, era stata contattata per un altro incidente aereo, avvenuto esattamente nello stesso posto. Anzi fu chiamata per quello e per molti altri incidenti aerei.
Cercando infatti la parola Ustica nel motore di ricerca di questo enorme database, contenente i cablogrammi del governo statunitense e delle varie ambasciate, compaiono soprattutto due importanti documenti. Il primo è l’unico cablogramma (o meglio l’unica serie di documenti) che si riferisca alla strage di Ustica. Risale a molti anni dopo il fatto, ossia al giugno-luglio 2003, e si riferisce a una richiesta di chiarimenti del ministro italiano per le relazioni con il parlamento, Carlo Giovanardi, su uno scoop giornalistico del TG3. Nel servizio veniva denunciato che nel 1992 il governo statunitense intercettò una telefonata tra l’allora presidente del consiglio Giuliano Amato e il ministro della difesa Salvo Andò. In questa telefonata i due membri del governo italiano discutevano sulla posizione americana nella vicenda del disastro del DC-9.
Per chi non lo sapesse, la storia del disastro di Ustica fu subito un giallo. Nel corso degli anni si fece concreta l’ipotesi che l’aereo civile fosse stato abbattuto da un missile lanciato durante un’esercitazione militare, oppure per contrastare dei Mig libici di scorta all’aereo di Gheddafi. In secondo piano vi era una pista che portava ad ipotizzare che una bomba fosse stata piazzata nella toilette, a scopo terroristico. Fu invece scartata molto presto l’idea del cedimento strutturale del velivolo. Ma la strada per la verità fu molto difficoltosa e costellata di omertà e suicidi sospetti tra i militari dell’aeronautica militare italiana, accusati dall’opinione pubblica di aver taciuto sulle vere cause dell’incidente.
Il cablogramma del 2003 mi pare molto deludente. Giovanardi chiede lumi sulla vicenda, che smentisce la sua ipotesi della bomba a bordo della toilette. Vorrebbe reperire i documenti in modo da replicare alle voci del TG3. Ma ciò sarebbe possibile solo se si dimostrasse che questi documenti ufficiali non esistono. L’ambasciatore statunitense, rivedendo il video giornalistico, dichiara sempre nello stesso cablogramma di aver provato ad identificare il documento della presunta intercettazione, senza ottenere dei dati certi. Le comunicazioni sul caso finiscono qui. Oggi i documenti della CIA sono a disposizione di tutti sul loro portale, il FOIA. Del caso Ustica, lì, non v’è alcuna traccia.
E’ possibile che i politici di Washington nel 1980 e anche dopo non ebbero nulla da dirsi? Sembra strano, perché quando gli aerei cadevano, alla fine degli anni ‘70, le comunicazioni tra l’ambasciata di Roma e il Dipartimento di Stato statunitense non mancavano. Ciò accadde per casi eclatanti come la strage di Punta Raisi del 23 dicembre 1978, quando a morire per un altro incidente aereo furono ben 108 persone, e per incidenti molto meno conosciuti, o addirittura ignorati dai giornali italiani.
E’ il caso dell’altro incidente aereo di Ustica, quello del secondo documento di cui parlavo prima, avvenuto esattamente il 18 dicembre del 1978, alle ore 5 e 27 del pomeriggio. Si trattava di un “Cessna 421-A” fabbricato in Italia. Era partito da Monaco ed era diretto a Palermo. A bordo, solo una persona, il pilota, che nonostante l’aereo fosse caduto vicino a Ustica era riuscito a salvarsi e a raccontare l’accaduto. L’incidente era capitato per l’accumulo di ghiaccio nel motore. Una situazione climatica completamente diversa da quella in cui si trovò l’anno successivo il disgraziato DC-9 dell’Itavia.
L’ambasciatore statunitense Richard Gardner citava questo modesto episodio perché era stato analizzato dalla stessa commissione di inchiesta dell’aviazione civile italiana, presieduta dal dottor Sbalchiero, che si stava occupando di un altro Cessna, caduto pochi giorni prima. In quel caso erano rimaste uccise ben dieci persone. Quest’ultima vicenda era apparsa anche sui giornali. Un aerotaxi “Cessna 421-C” di Catania, partito il 16 dicembre 1978 dall’aeroporto Ronchi dei Legionari di Gorizia, era precipitato a mezzogiorno e 45 sulle montagne intorno ad Amatrice, nel reatino, precisamente nei pressi di Leonessa. Trasportava del personale qualificato di una società padovana, la Icomsa, che stava progettando un centro universitario in Algeria. Dall’articolo di Gigi Bevilacqua della Stampa vorrei citare i nomi delle vittime dello schianto: Giulio Brunetta, Giovanni Indri, Giuseppe Trapanese, Enzo Bandelloni, Gian Paolo Schwarcz, Pino Bottacin, Adriano Brunetti, e l’ingegnere francese Henzel.
Nel cablogramma, spedito il 10 gennaio 1979 dall’ambasciata di Roma al Dipartimento di Stato americano, Gardner scrisse che il dottor Sbalchiero aveva chiesto agli statunitensi un aiuto nelle indagini. La causa dell’incidente era comunque attribuibile all’avaria del motore del Cessna, che aveva costretto il pilota a tentare un atterraggio d’emergenza sulle montagne di Leonessa. Il cablogramma di Gardner specificava che un caso analogo, secondo quanto affermava un secondo membro della commissione d’inchiesta dell’aviazione civile, il dottor Peresempio, era capitato a un altro Cessna 421, un terzo, che era caduto a maggio del 1978 per mancanza di carburante. I morti quella volta erano stati quattro: tre passeggeri più il pilota.

giovedì 14 dicembre 2017

“Papa Wojtyla fu scelto dalla CIA”

La foto di Papa Wojtyla sul giornale Uj Szò. Nella didascalia gli ungheresi scrissero nel 1984: "Il cardinale Wojtyla, l'attuale Papa, ha rispettato da vicino gli obiettivi e le aspettative della CIA"
Papa Wojtyla fu eletto al soglio pontificio, nel 1978, grazie alla CIA? Lo sosteneva in un ampio reportage il giornale ungherese Uj Szò, il 2 marzo 1984, cioè in pieno regime comunista. Secondo il giornale, il Vaticano era stato fin dalla seconda guerra mondiale “terreno di caccia” per le spie degli Stati Uniti, che consideravano la sede papale un’ottima fonte di informazioni sull’economia e la politica dei vari Stati del mondo.
Il lungo reportage di Uj Szò, che occupava un’intera pagina, tracciava una storia del papato degli ultimi decenni. La CIA avrebbe iniziato a influenzare la politica della chiesa fin dal 1944, grazie a “canali sotterranei” quali l'Ordine dei Cavalieri di Malta e l'Opus Dei. Ne avrebbero tratto dei benefici, però, anche svariati criminali di guerra nazisti come Klaus Barbie e Reinhard Gehlen, che ottennero copertura e documenti falsi per sfuggire ai processi post-bellici. L’Ordine di Malta avrebbe persino premiato questi ex nazisti con delle medaglie. Tra i nomi figura pure James Angleton, portavoce della CIA che secondo il reportage di Uj Szò, ma non solo, visto che ne parlarono nel loro libro “Gli americani in Italia” anche Roberto Faenza e Marco Fini, fu l’ideatore della rete di spionaggio della CIA in Vaticano dopo il 1945. Angleton nel 1948 avrebbe contribuito a costruire, nell’ambiente cattolico, una campagna di propaganda contro il partito comunista. In vista delle elezioni politiche venne denunciato un inesistente pericolo rosso. La CIA avrebbe finanziato e appoggiato, negli anni successivi, specialmente dopo il 1971, anche i cattolici conservatori dell’Opus Dei. Ciò sarebbe avvenuto nei paesi latino-americani in cui si verificò, con il contributo di questi cattolici intransigenti, un colpo di Stato di destra, vale a dire in El Salvador e in Cile.
La notizia che fa sensazione è tuttavia che l'elezione di papa Wojtyla fu favorita dalla CIA. Già prima della morte di Paolo VI, la centrale americana di spionaggio di Langley si sarebbe messa all’opera per trovare un sostituto. Scrive testualmente Uj Szò: “Dopo una serie di studi interni, Karol Wojtyla di Cracovia si è dimostrato il candidato più adatto.” Un certo Terence Cooke, dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, si sarebbe recato a Cracovia per incontrare il futuro papa Wojtyla, convincendolo a parlare ad alcuni raduni dell’Opus Dei. Quei discorsi sarebbero poi stati inviati a vari personaggi influenti del Vaticano.
La CIA avrebbe così ottenuto, con l’elezione di Karol Wojtyla, un papa che rispondeva finalmente alle sue aspettative politiche. Il cardinale polacco appariva molto diverso da papa Giovanni XXIII e a Paolo VI, che si erano mostrati disponibili a un’apertura verso il mondo sovietico e impermeabili alle influenze statunitensi. Papa Giovanni Paolo II, secondo gli ungheresi, con il suo anti-comunismo aveva confermato la bontà degli studi delle spie americane.
Quali considerazioni fare a questo punto, nel 2017? E’ evidente che questo terribile accostamento tra religione e politica può offrire un movente politico per l'attentato di tre anni prima. Il 13 maggio del 1981 il turco Alì Agca tentò di uccidere papa Wojtyla, a Roma, con dei colpi di pistola. Che possa esserci stato un interesse dei servizi segreti sovietici nell’uccidere il papa polacco lo suggerisce pure il libro di Bruno Vespa: "Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi". Ma i comunisti di questo giornale ungherese conoscevano sia gli sviluppi delle inchieste sull’attentato al papa, sia quelli per la scomparsa di Emanuela Orlandi. Sapevano della pista bulgara e dell’arresto del turco Agca, e si interessavano alle nostra vicende quanto i giornali italiani. Quindi il mandante, se mai vi fu dietro il folle gesto di Agca, può essere cercato anche altrove.

