martedì 26 giugno 2018

Calciatori curati con metodi sovietici


La Novocaina usata dai massaggiatori per permettere a un calciatore infortunato di proseguire la partita era una scoperta della medicina sovietica. Lo si apprende grazie a un documento del 22 novembre 1950 con il quale la CIA, il servizio segreto americano, traduceva in inglese un testo pubblicato nel precedente mese di giugno nell’URSS. La scoperta dei russi consisteva nel fatto che la Novocaina aveva la capacità di irritare i nervi riportandoli a una condizione di normalità. Gli studiosi si chiamavano Vvedenskiy e Ukhtomskiy e secondo il documento rispondevano alle critiche affermando che la cura a base di Novocaina era indicata solo in alcuni casi particolari, come ad esempio le infiammazioni o nei disturbi del tono muscolare, ma si rivelava efficace come nei trattamenti a base di droghe.
Gli americani della CIA erano molto attenti anche alla Procaina, un altro anestetico che avevamo letto a proposito di persone morte dopo un’iniezione di Penicillina, negli anni Sessanta, esattamente come capitò allo sfortunato calciatore della Roma, Giuliano Taccola. Secondo i magistrati italiani le morti per le iniezioni di Penicillina avvenivano sempre quando essa era associata alla Procaina. Ebbene, un documento della CIA del 22 novembre 1955 si preoccupava di monitorare la produzione nei paesi del Patto di Varsavia di questo particolare tipo di anestetico, la Penicillin-Procaina, che nasceva, in questo caso almeno, nei laboratori cecoslovacchi di Roztoky.
Non sappiamo se i massaggiatori fossero a conoscenza delle implicazioni politiche delle loro cure ai bordi dei campi di calcio, ma certo è che il rimanere in campo, come scrissero i giornali, curati con la Novocaina diventava un atto eroico che il pubblico apprezzava. Del resto le leggi sul doping, in Italia, non erano così severe nell’immediato dopo-guerra. La prima fu la numero 1099 del 1971. Basterebbe leggere il numero 20 del settimanale Guerin Sportivo 1979 per rendersi conto che molte sostanze erano considerate legali, nonostante i medici fossero consapevoli dei loro rischi per la salute. La ragione, certamente discutibile, per cui non erano vietate consisteva nel fatto che l'azione di questo doping non era immediata e dunque non avrebbe falsato l'esito di una gara.
Tra i farmaci permessi, l’articolo di Stefano Tura intitolato “Prima e... doping” citava, non solo i cardiotonici come il Micoren, gli analettici-bulbari, le vitamine o gli zuccheri, che spesso furono citati in epoca recente nei racconti dei calciatori al magistrato inquirente Raffaele Guariniello, o ancora i farmaci “xantinici” come la caffeina, ma parlava anche dei pericolosi anabolizzanti proteici come il Nandrolone, divenuto illegale solo con una nuova legge nel 2000. E sappiamo bene quanti sportivi furono scovati negli anni duemila con questo farmaco dopante che gonfia la massa muscolare! Si pensi soltanto che la miccia che fece scoppiare le polemiche sui giornali furono le dichiarazioni pubbliche dell’allenatore Zeman, il quale ironizzò sui muscoli sospetti dei giocatori della Juventus. Ma eravamo ancora nel 1998.
Le sostanze vietate già negli anni Settanta erano invece la Fentermina, il Metilfenidato, le Amfetamine, l’Efedrina, la Stricnina, l’Ibogaina, che è un curioso farmaco prodotto in Africa Equatoriale e permette una maggiore resistenza alla fatica, e infine un antidepressivo come la Pargilina.

lunedì 25 giugno 2018

Ustica: fu atto di guerra contro ‘l’amico’ Gheddafi?


