giovedì 27 settembre 2018

Le “convergenze parallele” tra mafia e terrorismo


Mafia americana e Mario Foligni, Mario Foligni e Gheddafi, Gheddafi e terrorismo, terrorismo e mafia. Un intreccio che sembra non avere una logica. Mette uno contro l’altro, ma anche tutti dalla stessa parte. Questa diventa nella mia ricostruzione la storia del terrorismo italiano degli anni di Piombo. Forse è un dato oggettivo, non vale solo per me. Non a caso manca tuttora una storia completa di questo periodo storico così intricato, complesso, sfuggente, denso di inchieste giudiziarie infinite e di segreti di Stato.
E’ la trasversalità di cui parlavamo, che secondo me ha fatto saltare sia le indagini dei servizi segreti comunisti, che cercavano invano prove contro la Nato per il terrorismo in Italia, sia le ricostruzioni giornalistiche così documentate dei giornalisti occidentali.
Ma chi è Mario Foligni? si chiederà il lettore più giovane del mio blog. Foligni era un personaggio secondario della politica italiana degli anni ‘70, ma che comparve in molte delle inchieste più imbarazzanti di quel periodo. Diede persino il nome al famoso dossier dei servizi segreti italiani, il Mi.Fo.Biali, che il giornalista Mino Pecorelli pubblicava a puntate sul suo OP. Sappiamo già che Foligni cercava nel 1975 di fondare un nuovo partito di centro-sinistra, per fare opposizione alla Democrazia Cristiana. Ma lo faceva utilizzando del denaro ricavato da accordi segreti con il colonnello Gheddafi: petrolio a basso costo in cambio di radar della Nato. I servizi sospettavano che Foligni fosse un agente del KGB. La loro inchiesta Mi.Fo.Biali, che oggi è online e chi scrive l’ha letta integralmente, era scottante per tante ragioni. Non solo per le dilaganti abitudini spionistiche che emersero nell’ambiente politico, ma anche per la presenza, nelle intercettazioni, di dialoghi non proprio edificanti per la Guardia di Finanza: il comandante piduista Raffaele Giudice e certi suoi uomini fidati chiudevano un occhio sulle indagini in cambio di mazzette. Ma forse il dossier è inquietante anche per altri motivi. Nel giro di Foligni e Giudice comparivano, sebbene piuttosto defilati, Aldo Moro e il generale dell’antiterrorismo, Enrico Galvaligi.
Ma il fenomeno Foligni non si esauriva qui. Eccolo infatti protagonista pure nel libro di Richard Hammer “The Vatican connection”. Fu il tramite di un traffico molto consistente di titoli bancari falsi che il Vaticano acquistò dalla mafia americana, nell’autunno del 1971, per coprire le voragini che si stavano aprendo nelle sue finanze. La causa di questo impellente bisogno di denaro della Santa Sede erano gli investimenti spericolati del cardinale Paul Marcinkus e del suo amico Michele Sindona. Siamo ancora nell’ambiente piduistico, eppure è fin troppo evidente che in questa storia parliamo di una P2 che pende decisamente verso sinistra. La polizia americana scoprì, infatti, nei suoi pedinamenti che il principale complice di Mario Foligni, il giorno in cui il Vaticano acquistò i titoli falsi dai mafiosi, fu Alfio Marchini, imprenditore di area comunista. Era il nonno dell’Alfio Marchini che nel 1994 fu eletto durante il primo governo Berlusconi nel consiglio di amministrazione della Rai, e che fondò l’azienda di call center E-Care, della quale è stato fino a poco tempo fa il principale azionista. Un’azienda che è molto contestata per i frequenti licenziamenti.