martedì 14 novembre 2017

Caso Fentermina, la storia di Dietrich Thurau


Sul numero 10 di ottobre 2017 del Guerin Sportivo l’ex medico della Roma, Ernesto Alicicco, è tornato a parlare del caso Fentermina, quello che portò nell’autunno del 1990 alla squalifica di Peruzzi e Carnevale. Nella ricostruzione storica dei vari campionati che il Guerino regala ai suoi lettori non poteva mancare la rievocazione dello scandalo doping della Roma. Cioè quello che divenne famoso per il farmaco che i due ex calciatori romanisti assunsero, ormai è assodato questo, dopo la partita di serie A del 23 settembre 1990: Roma-Bari, terminata 1-0 con gol di Carnevale.
Nell’articolo intitolato: “Il giallo, la presa della pastiglia”, Alicicco cerca di smentire la terribile ipotesi che i suoi atleti avessero tratto giovamento, nelle prestazioni sportive, dall’assunzione di quella sostanza. Afferma che “dal punto di vista farmacologico la storia aveva una fragilità incredibile, non stava in piedi.” E sentenzia: “La Fentermina è una sostanza che toglie appetito, punto e basta. Se io dovessi improvvisamente impazzire e quindi decidere di dopare un giocatore, non lo farei mai con la Fentermina.” Per Alicicco fu tutta una montatura politica per colpire il presidente Dino Viola, che sarebbe morto di lì a poco tempo.
Falso, tutto falso. Gli archivi digitali dei quotidiani che affiorano ogni giorno in ogni parte d’Europa smentiscono seccamente questa ricostruzione: il caso Fentermina della Roma non fu isolato nel mondo sportivo. E soprattutto fu un tentativo di migliorare le prestazioni dei giocatori. L’ultimo risultato offerto dal motore di ricerca è stata la storia di un ciclista tedesco, uno dei tanti che sentivo nominare dal telecronista Adriano De Zan nelle corse a tappe. Parliamo di Dietrich Thurau. Classe 1954, vinse la Liegi-Bastogne-Liegi nel 1979, e si classificò secondo nel 1977 nel mondiale su strada dietro Francesco Moser. Poi di nuovo secondo nel 1979, nella stessa competizione, dietro Jan Raas, allorché, stando a Wikipedia, tagliò la strada all’italiano Battaglin facendolo cadere. Thurau rimase famoso anche per le squalifiche per l’assunzione di doping. Ne collezionò ben tre: nel 1980, 1985 e 1987.
L’articolo che ho potuto leggere online si riferisce al primo caso-doping di Thurau, quello del 1980. Si occupava di questa storia il giornale tedesco Der Spiegel. Era il 30 giugno del 1980. Non conoscendo il tedesco, ho ottenuto una traduzione accettabile grazie al sito Bing Translator. Ebbene, Thurau era stato colto in flagrante in una corsa a tappe in Svizzera. Il medico Hans Howald conservava nel suo laboratorio campioni delle urine di Thurau con tracce di due sostanze: Nicotina e, appunto, Fentermina, lo stesso farmaco di Peruzzi e Carnevale. E che questa seconda nascondesse pratiche antisportive era per Der Spiegel una fatto certo. Ecco cosa scriveva il giornale tedesco a tale proposito: "Nel primo campione è inclusa con assoluta certezza Fentermina, giudicata doping dal controller Howald. La sostanza è un parente chimico vicino del noto stimolante da anfetamina (la cui denominazione commerciale è: "pervitina").”
Ma leggete anche il seguito: “Intere generazioni di ciclisti professionisti si sono chiamati "dinamite" o "velocità" con questi farmaci internamente, drogati, tra cui il vincitore Jacques Anquetil. Fentermina, inclusa in alcuni anoressizzanti che non possono essere venduti in Germania, aumenta la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca. Ma soprattutto, scaccia i dolori muscolari e la fatica.”
Meno chiaro apparve il ruolo della Nicotina, che fu riscontrata in dosi massicce in un corridore, parliamo di Thurau naturalmente, che affermava di non essere un fumatore. Anzi, la quantità era tale, sosteneva Der Spiegel, che Thurau avrebbe dovuto fumare sigarette lungo tutta la tappa del giro di Svizzera.
Il ciclista tedesco gridò alla “cospirazione”. Contestò le analisi accusando i suoi avversari di aver alterato le provette. Si parlò anche di doping al contrario, somministrato cioè a un atleta non per farlo vincere, bensì per renderlo più debole e inoffensivo. Tuttavia - precisava il giornale tedesco - simili manipolazioni delle provette erano improbabili, poiché la sicurezza dei controlli in Svizzera era garantita da una serie di contromisure, che prevedevano la numerazione delle fiale e la suddivisione dell’analisi del singolo atleta in due parti, che venivano separate, sigillate, ed erano rintracciabili solo dal medico. Molto meno attendibili erano, al contrario, stando al parere di Der Spiegel, i ciclisti, i quali cercavano di alterare le proprie urine, se non addirittura di introdurre al momento dell’esame antidoping l’urina di altre persone.

26 August 1979,
Campionati del mondo di Ciclismo 1979 a Valkenburg. Da sx:
Dietrich Thurau, Jan Raas, Jean-René Bernaudeau. Foto dell'autore:
Bogaerts, Rob / Anefo, tratta dal Dutch National Archives

sabato 4 novembre 2017

Che fine ha fatto "l'aurora artificiale" del Conero?


Che fine ha fatto l'aurora artificiale del misterioso professor Cutolo? Nell'aprile del 1961 fu pubblicato, sul numero 4 del periodico "L'antenna TV", un interessante articolo che parlava di esperimenti sullo spazio condotti dal Monte Conero. Venne scritto che era stata "impiantata una stazione per sondaggi ionosferici" nella zona che la Marina Militare gestiva, appunto, sull'isolata collina che sorge a sud di Ancona. 
Era il periodo della famosa eclissi solare totale, che fu osservata il 15 febbraio 1961, sul Conero, da migliaia di persone: studiosi italiani ed esteri, ma anche semplici cittadini. Da questo episodio potrebbe essere nata quella leggenda a cui si fa spesso riferimento (lo ha fatto in particolare la trasmissione "Mistero" di Italia 1) per accostare il Conero agli alieni. Leggenda che narra di una specie di Area 51 presente all'interno del bosco, o di una "base aliena". In realtà, sulla ionosfera già nel 1961 si combatteva la guerra fredda (il caso dell'U2 caduto nell'Unione Sovietica era di quel periodo), e alla fine degli anni Settanta vi si propagavano già le onde degli esperimenti statunitensi, di cui ho letto nel libro "La guerra elettronica", trovato per caso in una bancarella di piazza Cavour ad Ancona. 
Tornando a quegli esperimenti nella zona militare del Conero, il Corriere Adriatico, il quale all'epoca pubblicava approfonditi resoconti sull'eclissi solare, scrisse che vi avrebbe partecipato quello che per noi è un enigmatico professore universitario. Si chiamava Mario Cutolo. Era alla guida di una spedizione organizzata dal "Centro Studi di Fisica dello Spazio" dell'Osservatorio astronomico di Monte Mario (o dell'Università di Napoli). Il centro era diretto dal professor Cimino.
Cercando nel web il nome di Mario Cutolo si scopre che era molto apprezzato negli Stati Uniti. Compaiono delle fotografie e una biografia in inglese. C'è anche dell'altro. Nel 1938 Cutolo fu un assiduo frequentatore dei corsi di Ettore Majorana all'università di Napoli, forse per amore di un'altra studentessa di quei corsi: Nada Minghetti. Quindi, secondo certi studi recenti Cutolo sarebbe stato uno degli uomini collegati, indirettamente, alla sparizione misteriosa dello stesso Majorana. 
Ma il professor Cutolo fece la sua strada, nel campo della fisica. La cosa veramente incredibile è che in un articolo della Stampa, del 28 dicembre 1956, veniva annunciata una grande scoperta di questo professore; scoperta che per noi è tuttora sconosciuta. Si trattava di una specie di seconda luna, artificiale, che per il professor Cutolo era possibile creare dalla terra per illuminare zone impervie del globo, non raggiungibili dalla luce elettrica. L'idea consisteva nel trasformare le radio-onde di Guglielmo Marconi in "energia luminosa". Luce vera e propria in orari notturni, insomma, ma a basso costo.
Il sospetto che nutriamo, invece, con le conoscenze odierne, è che Mario Cutolo avesse scoperto i satelliti spia, che effettivamente illuminano, ma non come immaginava La Stampa. Infatti un altro articolo del 27 novembre 1957, dello stesso quotidiano torinese, annunciava che il centro sperimentale di Nola - dal quale secondo "L'antenna TV" erano stati ideati gli studi sulla ionosfera poi replicati sul Monte Conero - era finanziato direttamente dal Ministero della Difesa degli Stati Uniti, e controllato dalla NATO (veniva fatto il nome del maggiore italiano di aeronautica Giovanni Corsaletti). L'obiettivo dichiarato era proprio di creare "un'aurora artificiale", della quale, tuttavia, in seguito si persero completamente le tracce. Invece nell'articolo del 1957 appare evidente che a Nola gli americani volevano che fossero condotti studi sui disturbi nelle comunicazioni con gli aerei dell'Air Force. Sappiamo bene quanto fossero strategiche Napoli e la zona di Montevergine (vicina a Nola) per la NATO.
La storia narra che il 31 gennaio del 1958 gli Stati Uniti avevano lanciato in orbita il primo satellite denominato Explorer 1. L'URSS aveva tuttavia preceduto gli americani con l'invio nello spazio, l'anno prima (4 ottobre 1957), dello Sputnik 1. L'ultima notizia sul professor Cutolo risale al 5 maggio 1972, allorché sulla Stampa fu scritto che uno studio sulla ionosfera commissionato dal professore era stato venduto agli americani da un suo collega, che era stato denunciato e condannato.