Forse fu un atto di guerra, un’esercitazione militare sicuramente no. Lo scenario internazionale che fece da sfondo al disastro dell’aereo DC-9 a Ustica il 27 giugno del 1980 ormai è molto chiaro. Lo si desume dagli archivi dei quotidiani, facilmente consultabili online, e dai documenti non più coperti dal segreto, specialmente all’estero.
Nei primi giorni successivi alla sciagura, in cui morirono 81 persone, i militari raccontarono di un’esercitazione che era in corso la sera del 27 giugno 1980. Ciò avrebbe impedito al radar di Marsala di visualizzare i velivoli che sorvolavano il cielo della Sicilia. Di esercitazione si è parlato recentemente sui giornali anche in relazione al racconto del militare americano Brian Sandlin, il quale, intervistato da Andrea Purgatori su La7, ha descritto una battaglia tra aerei statunitensi e libici nella quale sarebbe rimasto coinvolto anche il DC-9.
Eppure l’esercitazione della Nato si era conclusa il 30 maggio del 1980. Lo si può leggere sul quotidiano La Stampa del 15 maggio 1980. Il titolo dell’articolo di Piero Cerati era molto eloquente: “Navi di sette Paesi alleati a Napoli si ‘allenano’ per i casi d’emergenza”. “Forza di Dissuasione 1/80” era il nome in codice dell’esercitazione, ed era nota anche alle forze del Patto di Varsavia, tanto che anni dopo la citava anche un giornale ungherese. Il 15 maggio 1984 sul quotidiano Új Szó si poteva leggere: “Il Mar Mediterraneo da Alessandria a Gibilterra è attualmente un'area estremamente pericolosa, ha scritto nella recensione di ieri della Pravda Yuriy Vladimir.” E poi, sulla strage di Ustica, Új Szó aggiungeva: “è emersa una nuova prova del fatto che il missile lanciato da una simile pratica militare nel giugno 1980 ha causato la catastrofe dell’aereo con 81 persone.”
E’ proprio leggendo queste righe che mi sono messo a cercare sui giornali tracce di questa esercitazione, che veniva organizzata fin dal 1975, e per due volte all’anno, con una durata massima di un mese per ciascuna. Ed è apparso chiaro che c’era un problema di date. Piero Cerati descriveva in questo modo lo scenario di guerra di quei giorni: “Le navi formano una piccola squadra, che comprende il ‘Carabiniere’ (italiano) e l’Adatepe (turco), due caccia con armamento convenzionale; il Vreeland (americano) e il Brighton (inglese), due fregate con missili radar asserviti.” In un primo momento la ‘task force’ sarebbe rimasta nel golfo di Napoli, almeno dal 16 al 26 maggio. A quel punto si sarebbe avviata in alto mare per incrociare e appoggiare eventuali altre unità anche aeree. Lo scopo era quello di simulare una crisi internazionale improvvisa. Quest’ultima fase sarebbe stata, secondo Cerati, “un’esercitazione complessa che durerà dal 26 al 30 maggio”.
Cosa avvenne dunque la sera del 27 giugno 1980, se la ‘task force’ non era più operativa da 28 giorni? Per rispondere a questa domanda possiamo utilizzare un’altra informazione proveniente dai quotidiani. Il 27 giugno 1980, cioè lo stesso giorno del disastro di Ustica, sulle pagine del quotidiano La Stampa vi era un’altra notizia fondamentale. Il titolo dell’articolo era: “Gheddafi compera dalla Rai duecento ore di programmi”. Si scopre così che in quel periodo c’erano a Roma dei delegati del governo libico, e sarebbero probabilmente ripartiti quello stesso giorno. I giornalisti della Rai che per anni si sono occupati del caso Ustica avrebbero dovuto saperlo, perché gli uomini di Gheddafi erano esattamente nei loro uffici, quel drammatico giorno di 38 anni fa, per contrattare l’acquisto di programmi da trasmettere in Libia. Ecco il testo molto eloquente del giornale: “In questi giorni infatti una delegazione della tv libica ha visionato nella sede della Sacis alcuni dei migliori programmi culturali, di spettacolo, di intrattenimento, film, telefilm realizzati dalla Rai.”
Quali conclusioni trarre a questo punto? Potremmo iniziare a unire le tante certezze e disegnare un possibile scenario. Se è vero che i direttori degli aeroporti facevano parte dell’organigramma dell’Aeronautica militare, come scritto nel libro di medicina legale di mio nonno, non è assurdo pensare che, come sostenne nel 2000 l’onorevole Carlo Ciccioli, il direttore dell’aeroporto di Bologna fosse in grado di costringere il DC-9 a ritardare il decollo per scopi militari, cioè, in questo caso, per permettere a un aereo statunitense di inserirsi nella sua scia. Ma perché l’aviazione statunitense avrebbe dovuto compiere un simile azzardo? Evidentemente perché Gheddafi, che in Italia era trattato da amico, in ambito internazionale risultava il capo del terrorismo. Dunque poteva essere necessario monitorare gli aerei di Gheddafi, sia quelli di ritorno dalla trasferta nelle sedi della Rai, da Roma verso Tripoli (a meno che gli emissari libici non viaggiassero su un volo di linea), sia altri eventualmente decollati dal territorio libico. Una reazione improvvisa dei libici potrebbe aver innescato la guerra aerea che è stata ipotizzata da molti, e potrebbe aver causato la morte di 81 cittadini italiani innocenti.

Ma quella appena formulata è solo un'ipotesi. Che non può non tener conto di quanto esce sulla stampa. Ce ne potrebbero essere anche altre di teorie. Se ad esempio il Phantom di cui parlò l'onorevole Ciccioli non fosse stato americano ma italiano si potrebbe attribuire la caccia ai libici ai nostri servizi segreti, quelli perlomeno in disaccordo con la fazione più vicina a Gheddafi. 
A proposito del ritardo del DC-9, Andrea Purgatori sull'Huffington post ha scritto che l'aereo di linea rimase due ore sulla pista di Bologna per il maltempo. Sono andato a cercare le mappe meteorologiche. Esiste una carta sinottica delle ore 18 del 27 giugno 1980 del sito tedesco Wetterzentrale, la quale mostra che vi erano in quel momento sull'Italia delle correnti tese di tramontana. E questo per la mia piccola esperienza di osservatore esclude che su Bologna vi fosse un temporale, essendo sottovento. Mentre è possibile che il temporale si stesse scatenando su Ustica. Nell'archivio del quotidiano La Stampa le previsioni del tempo di quel giorno in effetti parlavano di cielo poco nuvoloso al nord e di temporali al sud. 
Quindi come escludere che il DC-9 fosse fermo per il maltempo? Ma quanti altri aerei avrebbero potuto fermarsi per la pioggia e non lo fecero? Basti pensare alla morte di Enrico Mattei dell'Eni, o alla fine tragica dei giocatori del grande Torino. Semmai per quel ritardo del DC-9 si potrebbe parlare di eccesso di zelo inconsueto. O di un'ottima copertura per altre oscure operazioni.