L’incontro tra la mafia americana e gli emissari del Vaticano, ossia Foligni e il suo amico Alfio Marchini, avvenne a settembre del 1971 all’hotel Leonardo Da Vinci di Roma, nell’appartamento di Marchini. C’era anche il figlio, Sandro Marchini, forse padre dello stesso Alfio Marchini, che Berlusconi ha poi appoggiato nella campagna elettorale per il comune di Roma del 2016. Nell’appartamento di Marchini furono verificati i certificati bancari alla presenza di un notaio ignaro della frode. Anche i Marchini erano ignari di tutto? Lasciamo pure il dubbio, anche se Foligni divenne poi reo confesso, e se la cavò solo per la sua collaborazione con la polizia statunitense. Usò i Marchini per farsi scudo della loro fama e cercare così di aggirare i controlli bancari. Hammer chiude il suo libro spiegando che, nonostante gli arresti e le condanne, probabilmente l’affare multimilionario per la cessione dei titoli falsi al Vaticano andò in porto, e fu la causa del crac Sindona e dell’Ambrosiano. I titoli contraffatti, in pratica, venivano usati come garanzia per chiedere prestiti alle banche. Tanti miliardi furono fatti circolare senza una reale copertura.
Il boss mafioso italo-americano che gestì da dietro le quinte lo smercio si chiamava Vincent Rizzo, ed era di New York. Un suo uomo, William Arico, divenne famoso pochi anni dopo per l’omicidio del giudice Giorgio Ambrosoli, che delle trame oscure di Sindona stava ricostruendo molti segreti. Ma era solo, poveretto. L’Italia non collaborava alle indagini sui titoli falsi, si lamentava Hammer nel suo libro. “The Vatican connection” è un’inchiesta molto interessante. Si tratta di un resoconto delle indagini e delle intercettazioni dell’indomito poliziotto statunitense, Joe Coffey. Quindi un documento molto affidabile, non certo la solita sparata sul Vaticano.
Fin qui la mafia americana. Ma Foligni era amico anche di Gheddafi, e quest’ultimo era il mandante del terrorismo palestinese. Stiamo arrivando dunque anche sulle tracce dei terroristi di sinistra. Inevitabilmente. Un bellissimo articolo di Vincenzo Tessadori uscito sulla Stampa il 19 aprile del 1977 aveva un titolo che imboccava proprio questa pista: “Le Brigate Rosse ed i Nap si servono della mafia per riciclare le banconote sporche dei rapimenti”. Quali prove c’erano per affermarlo? Secondo Tessadori gli inquirenti erano finiti sui sequestri delle Brigate Rosse seguendo criminali comuni o uomini d’onore. Tra questi ultimi c’erano i fratelli Antonio e Giuseppe Calabrò, membri della Ndrangheta calabrese. La polizia riteneva che Antonio Calabrò fosse molto simile all’identikit che un testimone aveva fatto disegnare su uno dei terroristi che avevano rapito l’armatore Pietro Costa. Non solo. Nel corso della perquisizione, nella casa dei due fratelli, furono trovate delle banconote e una era sicuramente parte del riscatto pagato per liberare Costa. Un altro indizio del rapporto mafia-Brigate Rosse consisteva in un altro ritrovamento di soldi pagati per un riscatto. I carabinieri, stando a quanto affermava Tessadori nel 1977, erano convinti che tra i sequestri da imputarsi ai brigatisti c’era anche quello dell’impresario edile Angelo Malabarba. Ebbene, cinque milioni di quel riscatto furono trovati in tasca a Nello Pernice, mafioso considerato erede di Luciano Liggio. Quel sequestro Malabarba fu poi considerato un sequestro della mafia. Tuttavia il libro di Alessandro Silj “Mai più senza fucile” rivelava altri indizi utili. Annamaria Mantini, sorella del nappista Luca Mantini, e pure lei divenuta una terrorista, a metà degli anni ‘70 lasciò Firenze per prendere un appartamento a Bovalino, che divenne il centro nevralgico dell’attività dei Nap. Perché? Perché proprio Bovalino?
In quella stessa zona svariati terreni erano di proprietà dei boss della Ndrangheta. Già il 24 aprile del 1977 il quotidiano La Stampa poteva titolare: “Al paese dei sequestratori, San Luca di Calabria esporta criminali al nord”. Era già il centro operativo della Ndrangheta. “Le montagne d’Aspromonte - proseguiva l’articolo di Clemente Granata - possono nascondere delinquenti e vittime.”