mercoledì 1 novembre 2017

Spesi 3000 euro per base-Conero


Sul Monte Conero proseguono le attività militari del cosiddetto Terzo DAI, un gruppo di intelligence, quindi in parole povere di spionaggio, delle forze armate, che dipende cioè dallo Stato maggiore della Difesa.
In un bilancio dettagliato delle spese sostenute nel 2016 e nel 2017, la Direzione di Commissariato della Marina Militare di Ancona ha scritto che nel secondo trimestre dell’anno in corso, il 2017, è stata pagata una fornitura di due vasi d’espansione per il Terzo DAI del Monte Conero. Il costo di 740 euro ha coperto anche i lavori di installazione, che sono avvenuti il 16 maggio 2017.
Sul sito della ditta Caleffi si legge che “i vasi d'espansione sono dei dispositivi atti alla compensazione dell'aumento di volume dell'acqua dovuto all'innalzamento della temperatura della stessa, sia negli impianti di riscaldamento che in quelli di produzione di acqua calda sanitaria.” Si legge inoltre che “essi vengono utilizzati anche come autoclavi negli impianti di distribuzione idrosanitari.”
La forma di questi vasi d’espansione è quella di uno scaldabagno domestico. Sempre il Terzo DAI, il cui cancello di ingresso si trova sulla cima del Conero, aveva usufruito il 24 maggio 2016 di un controllo periodico dell’acqua potabile, del costo di 364,17 euro. Nel dicembre 2016 erano stati spesi, inoltre, altri 2.050 euro per una fornitura di gasolio da riscaldamento per la stazione meteo del Monte Conero. Non è finita. Il 24 novembre 2016 la Marina Militare di Ancona aveva speso altri 421,05 euro per “Acquisto ricambi per riparazione/manutenzione automezzi vari in dotazione al 3° D.A.I. M.te Conero”.
Tutte queste notizie devono far capire ai turisti che non bisogna assolutamente scavalcare le recinzioni della zona militare, anche se all’apparenza le caserme della base sembrano abbandonate. L’aspetto esteriore ingannevole potrebbe essere la caratteristica di questo sito militare fin dai tempi del fascismo. Infatti è interessante in tal senso un altro documento reperibile su internet: la biografia del militare Edoardo Martino. Durante la seconda guerra mondiale fu crittografo presso lo Stato Maggiore della Difesa, quindi svolse un corso di perfezionamento ed entrò nel SIM, il Servizio Informazioni Militari del Ministero della Guerra, il servizio segreto di Benito Mussolini.
Lavorando all’ufficio informazioni dello Stato Maggiore del Regio esercito, Edoardo Martino fu mandato, prima del settembre 1943, sul Monte Conero. La sua biografia afferma che, nella zona in cui oggi opera il Terzo DAI, diresse “una postazione di intercettazione dei messaggi provenienti dalla costa dalmata” fino all’armistizio dell’8 settembre ‘43. E fu proprio mentre era sul Conero, cioè il giorno 9 settembre ‘43, che questo militare aderì ai gruppi cattolici di guerra partigiana, combattendo in seguito in Piemonte tra il monferrato e l’alessandrino alle dipendenze dei soldati britannici.

venerdì 13 ottobre 2017

Un giornale scagiona Luigi Ceccobelli


Luigi Ceccobelli, l’uomo di Fratta Todina che insieme a un amico nel 1977 fu arrestato a Praga dai comunisti, potrebbe non essere il protagonista del dossier cecoslovacco di cui da un anno mi sto occupando. Nei documenti ingialliti dal tempo, contenuti in un cd rom che mi era stato inviato dall’archivio dei servizi segreti comunisti di Praga, si parla più volte di un Luigi Ceccobelli, il quale viaggiava verso l’est europeo su un’Alfasud rossa targata Roma. Il 2 giugno 1977 fu identificato alla frontiera cecoslovacca insieme all’amico Ferdinando Scargetta e ad altri due giovani. Un ulteriore gruppo di Milano, stando ai documenti, stava per mettersi in viaggio per l’URSS.
L’accusa era partita da una comunista originaria della Cecoslovacchia, tale Barbara Slagorska Berardi, la quale aveva inviato il 22 aprile del 1977 una lettera scritta a mano a un parlamentare di Praga, denunciando che un gruppo di giovani del suo paese, Fratta Todina in provincia di Perugia, stava progettando attentati a Mosca e nei paesi allora socialisti.
Luigi Ceccobelli da quando l’ho contattato via Facebook ha sempre protestato la sua innocenza, anche di fronte a documenti originali in cui il suo nome figurava insieme ad altri presunti terroristi. Ciò che faceva propendere per un suo coinvolgimento era il numero di targa della sua auto. Dai documenti del dossier, ma pure dai giornali dell’epoca, si evinceva che il motivo dell’arresto di Ceccobelli e Scargetta dal 16 al 28 giugno 1977 era dovuto a incongruenze nei documenti. Imprecisioni di cui mi sembrava di trovare conferma nel voucher di viaggio che i due oggi pensionati di Fratta Todina avevano conservato, e che mi hanno mostrato, sempre via internet, quest’estate. Nel documento che li autorizzava a un giro nell’est Europa nel giugno 1977 era stato specificato che il veicolo di Ceccobelli sarebbe stato un’Alfasud rossa, recante la seguente targa: PG 297691.


Ebbene, di questo numero non vi è traccia nel dossier dei servizi cecoslovacchi, i quali il 2 giugno 1977, giorno in cui Ceccobelli era effettivamente in viaggio verso gli ex paesi socialisti, parlavano invece di un’Alfasud rossa targata Roma E 42771, con a bordo quattro giovani: Ceccobelli, Scargetta, poi un certo Roberto Sponillo o Sponsillo e Paolo Bonatti.
Era più che lecito ipotizzare che la versione fornita oggi dal Ceccobelli fosse falsa. Ma ora spunta fuori un giornale comunista che toglie molti dubbi, ma ne crea altri. Rude Pravo il 29 giugno 1977 pubblicava la notizia che ci interessa. Il testo era molto breve. Si intitolava: “Espulsione dei cittadini italiani”. Specificava che Luigi Ceccobelli e Ferdinando Scargetta erano stati arrestati, perché entrambi avevano “viaggiato insieme” con la targa automobilistica PG-297691. E aggiungeva: “I documenti di viaggio di Ceccobelli hanno dimostrato l'interferenza illegale con i registri ufficiali.” Ceccobelli e Scargetta venivano espulsi dalla Cecoslovacchia. Ma i documenti erano in regola, e il voucher originale lo dimostra. Dunque il nostro problema è ora un altro: chi viaggiò in Cecoslovacchia su un’Alfasud rossa targata Roma nelle stesse ore in cui la macchina del vero Luigi Ceccobelli effettuava il tragitto pianificato e sempre dichiarato nelle interviste?

“Altre informazioni suggeriscono che L. Ceccobelli è un membro di un gruppo neo-fascista che si occupa della preparazione di attività diversificate e terroristiche nei paesi socialisti.” Questo era il finale dell’articolo di Rude Pravo, ma delle così gravi accuse oggi sembrano cadere. Cosa può essere successo? Ceccobelli si è difeso accusando i servizi segreti comunisti di aver cercato di incastrarlo per motivi politici insieme alla signora Slagorska Berardi. Ciò potrebbe essere vero, ma certamente non avvenne per mezzo del dossier che ho ricevuto dall’archivio, perché quei documenti contrassegnati come “Top secret”, che segnalavano la presenza di un gruppo di terroristi su un’Alfasud targata Roma, dovevano essere letti solo dalle spie comuniste, e nessuno li ha mai usati per infangare il nome del signor Ceccobelli.
L’ipotesi più plausibile è che due uomini, con documenti falsi contenenti le generalità di Ceccobelli e Scargetta, partirono per la Cecoslovacchia facendosi scudo dei due ignari turisti di Fratta Todina. Potrebbe trattarsi di uomini dei servizi segreti italiani, i quali una volta entrati nei paesi dell’est potrebbero aver cambiato il numero di targa, magari anche l’auto e pure i documenti d’identità. Sul Corriere della Sera veniva spiegato in quel periodo, per esempio, che le Brigate Rosse avevano escogitato un sistema elettronico con cui riuscivano a cambiare il numero di targa anche mentre erano in viaggio. Inoltre, i cecoslovacchi non conoscevano il volto di Ceccobelli e Scargetta, perciò chiunque avrebbe potuto spacciarsi per loro, e poi eclissarsi in Cecoslovacchia, magari grazie a degli appoggi locali, come era solito fare l’editore Giangiacomo Feltrinelli, lasciando i veri titolari di quei documenti nelle mani della polizia di Praga.
Io capisco che si tratta di un’ipotesi molto fantasiosa, che non ha molto senso. Perché i servizi segreti avrebbero dovuto nascondere una missione segreta dietro la vacanza di due ignari cittadini di un paesino dell’Umbria, che all’ultimo momento avrebbero potuto cambiare idea? Eppure l’unica spiegazione che sappiamo trovare è che la storia del campo di addestramento neofascista di Fratta Todina sia servita come copertura per altri oscuri disegni eversivi.


La vera prigione di Aldo Moro era a Forte Braschi?


<La polizia romana ha scoperto una "prigione" sotterranea delle "Brigate rosse", in cui i terroristi presumibilmente detenevano Aldo Moro. Alla periferia della capitale italiana, in un luogo chiamato Primavalle è stato scoperto nel giardino di una casa residenziale un appartamento ad una profondità di 15 metri, di 12 metri quadrati di superficie, un nascondiglio con una porta mascherata da sacchetti di immondizia. Nelle casse nascoste nel giardino furono trovati anche 12.000 proiettili. Il proprietario della casa e sua moglie sono stati arrestati. L'occultamento è a circa 3 chilometri dal luogo in cui i terroristi a marzo hanno rapito Aldo Moro. I rapitori avevano quindi abbastanza tempo per arrivare al nascondiglio prima che venissero attuati i blocchi stradali.>
Questo articolo è del 19 maggio del 1978, e fu pubblicato sul quotidiano ungherese “Új Szó”. L’ho tradotto con Bing Translator e l’ho aggiustato un pochino in italiano, ma ci si può fidare. In quei giorni, 18-19 maggio, la stessa notizia era presente anche in altre testate magiare, con poche varianti. Il titolo di “Új Szó” non lasciava dubbi: “Trovata la prigione di Moro”. Eppure questa notizia non è mai uscita in Italia. E’ un fatto che per noi non esiste. Ne sono praticamente sicuro, perché ho controllato tutti gli archivi dei quotidiani disponibili. Erano passati solo 10 giorni dal ritrovamento del corpo dell’ex presidente del consiglio e presidente della DC.
Dunque nel giro di una settimana e mezza il caso Moro poteva dirsi concluso, stando a queste fonti ungheresi. Il quartiere di Primavalle, che era stato nel 1973 il teatro di una tragedia in cui morirono due giovani, figli di un dirigente del Movimento Sociale, ospita tuttora la sede dei servizi segreti italiani. Si chiama: Forte Braschi. In pratica, Moro sarebbe stato prelevato e portato dove nessuno lo avrebbe cercato, in quel momento: a casa dei nostri 007, che erano impegnati con la polizia nelle ricerche dei colpevoli della barbara strage di via Fani.
La data di quel ritrovamento della prigione di Moro non è casuale. Era il periodo in cui la polizia stava scoprendo nel quartiere limitrofo di Monteverde la tipografia delle Brigate Rosse, dove alcuni personaggi, poi passati in secondo piano sui mass media, stampavano i volantini con le rivendicazioni dei sequestri o degli omicidi delle Bierre. Questo lo si evince dai giornali italiani e anche da Rude Pravo, il quotidiano comunista cecoslovacco, il quale riferiva di armi, munizioni e passaporti dei brigatisti "maoisti" rinvenuti in un “appartamento abbandonato”. Erano i giorni in cui veniva trovata, in quel covo di via Pio Foà, la macchina da scrivere che presumibilmente apparteneva ai nostri servizi segreti. Insomma, il 20 maggio del 1978 le indagini erano arrivate a una svolta: avevano scoperto che l’avventura delle Brigate Rosse imboccava la strada di Forte Braschi, e lì si esauriva.
Un personaggio che avrebbe potuto raccontare in quel momento la vera storia delle Brigate Rosse era proprio il piemontese Silvano Girotto, il famoso Frate Mitra. E’ quanto affermava un altro articolo ungherese di quei giorni. Dopo aver esposto i dettagli del ritrovamento della prigione di Primavalle, il giornalista ungherese si occupava del processo al primo nucleo delle Bierre, che era stato istruito a Torino. Girotto avrebbe detto nella sua testimonianza che durante il periodo in cui i carabinieri del generale Dalla Chiesa lo inserirono nelle Brigate Rosse aveva accesso ai documenti del Ministero italiano degli Affari Esteri, e riceveva copia di eventuali correttivi che venivano apportati agli stessi.
Il resto della storia lo conosciamo. Il giornale ungherese, che si chiamava “Dolgoz Lapja”, lo raccontava così: Girotto “ha riferito che nel 1974, dopo essere stato costretto ad impegnarsi in incursioni di rapina, ha informato la polizia dei piani dell'organizzazione e ha fornito assistenza all'arresto di due dei loro leader, Curcio e Franceschini.”
Ma è evidente anche al lettore più ignorante che già in quel momento Girotto non poteva più dire di far parte delle Brigate Rosse, bensì di un nucleo clandestino dei nostri servizi segreti. Gli ungheresi, in linea con le spie comuniste di Praga, scrissero che le Bierre non avevano nulla a che vedere con i gruppi di sinistra. Volevano solo seminare il panico in Italia. E le vere Brigate Rosse, quelle che venivano dai movimenti del 1968, dove erano rimaste? Frate Mitra suggeriva anche questa risposta nell’articolo di “Dolgoz Lapja”. Non spiegò dove era il suo nascondiglio, disse ai giudici soltanto che “era venuto a Torino da una distanza di 9.000 chilometri.”