Quale distanza separava quindi mafia e terrorismo, se gli affari si intrecciavano così facilmente? Secondo i magistrati del 1977, Pomarici e Caselli, molto poca. Tra la criminalità degli anni di Piombo c’era grande collaborazione. Ma pochi chilometri dividevano pure San Luca e Bovalino dal monte Nardello. E qui bisogna inserire un nuovo protagonista, un fantasma che si è manifestato con la fine del comunismo. Quelle stesse montagne calabresi nascondevano due strategiche basi missilistiche della Nato: erano state posizionate sul Monte Nardello, appunto, in Aspromonte, e sul Monte Mancuso, più a nord, verso Catanzaro. Proprio qui, ma tu guarda che coincidenza, nel luglio del 1980 fu trovato il Mig 23 libico di Gheddafi, che, secondo lo scrittore Edouard Sablier, era in perlustrazione quando fu abbattuto per una vendetta contro le sfide che il Colonnello lanciava in quel periodo contro la Nato. Sablier dimentica che quel Mig, venendo colpito, forse provocò il contemporaneo inabissamento del DC-9 a Ustica.
Quel che è certo è che avvicinarsi alle basi del Monte Mancuso e del Monte Nardello era pericoloso. Quasi impossibile. Mi ha colpito molto un trafiletto della Stampa che fu pubblicato il 20 ottobre del 1982. I carabinieri che sorvegliavano la base del Monte Nardello avevano sparato “numerose raffiche di mitra contro uno sconosciuto che si era avvicinato all’ingresso della base, considerata una delle più importanti del mezzogiorno.” I carabinieri uscirono alla ricerca di questo incauto invasore insieme ai militari americani, in una sorta di gemellaggio certamente non previsto dalla nostra Costituzione. Pochi giorni prima in un altro episodio capitato sul Monte Mancuso si era parlato con decisione di pericolo terroristico per le basi Nato. Travestiti da militari della Nato, due uomini avevano cercato di compiere un attentato. I carabinieri prima spararono in aria, poi, scattato l’allarme, cercarono di colpire gli attentatori in fuga, mancandoli.
Il 1982 era l’anno del sequestro Dozier. Le Brigate Rosse avevano iniziato a minacciare non solo la democrazia italiana ma anche l’imperialismo americano. Come si spiega, allora, che diverse vittime dei sequestri della Ndrangheta furono nascoste, negli anni ‘70, esattamente a poche centinaia di metri dalla base del Monte Nardello? Lo testimoniano gli articoli del 1975 del quotidiano Gazzetta del sud, il quale descrivendo i sequestri di Paul Getty, Giuseppe D’Amico e Domenico Arecchi raccontava di consegne di denaro che avvenivano a breve distanza dalla base americana. Soldi con cui la Ndrangheta, secondo Wikipedia, costruì un intero quartiere di Bovalino, chiamato appunto “Paul Getty”.

sabato 22 settembre 2018

Caso Moro: la pista egiziana fu insabbiata


Il 27 aprile del 1978 i magistrati erano probabilmente a un passo dalla soluzione del caso Moro. Lo si scopre leggendo gli articoli del quotidiano La Stampa, il quale il 28 aprile, con lo statista democristiano ancora vivo, usciva con una notizia sensazionale: erano state trovate a Roma delle cassette postali con i piani per rapire Aldo Moro.
La scoperta fu possibile grazie all’operazione della giustizia egiziana condotta a termine il 25 aprile del 1978 dal procuratore Ibrahim El Kaliubi, che aveva sgominato una rete terroristica internazionale. Tra gli arrestati figuravano anche alcuni cittadini svizzeri, tra cui un giornalista ticinese, e degli arabi. La rete svizzera era nota con il nome di “Soccorso rosso elvetico” e si sosteneva che avesse dei contatti con le Brigate Rosse. Ma c’erano prove concrete. Ad esempio uno dei tre svizzeri, il giornalista ticinese S. M., arrestato al Cairo, aveva “denunciato” l’esistenza a Roma di una casella postale che testimoniava il collegamento con i gruppi che stavano tenendo prigioniero il presidente democristiano. Secondo l’articolo di Silvana Mazzocchi della Stampa, fu l’Interpol a comunicare alla polizia italiana il numero di questa cassetta. Fu aperta e perquisita. All’interno fu trovata un’agendina con delle informazioni in codice. Gli esperti avrebbero dovuto svelarne il contenuto, ma negli articoli successivi queste notizie furono smentite. Si parlò di informazioni di scarsa importanza contenute nelle cassette denunciate dal giornalista svizzero, e questo avvenne quando i magistrati come Imposimato furono costretti a fare le valigie e a programmare un viaggio al Cairo.