martedì 10 ottobre 2017

Feltrinelli fu mandante di un omicidio


Molti segreti delle Brigate Rosse potrebbero essere rimasti sepolti in Bolivia, esattamente dove in questi giorni di ottobre del 2017 il terrorista rosso Cesare Battisti cercava di fuggire. Un dispaccio segreto della CIA del 27 novembre 1972, contenente quelli che venivano definiti i “Ruben Sanchez documents”, affermava che due membri dell'esercito di liberazione boliviano, l'ELN, erano stati appena arrestati. Si trattava di Emilio Ale Maldonado, detto El Zurdo, e Jose Osvaldo Kaski, detto El Viejo. Avevano confessato alla polizia boliviana che l'omicidio di Roberto Quintanilla Pereyra, il console ucciso ad Amburgo, era stato pianificato in Cile da tre elementi: Giangiacomo Feltrinelli, che secondo le indagini aveva acquistato la pistola, "Carlos" e Osvaldo Peredo. E fu eseguito da Monika Ertl, che venne a sua volta uccisa dalla polizia nel 1973. La stranezza è che "Carlos" veniva considerato dalla CIA già deceduto come Feltrinelli, quindi potrebbe non trattarsi del famoso "sciacallo" alleato dei palestinesi e della RAF. Ma è chiaro che un ruolo deve averlo giocato pure Silvano Girotto, probabilmente come informatore della polizia boliviana.

lunedì 9 ottobre 2017

Giallo sul frate novarese che tradì le Brigate Rosse


C'è un giallo che coinvolge un frate novarese. Tutto nasce dall’assassinio del guerrigliero di sinistra Che Guevara nel 1967. Che Guevara fu ucciso dal console boliviano Quintanilla, il quale a sua volta venne fatto fuori ad Amburgo il primo aprile del 1971 da Monika Ertl, figlia di un ex nazista fuggito in Sudamerica. La Ertl era una collaboratrice di Frate Mitra. Molte fonti, anche siti italiani, affermano che per liquidare Quintanilla fu usata la pistola di Giangiacomo Feltrinelli. Ciò significa che Frate Mitra e le Brigate Rosse lavoravano insieme già prima della famosa infiltrazione del generale Dalla Chiesa, che infatti ha molti lati oscuri. Frate Mitra, il cui vero nome era Silvano Girotto e aveva iniziato il sacerdozio sul lago D'Orta, secondo la Stasi era una spia del BND di Bonn da diversi anni quando i carabinieri lo utilizzarono. Il prof Bartali nel libro "L'ombra di Yalta sugli anni di piombo" utilizza l'audizione di Frate Mitra nella commissione del senato del 2000. Tuttavia il dettaglio non indifferente che la Ertl fosse una sua "collaboratrice" lo si ottiene da un'intera pagina che il Corriere della Sera dedicò al frate barricadero il 20 giugno del 1973, molto prima dell'infiltrazione di Dalla Chiesa. La firma era di Maurizio Chierici, che al frate piemontese dedicò in quello stesso periodo, nel 1973, persino un libro, che si intitolava: “Fratello mitra”; cui fece seguito un film con Franco Nero. Tra il 1969 e il 1971,
Silvano Girotto (che indossato il saio volle chiamarsi padre Leone) aveva scelto di andare in missione in Bolivia. Questi nuovi dettagli fanno intuire che la storia ufficiale, secondo cui i carabinieri nell'estate del 1974 arrestarono i capi delle Bierre infiltrando Frate Mitra, non regge. 

venerdì 6 ottobre 2017

Gli americani del Cairo indagavano sul caso Moro


Dal 2014 risulta declassificata nel sito di Wikileaks una serie di telegrammi che tra il 16 e il 22 marzo 1978 ebbero come oggetto il rapimento Moro. Il 16 marzo 1978 parte dal Dipartimento di Stato statunitense verso Milano, Roma e Madrid, in Spagna, un telegramma firmato da Cyrus Vance, che ha ricoperto l’incarico di segretario di Stato dal 1977 al 1980. Viene concordato il messaggio che il presidente statunitense Jimmy Carter invierà al presidente della repubblica italiana Giovanni Leone. Il nome di Moro risulta in una prima versione censurata storpiato in “Morra”. Si susseguono alcuni scambi di informazioni. Il 17 marzo del 1978 parte da El Salvador dall’ambasciatore statunitense Frank J. Devine, verso il Segretario di Stato negli USA, la richiesta di conoscere dettagli sui terroristi di via Fani. Domande più dettagliate erano state poste il 16 marzo dal Dipartimento di Stato di Washington verso l'ambasciata di Roma. Una relazione con la risposta parte il giorno seguente, il 17 marzo 1978, e, una volta ricevuta da Roma dal Dipartimento di Stato, viene girata al Cairo, in Egitto, il giorno 18. A parlare sono l’ambasciatore Gardner e il segretario Vance. Affermano tra le altre cose: “Si ritiene che i terroristi abbiano usato una "Tula Tokarev TT", una pistola automatica russa risalente al 1930." "Tra i 77 bossoli trovati sulla scena ne sono stati identificati alcuni da una pistola "NAGANT", un’altra arma russa risalente ai giorni dell'esercito zarista." Il 21 marzo 1978 gli americani del Cairo rispondono a Washington. Chiedono di sapere ancora di più. Si vogliono attrezzare per addestrare le loro guardie del corpo. L'ambasciatore Eilts per esempio voleva vedere le fotografie dei poliziotti morti in via Fani nell’Alfetta. Specificava che sarebbero servite per mantenere alta l’allerta dei loro reparti di sicurezza: “Il rispetto per la morte dei colleghi poliziotti può impressionarli.” Il motivo della preoccupazione degli americani in Egitto, nel marzo 1978, era la proposta "rivoluzionaria" di Sadat. Voleva stipulare una pace con Israele dopo gli anni della guerra dello Yom Kippur.

martedì 26 settembre 2017

Il mercato nero delle armi americane


Giovedì 27 dicembre 1979 partiva da Roma, verso il Bureau of Politico-Military Affairs degli Stati Uniti, un telegramma firmato dall’ambasciatore Richard Gardner. Si trattava di un aggiornamento della lista di aziende americane che stava operando in quel momento, in Italia, nel mercato dell’esportazione delle armi. La notizia è disponibile nel motore di ricerca di Wikileaks, cercando la voce “Page Europa”. Page Europa è l’azienda italo-americana che fungeva, e pare che lo faccia ancora, da intermediario per conto della Nato, e del governo di Washington, nella vendita di armamenti ai governi anti-comunisti. L’elenco di cablogrammi che la riguardano sarebbe lunghissimo: si va dallo scandalo Lockheed, nel quale fu accusata di distribuire tangenti ai politici, ai traffici tra Stati Uniti e paesi africani come la Somalia e la Nigeria, oppure tra Stati Uniti e Grecia. Il tutto attraverso la mediazione della sede romana di Page Europa. Il periodo di queste attività è compreso tra il 1973 e il 1979. Ma ciò che più colpisce è la lista di aziende americane che nel 1979 erano presenti in Italia per vendere armi. Ai loro nomi, l’ambasciatore Gardner aggiungeva per ciascuna di esse anche il numero di dipendenti. Ecco l’elenco completo: VITRO (tre dipendenti), CGE (due dipendenti), GETSCO (tre dipendenti), HUGHES INT. L (un dipendente), PAGE EUROPA (un dipendente), RAYTHEON (due dipendenti), NOTHERN ORDNANCE (due dipendenti), SPERRY (due dipendenti). Cercando su internet questi nominativi spesso ci si imbatte in aziende che operano almeno apparentemente in altri settori, eccezion fatta per la Raytheon Company, che su Wikipedia viene segnalata come un’azienda operante nel settore della difesa degli Stati Uniti. La sua specialità? Negli anni Ottanta si interessò anche ai velivoli civili, mentre dal 2008 è leader nella produzione di missili teleguidati.

martedì 19 settembre 2017

L'autopsia fantasma sul corpo di Aldo Moro


Sul cadavere del presidente della DC Aldo Moro furono redatte almeno due perizie medico legali, con l’evidente scopo di correggere una notizia che era filtrata il 10 maggio 1978 e che venne pubblicata sui quotidiani il giorno successivo. Sia La Stampa, sia il Corriere della Sera annunciarono in un piccolo trafiletto, l’11 maggio 1978, che Aldo Moro, appena ucciso dalle BR, era malato di cancro alla tiroide. Lo aveva accertato l’autopsia effettuata nell’istituto di medicina legale dell’università di Roma. Un “adenocarcinoma aveva intaccato i tessuti della tiroide e quelli immediatamente circostanti”, scriveva la nota. Avevano dunque ragione le spie della Stasi? Il 2 giugno 1978 fu pubblicato su La Stampa un nuovo articolo nel quale veniva rianalizzata l’autopsia, che sarebbe poi stata depositata un anno più tardi. Moro ora nel nuovo esame autoptico risultava godere di ottima salute. La giornalista Silvana Mazzocchi asseriva che “solo nel lobo sinistro della tiroide nel collo c’è un piccolo adenoma cistico della grandezza di un pisello, elemento che provocò la falsa notizia della presenza di un carcinoma.” Perciò, sottolineava, la tesi che il presidente democristiano fosse caduto sotto i colpi delle BR quando era moribondo era infondata. Per fortuna sul sito del Senato è disponibile nel 2017 il verbale originale dell'autopsia che fu eseguita il 9 e 10 maggio del 1978. Venne curata dal dottor Silvio Merli dell'Istituto di Medicina Legale di Roma, assistito dal professor Franco Marracino, alla presenza del dottor Sergio Villaschi. Le parole che usarono i medici sono le stesse della Mazzocchi:
"solo nel lobo sinistro della tiroide nel collo c’è un piccolo adenoma cistico della grandezza di un pisello." La vera stranezza furono, come sostenne la giornalista della Stampa, le continue smentite degli inquirenti.

domenica 17 settembre 2017

La madre di tutte le tangenti... degli americani


La Page Europa spa, l’azienda che pagò le tangenti ai politici italiani per vendere gli aerei della Lockheed, è ancora attiva, a quanto pare. Su internet risulta che sia presente un’azienda con questo nome a Roma e anche nei dintorni della Capitale. L’indirizzo dovrebbe essere cambiato, poiché la sede di questa omonima sospetta è al quartiere Eur. Tuttavia è molto probabile che si tratti della stessa Page Europa di Giorgio Valerio, infatti afferma sul suo sito di occuparsi di telecomunicazioni. Proprio come la sua omonima del 1976, che distribuiva "bustarelle" ai politici, la quale su La Stampa veniva così descritta dall’inviato Vittorio Zucconi: "è specializzata in apparecchiature elettroniche, sistemi di telecomunicazioni, collegamenti via satellite". L’ipotesi che la Page Europa spa sia ancora presente in Italia lascia piuttosto perplessi, ma non è da escludere, visto che non vi fu un processo tradizionale della magistratura ordinaria, all’epoca dei misfatti, bensì un rinvio piuttosto inconsueto alla Corte Costituzionale. Il sistema delle scatole cinesi con cui queste tangenti venivano coperte l’ho riscontrato personalmente in altri settori nei quali fui chiamato a lavorare a Milano dal 2007 al 2009, dieci anni fa ormai. Nessuno delle forze dell’ordine a cui avevo confidato i miei sospetti mi ha preso sul serio. Sicuramente era la Page Europa implicata nello scandalo Lockheed l’azienda che funse da tramite nel marzo del 1987 per una vendita di ponti radio Troposcatter della Marconi al governo turco. La Page Europa fungeva da “capo-commessa” su finanziamento della Nato. Nel marzo del 2015 la stessa scena si è incredibilmente ripetuta. Stavolta la Page Europa figurava come intermediario tra la Selex ES, ossia la vecchia Scialotti, e il governo polacco. Scopo dell'operazione una vendita di sistemi radar della Nato.

giovedì 14 settembre 2017

L’ombra della CIA sulle armi di Montedison


Un legame tra lo scandaletto delle radio taroccate della Edison, spacciate per nuove, e il famoso affare Lockheed fu scoperto dal procuratore Ilario Martella agli inizi del 1976. La presenza nell'affare di un uomo della vecchia Edison, un certo V. A., aveva permesso al magistrato di capire che le tangenti pagate dalla CIA ai partiti italiani, con lo scopo di favorire la vendita di aerei americani da guerra, toccavano anche i dirigenti di Foro Bonaparte. Stando alle parole del giudice Martella riportate da Galvano, il signor A. figurava sia nell’organismo della Com. El., la quale funse da intermediaria per la vendita degli aerei americani, sia nella Page Europa, sussidiaria della Northrop, la quale invece si era occupata delle tangenti. Giorgio Valerio divenne in seguito presidente della Page Europa (che inizialmente si chiamava Edison-page) e nominò tra i suoi collaboratori gli stessi uomini che figuravano nello scandalo dei fondi neri della Montedison, quelli del primo processo archiviato nel 1980, che era partito dalle radioline di seconda mano della Edison. Si venne così a sapere che all’interno di Foro Bonaparte vi era ampio spazio per delle aziende che non soltanto lavoravano sulle armi, fatto all’epoca tollerato, ma erano collegate al gruppo d’affari che faceva capo alla CIA. La Montedison infatti aveva inglobato nell’azienda-contenitore Montedel anche la Elmer, ossia il nuovo nome della Scialotti, la Stirer e la Gregorini, il cui indirizzo coincideva con quello della Northrop. Il signor A. figurava come fondatore e amministratore anche nella Gregorini.

Almaviva ancora esclusivista sui radar israeliani


La notizia è del 30 gennaio 2016 in un avviso pubblicato sul sito della Guardia di Finanza. Almaviva spa, nello stesso periodo in cui apriva vertenze contro i propri lavoratori dei call center, minacciando ben 2500 licenziamenti, ha continuato a ricevere svariati milioni di euro per acquisire dagli israeliani e aggiornare con i propri sistemi i radar utilizzati dalle forze militari della Nato. Sono per la precisione 2 milioni 624.939,26 euro, iva esclusa, i fondi pubblici erogati ad Almaviva con l’appalto del dicembre 2015. Il giro d’affari internazionale legato a sistemi elettronici militari, dunque, crea un seguito rispetto a quanto fu scritto nelle notizie del 2011. Non c’è stata alcuna gara d’appalto, l’unica offerta era quella di Almaviva spa, che ha agito in regime di concessione esclusiva, un sistema di origine fascista che ricorda il piano di ricostruzione di Ancona dell'imprenditore Edoardo Longarini. Il motivo per cui è stata scelta ancora una volta Almaviva spa viene riportato nelle righe successive dalla Guardia di Finanza, che motiva così il provvedimento: “La «Almaviva» SpA è l'unica in grado di realizzare il servizio in argomento, con i requisiti tecnici ed il grado di perfezione richiesti.” L'acquisto del materiale avviene grazie a un accordo stipulato da Almaviva con la ditta israeliana "Elta Systems ltd", che opera nell'attivissima industria bellica israeliana fin dal 1967, anno della guerra dei sei giorni. Nel 2003 presentò al salone aeronautico di Le Bourget un sofisticatissimo radar antimissile da un milione di dollari.

I soldi di Longarini sono dei contribuenti


I soldi di Longarini andrebbero restituiti ai contribuenti non al comune di Ancona. Il costruttore Edoardo Longarini negli anni ‘90 fu accusato e condannato dalla magistratura per aver fatto lievitare i costi del piano per la ricostruzione di Ancona, e per esserseli poi intascati lasciando strade e ponti incompiuti. Raccontava la storia in quel periodo sul Corriere della Sera il giornalista Mario Di Tullio, che è stato un mio collega al Resto del Carlino. Scrisse che lo Stato era stato derubato di 67 miliardi di vecchie lire. Il governo aveva scelto Longarini sulla base di una legge che risaliva al 1951, creata dalla DC per la ricostruzione post-bellica di varie zone d’Italia colpite dai bombardamenti. Il progetto veniva assegnato in esclusiva, senza un appalto pubblico, sulla base di un istituto, quello della concessione, che risaliva ai tempi di Mussolini: al 1929. Longarini avrebbe dovuto rimettere in piedi zone di Ancona che dopo i bombardamenti del 1944 avevano subito anche un terremoto (nel 1972) e una frana (nel 1982). Ma concluse poco o niente, come gli anconetani sanno. A rimetterci a quel punto furono tutti gli italiani, a cui con la legge 317 del 1993 vennero chiesti attraverso un aumento della pressione fiscale i fondi necessari al rifinanziamento dei progetti. Questi ultimi chiaramente furono sottratti alla Adriatica Costruzioni di Longarini e finalmente assegnati ad altre ditte mediante appalto. Enrico Marro del Corriere della Sera scrisse che i contribuenti avrebbero pagato altri 230 miliardi di vecchie lire per completare dopo ben 50 anni la ricostruzione post-bellica di Ancona, Macerata e Ariano Irpino. Eppure una recente sentenza del tribunale di primo grado ha assegnato gli oneri per la mancata ricostruzione soltanto al comune di Ancona, che ha già pianificato di utilizzare quei fondi per la sistemazione delle infrastrutture cittadine. Tutto ciò non basta, poiché i costi per completare le strade di Ancona, non esistendo il federalismo fiscale che reclama la Lega Nord, furono spalmati dal Parlamento su tutte le Regioni.

mercoledì 13 settembre 2017

Il terrorismo islamico ha origini socialiste


E' giusto attribuire le colpe del terrorismo islamico alla religione di Maometto? Sono diversi mesi che sui giornali italiani si leggono editoriali che invitano la gente a non accogliere i musulmani, perché sarebbero pericolosi per la società. La campagna denigratoria di questo gruppo etnico, oltre a scontrarsi con la Carta dei diritti umani dell'Unione Europea, che è vincolante dal 2009 con l'approvazione del Trattato di Lisbona, e che sancisce la libertà di culto, non ha alcun fondamento nemmeno nella storia. Delle origini del terrorismo islamico parlò in tempi non sospetti, quando il fenomeno era sconosciuto, lo storico delle relazioni internazionali Ennio Di Nolfo. Tutto nacque con l'affermarsi in Siria e poi nel resto del mondo arabo del partito Baath, il quale propugnava una forma giacobina e 'spirituale' di socialismo, che dapprima entrò in conflitto con il mondo comunista dei sovietici, quindi si avvicinò progressivamente verso forme estreme simili al nazionalsocialismo di Hitler. Per Di Nolfo il Baath, da cui proveniva anche Saddam Hussein, era il "partito della resurrezione", "il cui principale teorico, il siriano Michel Aflaq, aveva cercato di miscelare elementi di panarabismo con motivi di ispirazione islamica e di riforma sociale come programma di un partito delle classi medie (e dei militari) siriani e poi, con gli opportuni adattamenti, di altre parti del mondo arabo." In Egitto il tentativo di fondere il partito Baath con il regime di Nasser, che era vicino ai russi e orientato verso un socialismo laico e nazionalista, fallì. Di Nolfo afferma anche che gli sciiti, cioè gli iraniani, erano i "campioni della lotta contro il privilegio e l'oppressione e quindi contro i detentori del potere", i sunniti al contrario, che rappresentano il 90% dell'universo islamico, "esaltano il valore del rispetto verso le autorità politico-religiose". Come potrebbe l'Isis, che viene considerato un gruppo sunnita, costituire un pericolo per le democrazie europee senza l'aiuto di qualche potenza occidentale?