E pensare che nella casella postale la polizia aveva trovato un appunto che portava ad un’altra casella segreta. Si trovava nel quartiere Prati. E qui la prova c’era eccome: furono rinvenute lettere della colonna torinese delle Brigate Rosse. Documenti, specificava Silvana Mazzocchi, scritti anche in questo caso in codice. La Mazzocchi aggiungeva che secondo gli impiegati postali le cassette delle Brigate Rosse ebbero un traffico molto fitto nel periodo della strage di via Fani.   
C’era poi una seconda prova che portava le indagini al Cairo. I terroristi di via Fani usarono proiettili provenienti proprio dall’Egitto. Tecnicamente si chiamavano proiettili “Superfiocchi” quelli che furono usati per trucidare la scorta dell’onorevole Moro, in via Fani, il 16 marzo del 1978. Erano stati prodotti dalla ditta Fiocchi di Brescia ed erano stati spediti in Medio Oriente. Chissà, forse si trovavano all’interno di quel traffico di armi che fu scoperto anni dopo dal magistrato Carlo Palermo. Ma questi proiettili ritornarono indietro. Dall’Egitto questo “blocco”, come lo chiamava la giornalista Mazzocchi, fu inviato al porto di Bari per essere utilizzato in via Fani. Un altro blocco di questi proiettili, rubato in Svizzera, sembra che servì per il sequestro del presidente degli industriali tedeschi, Hans Martin Schleyer.
In parlamento si occupò della vicenda in quei giorni l’onorevole Falco Accame, del Partito Socialista, lo stesso Accame che figurava nei rapporti Impedian dell’archivio Mitrokhin. In realtà il rapporto 182 spiega che il KGB cercò di utilizzare Accame nel 1977 per degli interventi politici contro la presenza di sottomarini statunitensi in Sardegna.
Si tornò a parlare della pista egiziana solo a metà agosto del 1978, quando l’onorevole Moro era già morto e il ritrovamento delle cassette postali delle Brigate Rosse veniva già ridimensionato. Era il 13 agosto 1978, la firma dell’articolo era di Vicenzo Tessadori della Stampa. Si indagava ancora sui proiettili della ditta Fiocchi. Ancora per poco.
Che fine ha fatto questa inchiesta? Dopo l’agosto del 1978 se ne perdono le tracce negli archivi dei giornali. Perché fu insabbiata? Gli inquirenti si accontentarono della smentita dell’Olp, il quale escluse qualsiasi contatto con le Brigate Rosse? Il movente di un intervento palestinese in Italia nella primavera del 1978 era molto semplice da capire: il presidente Sadat stava lavorando ai negoziati per i futuri accordi di Camp David. Il 27 aprile del 1978 un articolo siglato R. S. del quotidiano La Stampa relazionava sulle informazioni che in quelle ore giungevano dal Cairo, e segnalavano una serie di contatti tra brigatisti italiani e fedayn palestinesi (si ipotizzò che appartenessero al gruppo “Giugno nero” di “Abu Nidal”) per mettere a segno attentati, rapimenti, assassinii, atti di sabotaggio per compromettere le iniziative di pace di Sadat. Della rete terroristica avrebbero fatto parte, oltre a brigatisti italiani e ticinesi, anche giapponesi dell’Esercito Rosso, e uomini del gruppo “Carlos”.
Ad avvalorare tutte queste piste di indagine ci sono anche i dialoghi tra l’ambasciatore statunitense del Cairo, Hermann Frederick Eilts, e quello di Roma Richard Gardner, poche ore dopo la strage di via Fani. Eilts era preoccupato per la sorte dei suoi uomini. Temeva potessero fare la fine della scorta di Aldo Moro. Sembrava assurdo, invece lo scenario internazionale svelato dalla mia inchiesta dimostra che i timori degli americani erano pienamente giustificati.