lunedì 11 settembre 2017

Quando la Edison vendeva armi al Pakistan


C’è una vecchia storia che lega la Montedison, l’azienda poi indagata da Mani Pulite per la maxitangente Enimont, e il Pakistan, in un sodalizio finalizzato al traffico di armi. Lo scandalo scoppiò nell’ottobre del 1971 durante le indagini del magistrato Di Nicola su quella fornitura truffaldina di ricetrasmittenti militari orchestrata dalla vecchia Edison del presidente Giorgio Valerio, a metà degli anni Sessanta. La Edison vendette all’esercito italiano delle ricetrasmittenti spacciate per nuove, mentre invece erano riciclate da materiale delle seconda guerra mondiale di origine statunitense. Partirono le indagini che portarono a scoprire i fondi neri anche nella nuova Montedison, scatenando il primo processo terminato con delle assoluzioni. Ma intanto erano passati otto anni durante i quali era stata insabbiata la vicenda pakistana. Secondo uno dei tanti scoop di Giorgio Zicari del Corriere della Sera, la Edison aveva ottenuto nel 1967 la licenza per vendere materiale elettronico al Ministero della Difesa del Pakistan da una società americana, la “Davis Co.”. Aveva poi ceduto i diritti a due società del gruppo Scialotti, che era stato a sua volta assorbito dalla Edison. Le società si chiamavano “C.I.V.” e “Lampel”. Il Pakistan nel 1971 era finito sotto embargo per la guerra di liberazione bengalese, scoppiata nel marzo per liberare l’est pakistano, che divenne il Bangladesh. In Pakistan si formarono anche i primi guerriglieri mujaeddin, sostenuti dagli Stati Uniti, come reazione all’invasione russa dell’Afghanistan del dicembre 1979. E in Pakistan morì Osama Bin Laden, il 2 maggio 2011, nel corso di un’operazione dell’americana CIA. Il 1967 è molto lontano, eppure negli anni Ottanta il giudice Palermo aveva scoperto un traffico di armi molto simile che legava la Montedison al medioriente e all’Africa. Anche questa vicenda fu insabbiata. E' certo che il rapporto Montedison-Scialotti, con il nuovo nome di Elmer, proseguì fino a Mani Pulite, e così anche la vendita di armi.

giovedì 7 settembre 2017

La vendetta delle BR contro Dozier


Il 17 dicembre del 1981 un commando di brigatisti rapì a Verona il comandante della Nato per l’Europa meridionale James Lee Dozier. Si trattò probabilmente di una vendetta attuata due giorni dopo una sentenza che condannava i capi della cellula torinese Fiore e Acella a svariati anni di carcere, per aver trafugato un dossier dei carabinieri sulla base Nato di Vicenza. In questo dossier, ottenuto grazie a un carabiniere complice, si parlava anche dell’azione che portò alla morte ad Acqui Terme di Mara Cagol, la donna di Renato Curcio. Per la CIA comunque l’azione contro il comandante della Nato era stata programmata in un vertice tra Brigate Rosse e membri della tedesca RAF avvenuto in Svizzera, a Losanna, e poi in altri incontri a Milano, nel maggio di quello stesso anno, il 1981. Il servizio segreto statunitense, che seguì quelle vicende con attenzione, lo affermava in un telegramma conservato nell’archivio online del governo americano. Vi sono archiviati anche degli articoli di giornale secondo i quali la prigione padovana in cui Dozier fu trovato e liberato il 28 gennaio del 1982 fu svelata agli investigatori da un mafioso, un certo Restelli, che era in carcere a Milano. Il Viminale all’epoca smentì queste voci, di cui non furono trovate prove convincenti. Ciò che si può affermare con certezza è che nelle relazioni della CIA, pur di liberare il cittadino americano, veniva proposto anche di contattare la mafia per ottenere aiuto nelle ricerche.

sabato 2 settembre 2017

Carabinieri (di Gladio?) si esercitavano con gli israeliani

La "piovra" di Stato che sconfisse il terrorismo; fu poi accusata di nascondere Gladio

Il Gruppo Intervento Speciale dei carabinieri, noto con la sigla GIS, durante i primi anni Ottanta inviò dei membri selezionati a esercitarsi insieme all'antiterrorismo israeliano, al GSG-9 dell'ex Germania Ovest e con il SAS-22 britannico. Lo scopo era uno solo: sconfiggere le Brigate Rosse. Dopo il rapimento di Aldo Moro lo Stato italiano aveva lanciato una vasta offensiva, puntando in particolare su unità operative speciali, tra le quali figuravano i GIS dei carabinieri e i NOCS della polizia di Stato. Questi militari sostenevano delle dure esercitazioni fisiche, che prevedevano anche combattimenti corpo a corpo, assalti e recupero dei prigionieri, l'uso di vari di tipi di arma, ed esercitazioni psicologiche. Erano tutti molto giovani, dai venti a trent'anni, e, dati i rischi delle missioni, non potevano operare per più di quattro anni, dopo i quali i reparti attuavano il turn-over, un ricambio generazionale. Alcuni anni dopo una commissione parlamentare accosterà, direi giustamente, questi reparti operativi delle forze dell'ordine all'organizzazione segreta di Gladio-Stay Behind. Le notizie che vi abbiamo riportato sui GIS e sui NOCS vennero raccolte in un dossier della CIA datato maggio 1984 e intitolato: “Italian counterterrorism: policies and capabilities”, “Anti-terrorismo italiano - politiche e capacità”. Si tratta di un resoconto dell'attività di contrasto al terrorismo italiano condotta dal governo di centrosinistra dell'epoca. Secondo questo rapporto di intelligence erano stati raggiunti importanti risultati grazie alla riorganizzazione dell'anti-terrorismo italiano in un sistema gerarchico repressivo, in mano ai servizi segreti, che rendeva marginale il ruolo della magistratura.

mercoledì 23 agosto 2017

Un’autobomba pronta in via Fani nel 1978



La scena del crimine in via Fani il 16 marzo del 1978 (foto Ansa in pubblico dominio). Con la scritta in basso abbiamo indicato la Mini Cooper con la bomba.

Una bomba “devastante” era pronta a esplodere in via Fani, il 16 marzo del 1978, dopo il sequestro del presidente Aldo Moro. Lo scoop fu del settimanale L’Europeo, che andò in edicola quattro giorni dopo la strage con un’inchiesta sconvolgente. Ma la notizia diventa ancora più sconcertante se riscoperta nel 2017. Una bomba che avrebbe potuto uccidere centinaia di persone, fra cui magistrati, poliziotti, carabinieri, mentre eseguivano i rilievi in via Mario Fani, era stata piazzata su una Mini Cooper verde con il tettuccio nero. I terroristi avrebbero dovuto azionarla per mezzo di un telecomando a distanza, proprio come avvenne nel 1992 con gli attentati ai magistrati Falcone e Borsellino. La stessa dinamica. Perché non lo fecero ce lo spiega un documento della Stasi, la polizia politica dell’ex Germania Est, grazie alla quale il progetto criminale riemerge dall’insabbiamento. “Come una distrazione per la polizia, i colpevoli avevano parcheggiato una macchina con una bomba a orologeria con detonatore vicino alla scena del crimine.” Da Wikimedia Commons si può scaricare un’immagine in pubblico dominio nella quale si nota la macchina incriminata, in una visuale inedita dall’alto. Era stata parcheggiata sul lato opposto della strada, di fronte alle auto crivellate di colpi. Mentre avvenivano i rilievi, c’erano due carabinieri piazzati al suo fianco. Gli inquirenti smentirono quasi subito queste voci, ma furono smentite "con una categoricità fin troppo sospetta”, scriveva il Corriere della Sera il 20 marzo, il quale considerava depistaggi invece le notizie secondo cui i rapitori avrebbero usato armi sovietiche.

venerdì 18 agosto 2017

“Il terrorismo islamico? E’ sostenuto dalla destra”


In un reportage di M. Antonietta Calabrò del febbraio 2001 si parlava sul Corriere della Sera dei fiancheggiatori di Osama, lo sceicco del terrore, quando ancora le sue gesta deprecabili erano appena agli inizi. I servizi segreti tedeschi del Bnd, quelli che una volta lavoravano al “cervellone” di Wiesbaden nella ex Germania Ovest, avevano lanciato un allarme rosso per il G8 di Genova, sostenendo che “Bin Laden, il king maker del terrorismo islamico, avrebbe iniziato a finanziare gruppi di naziskin in tutta Europa, affinché essi possano portare a compimento attentati e azioni violente nel nostro paese durante il vertice dei capi di Stato e di governo che si svolgerà tra cinque mesi nel capoluogo ligure.” La giornalista Calabrò interpretava queste notizie, che arrivavano a margine di un convegno sul futuro dell’antiterrorismo, come l’indizio chiave che all’interno dei "No global", ve li ricordate? allora andavano tanto di moda, ossia “sullo spontaneismo dei contestatori della globalizzazione” si stava inserendo “chi vuole ottenere una platea globale per qualche atto clamoroso”. A sostenere questa tesi c’erano nomi illustri del nostro sistema giudiziario e parlamentare, i quali ora fingono di dimenticarsi di queste parole e non sanno trovare una soluzione al fenomeno del terrorismo islamico.

martedì 15 agosto 2017

Dissidenti sovietici e migranti traditi dall’Italia


Il 26 dicembre del 1969 vi fu sull'Autosole, tra Roma e Firenze, un inconsueto incidente che vide coinvolto Arkady Belinkov, uno scrittore dissidente russo che nel 1968 era “evaso dall’inferno” dei paesi socialisti ed emigrato negli Stati Uniti. Dopo il Natale del 1969 si trovava in Italia con la moglie per un ciclo di conferenze. Sarebbe stato inseguito e tamponato dai servizi segreti russi del KGB, che lo cercavano per ucciderlo. Il Corriere della Sera nella stessa pagina nella quale dava spazio, come fece Araldi nel suo libro, alle parole del dissidente, dimostrò il 10 gennaio del 1970 che la ricostruzione non reggeva affatto. Un incidente c’era stato, intorno alle 17 del 26 dicembre 1969, ma la moglie di Belinkov, Natalia, ai poliziotti della stradale aveva raccontato che la loro DAF era andata a sbattere da sola contro il muretto. “Non so perché mio marito abbia frenato improvvisamente - raccontò la donna al Corriere -. Ero seduta al suo fianco e non mi sono accorta di nulla.” Non certo più semplice fu la vita di altri profughi che, come in questi anni avviene con le navi cariche di disperati del Terzo Mondo, si recavano alla questura italiana per chiedere asilo politico. Venivano spediti nel campo profughi di Padriciano, vicino Trieste, ad attendere che le pratiche burocratiche venissero condotte a termine. Ma a Padriciano mancava veramente poco perché fosse definita una prigione. In un documento, intitolato “United States Government support of covert action directed at the Soviet Union”, “Supporto del governo degli Stati Uniti all’azione segreta diretta all’Unione Sovietica”, apprendiamo che negli anni Sessanta erano attive diverse forme di propaganda politica degli americani nell’est Europa per supportare i dissidenti. “Interrompere il programma per evitare che l’URSS ci accusi? Sarebbe inutile e dannoso”, concludeva la CIA, che sicuramente continuò a pubblicare i testi dei dissidenti per molti anni ancora.

sabato 12 agosto 2017

“Togliatti provocò la morte di Gramsci”


Palmiro Togliatti cercò di isolare Gramsci, il suo grande rivale nel Partito Comunista, e ci riuscì a tal punto che anche in carcere Gramsci morì solo e malato. Questa storia che vi ho appena accennato ci riporta indietro di parecchi decenni, ed è il frutto di un duro lavoro di copiatura e traduzione di un nuovo dossier tedesco della Stasi. In questo caso parliamo del fascicolo MfS HA XXII 18613. I paesi socialisti furono molto critici con il Partito Comunista Italiano. Gramsci, stando a questa ricostruzione, era contrario alla linea tracciata dal PCUS, il partito comunista di Mosca. Chiedeva “più indipendenza per i partiti comunisti dalla politica del partito comunista della Russia.” “Durante la 2^ guerra mondiale, Garatschi (Gramsci ndr.) fu imprigionato con un gran numero di membri del partito. I membri restanti dell’esecutivo andarono in Francia. Si formò una leadership in esilio. G. fu esonerato da tutti i suoi poteri, e iniziò una vasta campagna di adulterazione contro G., in modo che si riuscisse ad isolarlo completamente. Questo isolamento è riuscito persino in prigione, di modo che G. è morto malato. Il capo di questa campagna è stato Palmiro Togliatti. Egli è estremista comunista nel suo punto di vista. Egli è il primo a falsificare il comunismo, superando anche Hartschow.”

venerdì 11 agosto 2017

“Due cardinali guidano le BR”, ma era una truffa


Tra le prove che venivano portate dalla Stasi alla tesi della matrice di destra delle Brigate Rosse c’era il caso di un brigatista pentito, che negli anni Settanta avrebbe fatto confessioni di grande rilevanza, coinvolgendo nel terrorismo la DC e il Vaticano. In realtà, si trattava di una volgare truffa e molto probabilmente avevano ragione i giudici, che, almeno in primo grado (poi il giornalista fu assolto, mentre venne confermata la condanna del mitomane) condannarono il giornalista Viglione e i suoi complici ad alcuni anni di galera. Pasquale Frezza, un pregiudicato che già alla fine degli anni Sessanta aveva provato a depistare un altro delitto molto famoso, il caso Fenaroli, si era spacciato per brigatista rosso, mentre Aldo Moro era ancora vivo nel covo BR di via Montalcini e, grazie agli spazi che l’allora giornalista di Radio Montecarlo, Ernesto Viglione, gli concesse, riuscì a imbastire una truffa con tanto di estorsione. Il Frezza, che di professione aveva fatto il piastrellista ma era finito anche in manicomio, sosteneva di essere un ex brigatista pentito, e disse che in cambio di parecchi milioni avrebbe permesso alla giustizia di far arrestare i colpevoli. Moro nel frattempo venne trovato morto, ma l’impianto accusatorio di Frezza e Viglione continuò a tenere banco sui giornali per parecchio tempo.

martedì 8 agosto 2017

Voci in Vaticano: “Aldo Moro era malato di cancro”


Aldo Moro prima di essere sequestrato dalle Brigate Rosse in via Fani, il 16 marzo del 1978, sapeva di essere malato di cancro alla gola. I medici gli avevano diagnosticato poche settimane di vita. Sono le voci che la Stasi raccolse in quel periodo in Vaticano tramite un proprio infiltrato, che probabilmente si chiamava generale Otto. Il rapporto spionistico è sempre quello nel quale vennero ipotizzate le cause della morte di Giovanni Paolo Primo, datato 18 ottobre 1978. Il suo nome, nel codice che gli è stato assegnato dall’archivio di Berlino della Stasi, è il seguente: Mfs HA XX 13332. A pagina nove c’è un breve paragrafo intitolato: “Le opinioni in Vaticano per la morte di Aldo Moro”. Il presidente DC, già gravemente malato, sarebbe stato ucciso in un rapimento organizzato dalla Democrazia Cristiana. Parecchi circoli del Vaticano avrebbero parlato di accordi tra le alte autorità del Vaticano e la Democrazia Cristiana, che sarebbero state a conoscenza di un progetto per rapire Moro. Il movente del delitto starebbe, secondo queste indiscrezioni, nella politica senza via d’uscita in cui la Democrazia Cristiana si era avviata: non poteva far altro che collaborare con il Partito Comunista. Il sacrificio di Moro avrebbe invece offerto un evento sensazionale grazie al quale “guadagnare prestigio nella popolazione” e interrompere il Compromesso Storico.

sabato 5 agosto 2017

Papa Luciani, una morte "causata dai cardinali"


Papa Giovanni Paolo primo non appoggiava la democrazia cristiana e per questo sarebbe stato sovraccaricato di lavoro dai cardinali a tal punto da provocarne la morte. E' il contenuto di un'informativa della Stasi che fu redatta il 18 ottobre 1978 grazie alla presenza di agenti segreti infiltrati in Vaticano. Albino Luciani fu proclamato Papa il 26 agosto del 1978. Morì di infarto il 28 settembre dello stesso anno. Fu uno dei pontificati più brevi della storia. In quegli anni non erano i soldi della banca dello Ior, stando a questo breve dossier dell'ex Germania Est, a preoccupare i prelati, bensì i rapporti con i paesi socialisti, i quali premevano per ottenere un riconoscimento politico. Papa Luciani non voleva sostenere la DC. "Voleva essere il pastore di anime della Chiesa universale, in contrasto con la maggioranza dei Vescovi e Cardinali italiani, che erano strettamente legati alla DC." A questo punto, stando a queste accuse, che leggiamo in una traduzione buona ma non perfetta dal tedesco, alcuni esponenti della Curia si sarebbero comportati in modo scorretto. "I capi delle congregazioni vaticane (ministeri) non hanno dato alcun sostegno al Papa. Lo hanno inondato con i problemi e lo hanno esortato a prendere decisioni su questioni su cui non poteva avere alcuna competenza." "La voce, in Vaticano, è che la morte del Papa Giovanni Paolo I sia stata dal sopraccarico deliberatamente causato dai Cardinali della Curia. Questo è anche il parere del Monsignor PANGRAZIO. La famiglia del defunto, nonché alcuni Cardinali, hanno chiesto l'autopsia del cadavere che è stata respinta dalla Curia." Di qui i tanti dubbi sulle reali cause della morte.

mercoledì 2 agosto 2017

Spunta un patto tra l'Italia e i terroristi armeni


Nel 2017 in Russia sono stati celebrati i 40 anni dagli attentati di Mosca. L’8 gennaio del 1977 una serie di bombe lasciate nella metropolitana aveva provocato sette morti e decine di feriti. La notizia uscì sui giornali solo nel mese di febbraio. Altri ordigni furono trovati a Mosca nel mese di novembre, sempre del 1977. Si può dire che fu un periodo denso di attacchi terroristici. Il Kgb condusse un’indagine, che si concluse con tre colpevoli. Erano nazionalisti armeni, armati di ideologie separatiste come i ceceni degli anni ‘90. Il tribunale condannò questi terroristi alla pena capitale, ma la loro morte fu letta dai dissidenti come un depistaggio. Secondo questi ultimi il Kgb avrebbe architettato da solo gli attacchi alla metro come provocazione. Eppure non si può escludere che vi fosse lo zampino dei servizi segreti occidentali. Nel gennaio del 1984 l’americana Cia redasse un rapporto sul terrorismo armeno nel quale denunciava dei legami tra il governo italiano e i terroristi armeni.  E non solo, si parlava anche di complicità francesi. Si intitolava: “The Armenia Secret Army for the Liberation of Armenia: a continuing international threat”, ossia “L’esercito segreto per la liberazione dell’Armenia, una continua minaccia internazionale”. Gli anni in cui questo avvenne sono la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta. Sembra che per evitare che i nazionalisti armeni colpissero obiettivi in Italia il governo democristiano dell’epoca cercò di accontentare questi criminali, i quali chiedevano che venissero interrotti i flussi di emigrazione degli armeni verso l’URSS. L'Italia tuttavia mutò solo il nome delle agenzie che si occupavano degli emigranti armeni, ma ciò fu sufficiente per non subire più attacchi come quello del 22 dicembre 1979. Quelngiorno, scrive il dossier della Cia, a Roma una pensione che ospitava dei migranti armeni venne attaccata da un gruppo terroristico. L'accordo fu concluso nel febbraio del 1982, quando venne annunciato che i terroristi armeni non avrebbero più compiuto attacchi in Italia se non su obiettivi turchi. In cambio entro sei mesi il nostro governo avrebbe dovuto chiudere tutti gli uffici per l'emigrazione. Ma come abbiamo visto i democristiani escogitarono una via d'uscita meno umiliante. Questo dossier della Cia è stato desegretato il 30 aprile del 2013.

lunedì 24 luglio 2017

Renato Curcio, quel terrorista del 'fascismo rosso'