Ben diverso è invece il contenuto delle dichiarazioni che l’ex consigliere di Arafat all’Olp, Bassam Abu Sharif, ha recentemente rilasciato alla commissione parlamentare presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni. Ne parla il sito formiche.net in un articolo di Stefano Vespa. Abu Sharif sostiene, in sostanza, la tesi dei servizi segreti sovietici, secondo i quali le Brigate Rosse erano infiltrate dagli americani, che avrebbero cercato di impedire una soluzione che prevedesse una trattativa con le Brigate Rosse. E’ al contrario più probabile che i servizi segreti che si inserivano nelle brigate rosse fossero dei sostenitori dei palestinesi. Lo prova il fatto che Abu Ayad, altro uomo di Arafat, diventò uno dei principali confidenti del Sismi. Da allora l’Olp mantenne buoni rapporti con buona parte della politica italiana.

domenica 16 settembre 2018

Ponte Morandi: una vecchia storia di tangenti?


Si va profilando sulla storia del crollo del ponte di Genova quanto dicevamo fin dall’inizio. E cioè che, scartata l’ipotesi attentato, bisognava concentrarsi sulla ditta costruttrice per capire le ragioni della tragedia. Non perché chi scrive abbia qualche contenzioso con la Società italiana per condotte d’acqua, ma piuttosto per la presenza in quell’azienda, negli anni in cui il ponte fu costruito, di uomini del clan di Michele Sindona.
Sarebbe bastato fare un minimo di ricerca sulla storia di “Condotte d’acqua”, come facemmo a poche ore dal crollo per semplice curiosità, per capire che qualcosa di strano in quell’azienda c’era. C’era allora e c’è anche oggi, visto che si parla di rischio fallimento, di appalti truccati, e all’estero anche di mafia.
Mafia come quella di Michele Sindona, finanziere che per i suoi traffici sfruttava le amicizie con i membri della loggia massonica Propaganda Due. La sua tessera era la numero 501. Ma in quell’elenco non figurava soltanto lui. La tessera di Loris Corbi, tanto per fare qualche altro nome, era la 562. E sapete ormai bene chi fosse questo personaggio. Era il presidente di Condotte d’acqua. Quando il suo ruolo di piduista divenne di pubblico dominio nei giornali, nel 1981, fu costretto a dimettersi.
Che cosa accadde dunque negli anni ‘60, quando il ponte Morandi fu costruito? La notizia di oggi lo dice chiaramente, e adesso i giornali non potranno più nasconderlo. Secondo una perizia redatta dai consulenti della procura di Genova, la ditta costruttrice cercò di risparmiare sui materiali, non rispettando il progetto dell’ingegner Morandi, che, anzi, aveva cercato più volte di rimediare e di essere inserito nei gruppi di lavoro che si occupavano della manutenzione. Ma bisogna a questo punto aggiungere altri elementi, di carattere storico e politico. La notizia odierna porta alla luce quanto gli studiosi temevano da tempo: e cioè che i soldi della ricostruzione post-bellica, finanziata dopo il 1945 con il piano Marshall, potessero essere finiti nelle tasche dei partiti politici, e in particolare della Democrazia Cristiana, grazie all’intervento di imprenditori compiacenti. Lo dicevamo a proposito di Nino Rovelli, di Edoardo Longarini, e adesso dovremmo solo aggiungere qualche altro nome.