Tempo fa avevo letto sul sito umanitanova.org un bellissimo e lunghissimo articolo sul fascismo che negli anni '60 'si tingeva di rosso'. Vi si analizzava una tendenza socialisteggiante e populista di una parte della destra europea che si identificava nell'ideologo belga Jean Francois Thiriart. Mai avrei pensato che questa potesse essere la matrice politica del nostro terrorismo degli anni di piombo. Eppure può essere la chiave che apre una serie di porte verso la vera storia d'Italia. Nelle informative dell'intelligence della Stasi, il servizio segreto della DDR, la ex Germania Est comunista, si parla con insistenza di un doppio volto del fondatore delle Brigate Rosse, Renato Curcio, che sarebbe cresciuto come membro di 'Ordine Nuovo' per poi essere inviato dai servizi segreti del Patto Atlantico a Trento, a fondare un nucleo terroristico "travestito" da forza politica di estrema sinistra. Cercando Curcio su Wikipedia si trovano effettivamente delle conferme: "Ad Albenga milita dapprima nel gruppo "Giovane nazione", quindi in "Giovane Europa", due piccole organizzazioni che riprendono le tesi nazional-socialiste di Jean Thiriart. Curcio viene anche citato come capo della sezione di Albenga e celebrato il suo zelo militante nella Rivista "Giovane Nazione". 


giovedì 29 giugno 2017

La polizia giudiziaria non esiste


Ho scritto un titolo provocatorio per far capire ai miei lettori che c’è qualcosa che non va nell’attività giudiziaria italiana. La polizia giudiziaria esiste, ma nei libri non viene affatto identificata come una categoria autonoma. Chi si nasconde dunque dietro questo nome che sentiamo spesso nei grandi processi nazionali? Secondo la legge, la polizia giudiziaria è formata dalle stesse persone che possono fermare i cittadini per strada per una multa: poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili urbani, agenti di custodia e guardie della Provincia. Tutti i corpi di polizia che esistono nella nostra nazione sono complessivamente classificati come polizia giudiziaria.
E’ bene sottolinearlo perché molte persone che vogliono denunciare qualcosa devono pretendere che ciò avvenga in tutte le stazioni di polizia o dei carabinieri o delle finanza. Poi vi sarà chiaro perché faccio questa precisazione.
Il libro un po’ datato ma sempre utile “La legge è con noi” afferma che la Polizia Giudiziaria è formata da due categorie di persone: gli ufficiali con funzioni direttive e gli agenti con funzioni esecutive. Gli ufficiali di polizia giudiziaria sono i graduati delle varie “forze pubbliche” (si chiamano anche così), gli agenti sono tutti gli altri. Anche i sindaci dei comuni in cui non vi siano ufficiali di polizia giudiziaria possono assolvere questa funzione.
Ma allora perché in Italia i notiziari parlano di polizia giudiziaria come di un corpo estraneo? Sul sito Ilvelino.it c’è ad esempio un articolo molto ben scritto nel quale, oltre ai nomi degli indagati della camorra, viene riportata la seguente frase: “Apporto importante alle indagini, svolte dal Commissariato di Scampia, emerge soprattutto dalle indagini tecniche e dagli accertamenti operati dalla Polizia Giudiziaria”. Cosa vuol dire tutto ciò? Una volta mi è capitato mentre mi trovavo nella redazione di un giornale per scrivere un articolo di dover aprire la porta, perché ero lì davanti mentre bussarono. Mi si presentò una donna con i capelli lunghissimi neri legati a forma di coda di cavallo. Vestiva un completo blue jeans, eppure si qualificò come agente di polizia giudiziaria. Doveva perquisire l’ufficio di un giornalista. Un fatto grave. Ma a quale corpo di polizia apparteneva?
Per capirlo occorre leggere il sito della procura di Torino. Vi è scritto che “Presso ogni Procura della Repubblica è costituita una Sezione di Polizia Giudiziaria composta da personale appartenente alle varie Forze di Polizia.” Quindi ciò significa che le indagini che vedete in televisione, quelle importanti, avvengono partendo non da una qualsiasi caserma di polizia, bensì da un ufficio di poliziotti scelti dalla procura, ed esclusi da altri compiti. Specificano infatti i signori del tribunale: “Gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che appartengono alla sezione sono alla dipendenza permanente, diretta e funzionale del Procuratore della Repubblica - che dirige la sezione e ne coordina l'attività - e svolgono per lui e per i magistrati della Procura tutte le attività di volta in volta loro delegate.” E ancora: “Gli appartenenti alla sezione non possono essere distolti dall'attività di polizia giudiziaria se non in casi eccezionali e per disposizione o con il consenso del Procuratore della Repubblica.” Molto chiaro, mi sembra. Si tratta proprio di un corpo scelto, nel quale secondo l’enciclopedia Wikipedia vengono inseriti anche altri cittadini, probabilmente per carenza di personale, ovvero “alcuni soggetti in servizio presso la pubblica amministrazione italiana, e in taluni casi anche privati cittadini, nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge”. Qual è il problema che sorge a questo punto? Che tutte le caserme d’Italia non comunicano direttamente con il magistrato, e dunque verrebbe meno l’obbligo di legge di denunciare i reati all'autorità giudiziaria. Infatti il libro “La legge è con noi” spiega bene la polivalenza del lavoro in polizia: si è da una parte forza pubblica, e dall’altra polizia giudiziaria. Ovunque. Cito testualmente: "Il carabiniere o l'agente che staziona dinanzi a una banca con l'incarico generico di sorvegliare, svolge attività di polizia di sicurezza; quello stesso carabiniere o agente di P.S. se poi arresta o insegue la persona che si è introdotta nella banca per commettere una rapina, svolge un'attività di polizia giudiziaria". Quindi dubbi non ce ne possono essere. La legge mi pare che sia rimasta identica.
Cosa fanno allora tutti gli altri? Qualcuno su Facebook mi ha scritto: “proteggono i politici”. Io mi auguro che facciano anche qualcos’altro. Sicuramente suona molto strano che sul sito dei carabinieri e su quello della polizia compaiano le solite notizie senza nomi dei protagonisti, dunque inutili a livello giornalistico, di piccole operazioni contro la malavita. Intanto perché diventa superfluo leggere i giornali se questi sono fatti con il copia e incolla di avvenimenti presenti sui siti della “forza pubblica”. Ma ancora più grave è il fatto che queste notizie siano contrassegnate dal nome del Ministero della Difesa, per i Carabinieri, e del Ministero dell’Interno per la Polizia. E’ chiaro a tutti che il Ministero della Difesa e il Ministero dell’Interno hanno altro a cui pensare che inviare notizie ai giornali o alle agenzie di stampa. Giusto? E allora cosa fanno se non rispondono al Ministero della Giustizia? Nulla? E’ una domanda che mi piacerebbe porre a una prossima conferenza stampa. Ma temo proprio che non sarò un inviato gradito.
A me non piace parlare della mia vita personale, però quando sono vittima di qualche reato (non considero nemmeno l'ipotesi di esserne colpevole) sono pur sempre un cronista che deve raccontare i fatti. E allora forse oggi ho una risposta alla domanda che mi ponevo da tempo: perché quando entro in una caserma per denunciare le illegalità che subisco, e me ne succedono tante e gravi di cose, non si attiva mai nessuna procedura? Mi dispiace che questa risposta sia stato costretto a trovarmela da solo.

martedì 27 giugno 2017

Novara, continuano le intimidazioni


Si è ripetuta la scena del messo del tribunale. Dell'ufficiale giudiziario in borghese che, allegramente, mi consegna un foglio (l'altra volta nel 2010 era un gruppo di fogli), nel quale ci sono sempre sgradite sorprese. Nel 2010 un amministratore di condominio mi aveva inviato un'ingiunzione di pagamento senza permettermi di andare in causa. Si trattava di spese che gravavano sul precedente proprietario del mio immobile, ma che lui pretendeva da me, con telefonate, raccomandate, minacce. E senza spiegazioni. Mi fecero avere una condanna civile lampo, con annesse spese legali per 2000 euro, senza che avessi visto il tribunale e senza una riunione condominiale per la mia messa in mora. E per ottenere qualcosa, visto che stentavo a credere in questa giustizia sommaria, arrivarono dei vigili urbani armati. E adesso? L'altro giorno una signora mi ha consegnato un foglio in cui c'è scritto che sono imputato, già imputato, senza preavviso, senza essere stato convocato, senza informazioni sull'avvio delle indagini. Dovrei essere processato per diffamazione. Perché un dirigente scolastico non ha gradito alcuni passaggi di due miei post in cui raccontavo dei gravissimi fatti accaduti in una scuola pubblica. E quindi aveva il diritto di rovinarmi la reputazione così? Ancora una volta una persona decide di farsi giustizia da sola, sbagliando di grosso anche sulle sue accuse. Perché mi sono informato e, non solo non ho mai citato l'uomo e non l'ho umiliato con epiteti (cosa che invece verso di me si ripete da anni), ma non sussisterebbe comunque l'accusa di diffamazione nel caso in cui si risponda a un'offesa, a una provocazione (e ne subisco parecchie), oppure se si è un cronista e si svolge il proprio mestiere di raccontare dei fatti. 
Direi che i fatti erano sotto gli occhi di tutti già con il primo post. Inutile commentare ancora. In certe scuole ci sono pressioni inaccettabili di genitori e di dirigenti. A me questo del processo di Kafka (perché è quello) è sembrato subito uno stupido scherzo, poiché conosco perfettamente la prassi giuridica del processo penale per essermene occupato su questo blog negli anni scorsi. Il vero problema sono le reazioni delle forze dell'ordine, le quali mi danno l'impressione, se non di partecipare alle intimidazioni che ricevo, comunque di preferire che il ricatto prosegua. Perché le cose non si sistemeranno di sicuro da sole. A uno dei numeri di emergenza delle forze dell'ordine mi hanno detto una cosa di una gravità estrema: che questa persona avrebbe, uso il condizionale, pagato un avvocato per farmi diventare imputato in un processo penale. E in questo modo. Giustizia a pagamento? A quanto si vende al chilo una denuncia per diffamazione? E una per truffa? E una per stalking? Non ho proprio parole. Sono andato in una caserma e mi sono proprio trovato a disagio. Alcuni militari cercavano visibilmente la rissa verbale. Volevano aggiungere, già che c'erano, qualche altra accusa? Eppoi erano militari anche strani, con una camminata tutt'altro che cadenzata. Molto poco militari e per niente conoscitori e tutori della legge. Non so, a me sembra un muro di gomma simile al caso Ustica. Solo che io sono un cittadino qualunque, in questo caso, anche se scrivo, la gente mi legge e compra qualche volta i miei libri di attualità. Ho inviato e-mail di protesta a tutte le autorità. Non ha risposto nessuno. Solo silenzio. Mi domando con quale spirito questi signori vadano a casa, sapendo che una persona vive nell'ansia anche per colpa loro. Se succede qualcosa dovrò cavarmela da solo. Perché sono solo, purtroppo. Posso soltanto parlare con questo blog. E forse si accaniscono per questo.