Il quotidiano comunista L’Unità l’aveva scritto il giorno stesso dell’inaugurazione del ponte Morandi: quel viadotto dell’autostrada A-10, che attraversava Genova, era costato cinque miliardi in più. Inoltre la ditta costruttrice, la Condotte d’acqua, non aveva rispettato i tempi di consegna. L’aveva tirata per le lunghe, per poi chiedere molto più di quanto pattuito. La notizia moriva lì, perché il resto della stampa nazionale esultava con il presidente Saragat per il nuovo snodo viario che l’Italia stava mettendo a disposizione degli automobilisti. Ma la storia di Condotte d’acqua continuò ad essere costellata di intrighi. Quando Sindona fu arrestato, nei primi anni ‘80, cercò di difendersi asserendo di trovarsi in quella situazione per una vendetta dei politici, per quello che gli era capitato quando era proprietario di Condotte d’acqua. In un’intervista rilasciata al grande Enzo Biagi e disponibile sul sito Cinquantamila, Sindona disse testuali parole: "Idem con le Condotte d’Acqua, l’amministratore delegato mi disse: ”Noi non possiamo lavorare se non paghiamo i partiti”. Telefonai a Londra: 'Vendete Le Condotte d’Acqua perché non rimango in una società in cui vengono truffati gli azionisti'. Certi partiti non me l’hanno perdonata."
Il Ponte Morandi fu dunque costruito pagando tangenti ai politici? Mettendo insieme gli indizi emergerebbe questa conclusione. Certamente Sindona non fu l’unico faccendiere poco pulito a guidare gli affari di quell'azienda di costruzioni, nata nel 1880 per iniziativa del Vaticano. Intorno al 1973, quando Sindona l’aveva già ceduta all’Istituto per la Ricostruzione Industriale, vi lavorò il discusso Francesco Pazienza, che fece da mediatore per la costruzione di un imponente complesso industriale nel porto di Bandar Abbas, nell’Iran ancora filo-americano e governato dallo scià di Persia. Ma la rivoluzione islamica di Khomeini, nel 1979, creò non pochi ostacoli a questo progetto, lasciando la ditta italiana senza i pagamenti per le opere che aveva già intrapreso. Alle Condotte d’acqua, tuttavia, secondo quanto emerse nei processi che subì per le stragi eversive di destra, Pazienza ebbe modo di fare le conoscenze opportune che gli permisero di entrare nei servizi segreti italiani. Secondo un articolo di Repubblica scritto nel 1987 da Franco Coppola, quando gli chiesero come avesse conosciuto il generale Giuseppe Santovito, Pazienza rispose: “Me lo presentò il fratello, l'ingegner Luciano, per il quale avevo condotto a termine un affare con Khomeini per l'appalto delle condotte d'acqua.”
 

sabato 1 settembre 2018

Gli investimenti segreti del Vaticano

Bernardino Nogara (1870-1958), banchiere e ingegnere del Vaticano, in una foto in pubblico dominio di Wikimedia Commons.

Perché i nostri quotidiani non scrivono che a Genova il 14 agosto 2018 è crollato il “ponte del Papa”? Questa è la cruda, amara realtà, se dovessimo tentare una ricostruzione storica. E’ incredibile che nel motore di ricerca di Google News, cercando “Condotte d’acqua”, cioè il nome della società che negli anni ‘60 costruì il ponte Morandi sulla A10 di Genova, e aggiungendo Sindona, si ottenga un solo risultato, risalente a pochi mesi prima del crollo del Polcevera. Si tratta di un articolo di Today del 28 giugno 2018, sulla crisi dell’attuale gestione dell’azienda. Non sembra una dimenticanza, sarebbe troppo grave. Ci pare piuttosto che si cerchi di evitare di scendere nell’argomento. 
Eppure con un’inchiesta giudiziaria in corso sui materiali di costruzione del ponte, sarebbe inevitabile tornare al 1967. L’articolo di Today, nel tratteggiare brevemente la storia di “Condotte”, come viene chiamata la ditta romana, specificava che negli anni ‘60 questa apparteneva all’Amministrazione Speciale della Santa Sede, e a Bastogi, per poi venire rilevata da Sindona. Pare che la quota di partecipazione del Vaticano in “Condotte” ammontasse a 7 miliardi di vecchie lire, e che il presidente fosse un'influente personalità del Vaticano, erede di una storica famiglia: Giovanni Battista Sacchetti. Sia quest’ultimo, sia Massimo Spada, comparivano in un articolo della Stampa del 1959 nel quale, su richiesta politica, venivano pubblicati dall’allora ministro delle finanze Preti i redditi degli anni ‘50 di alcuni uomini della Santa Sede. Vediamoli un attimo perché sono interessanti. L’avvocato Massimo Spada era passato da un reddito dichiarato di 2.600.000 lire nel 1951 ai 20.600.000 lire nel 1958, con un progressivo incremento. Molto curiose le dichiarazioni del marchese Giovanni Battista Sacchetti, presidente di Condotte d’acqua. Ogni anno l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate gli contestava i redditi, correggendo al rialzo le sue cifre. Nel 1951 ad esempio, se il Sacchetti aveva dichiarato 5.146.328 lire di reddito, l’ufficio gliene contestava 27. Nel 1952 dai 5.774.976 milioni dichiarati si passava ai 35.718.430 lire che risultavano dai controlli. Nel 1953 si andava dai 7.363.999 dichiarati ai 36.388.359 lire contestati. Nel 1954 da 9.207.680 a 31.778.994. Nel 1955 da 12.726.833 a 31.890.144 lire. E ogni anno il marchese Sacchetti preferiva andare in causa con lo Stato. Nell’elenco figuravano poi l’ingegnere Bernardino Nogara, l’ingegnere Eugenio Gualdi, il principe avvocato Marcantonio Pacelli, l’avvocato Vittorino Veronese, l’ingegnere Enrico Piero Galeazzi, e infine il principe Carlo Pacelli.
Ma abbiamo anche trovato la vera prova che Michele Sindona e Massimo Spada si conoscevano già prima dell’ottobre 1969. In quel periodo ci pare che non avvenne una vera vendita di “Condotte” a Sindona, quanto piuttosto un passaggio di consegne tra due gruppi di amministratori. Ebbene i due uomini subentranti, Spada e Sindona, vantavano già un’amicizia decennale nella politica economica della Santa Sede. Nel numero 25 dell’inverno 1986 dell’opuscolo “Covert Action, Information bulletin”, pubblicato a Washington e presente nell’archivio della CIA, a pagina 35, si legge che uno dei primi passi mossi da Sindona per avvicinarsi al denaro del Vaticano fu la conoscenza verso la fine degli anni ‘50 di Massimo Spada, definito un nobiluomo del Vaticano e un anziano membro della Banca Vaticana, lo IOR. Fu in quel periodo che Sindona strinse amicizia anche con il futuro papa Paolo VI, il cardinale di Milano, Giovanni Montini. Fu dai soldi percepiti dal Montini che Sindona iniziò la scalata alla banca che poi mandò in rovina, la Banca Privata Italiana, un istituto di credito che riceveva i fondi direttamente dallo IOR. Papa Montini fu accusato dallo stesso giornale di aver aiutato i criminali di guerra nazisti a rifugiarsi all’estero e a sfuggire alla cattura.
Di questi personaggi si occupava anche il nemico comunista in Ungheria, molto interessato a colpire gli esponenti filo-americani del Vaticano. Due gli articoli che sono disponibili in archivio: quello dell’11 aprile 1958 del giornale Új Szó, e nel numero di Dolgozók Lapja del 15 ottobre 1960. I giornalisti magiari polemizzavano sul potere temporale della chiesa, scrivendo: “Il Vaticano è uno dei poteri più capitalisti, e serve gli interessi del capitalismo. E gli interessi del capitalismo non hanno nulla a che fare con gli interessi della pace nel mondo.” Bernardino Nogara e Massimo Spada figuravano come due importanti personaggi della Santa Sede, al timone degli affari della Banca vaticana dello IOR, cui era collegata una delle più grandi banche svizzere, la Schweizerische Kreditanstalt. Di conseguenza la caratteristica, - specificava il giornale ungherese Dolgozók Lapja - di questi conti correnti era la segretezza e l’impossibilità per le autorità pubbliche italiane di accedervi. Massimo Spada era già all’epoca presidente di quattro società italiane e della Banca cattolica del Veneto, ma pare fosse vicedirettore in altre ventuno società. Nogara, inoltre, risultava essere stato attivo nella gestione di varie aziende, tra le quali la Montecatini, che diverrà presto la futura Montedison, fabbrica leader della chimica ma anche della produzione di armi.