sabato 16 giugno 2018

Pagati per essere eterni aspiranti


Lo Stato da diversi anni eroga sussidi per chi rimane senza lavoro. Lo avevamo raccontato anni fa su queste colonne. E chi vi scrive ha provato di persona come funziona il meccanismo. Il problema è che questi soldi sono un paravento dietro il quale lo Stato, oggi rappresentato non più da chi lavora nelle istituzioni ma da questi politici prepotenti e poco preparati, porta avanti un’idea deleteria di lavoro, quella dell’eterna flessibilità. Essere eterni aspiranti, non avere mai una collocazione chiara nel mondo lavorativo, è un handicap sia per il lavoratore, che non può crescere professionalmente, sia per la società, che non potrà mai contare sulle competenze delle nuove leve. Adesso scopro che questa flessibilità può durare tranquillamente in eterno, perché lo Stato è proprio in cambio dei contratti da dipendente a tempo determinato che eroga il sussidio di disoccupazione. Mi è stato raccontato di un ex impiegato dei call center (uno dei pochi lavori che apparentemente sono aperti a tutti), il quale, licenziato, ha smesso di cercare lavoro approfittando dei bonus di disoccupazione maturati, che aumentano in proporzione alla durata del contratto.
Avrei voluto e potuto evitare di chiederlo questo sussidio, ma i conoscenti mi convinsero che avrei rinunciato a un mio diritto. D’estate la scuola è chiusa, e così, anche per non sembrare un insegnante di serie B rispetto a colleghi con cui mi ero confrontato fino a pochi giorni prima, pensai fosse giusto accettare un assegno in attesa della nuova chiamata.
Ora però scopro che le regole sono cambiate, oppure non erano mai state chiare prima. Ma in ogni caso, al di là di ogni congettura, i fatti sono questi: il sindacato a cui mi sono iscritto mi ha spiegato che, dopo aver fatto domanda di disoccupazione, quest’anno avrei dovuto iscrivermi al collocamento, cioè ai centri per l’impiego, nei quali vengono offerti lavori spesso di basso profilo. Quindi per farci cosa? Il mio centro per l’impiego dal 2011 è la terza fascia dell’insegnamento, nella quale ho un punteggio medio-alto. Di norma a settembre avvengono delle nomine, e molto spesso sono stato io a rifiutare di essere piazzato in posti di lavoro per i quali non avevo alcuna competenza né motivazione: il sostegno, o anche altre cattedre, come l’inglese.
Le parole del sindacalista mi sono parse una minaccia: “Lo Stato eroga dei soldi e vuole sapere chi sei”. Ma lo Stato lo sa benissimo chi sono, visto che mi ritrovo nella cassetta della posta lettere dell’Agenzia delle Entrate, come della scuola, e del giornalismo. Perché non faccio mai mistero di avere già un secondo impiego nel giornalismo, grazie a una tessera stampa che mi abilita dal lontanissimo 2003 a scrivere nei giornali a larga diffusione. Inoltre la scuola d’estate non è affatto vero che è chiusa, eroga corsi di recupero per alunni rimandati. Ma il sottoscritto non è mai stato contattato al di fuori di supplenze temporanee invernali.
Diciamo anche che si sta creando uno spread, cioè una netta separazione, tra il lavoro effettivo, la competenza acquisita sul campo, e l’appiattimento mortificante dei contratti a termine, più o meno lunghi, ma che ti lasciano al punto di partenza. Una delle conseguenze più dirette della mancanza di serietà nella politica, oggi, è rappresentata dall’impossibilità per l’insegnante di abilitarsi. Dal 2011 sono stati effettuati solo due concorsi per entrare in ruolo, ma sono stato adeguatamente informato solo del secondo, organizzato nel 2014, al quale ovviamente ho partecipato. Una selezione estremamente rigida, basata sul nozionismo puro e mnemonico, nella quale non sono stato promosso per pochi punti. Ma pensavo anche di andare peggio. Basta. Non ho avuto altre possibilità. Nel frattempo le leggi per entrare in ruolo sono cambiate almeno tre volte da quando ho iniziato ad accettare le supplenze, senza poter tuttavia chiedere (ma io lo farò appena possibile, per rompere un po’ le scatole) di accedere al ruolo con le regole in vigore al momento della prima chiamata. Perché i capricci dei ministri e sottosegretari non sono nemmeno immaginabili. Gli esami da fare aumentano e diminuiscono a ogni nuova elezione. Chiunque lancia la sua idea, che a volte è persino assurda. Pare che, per farlo entrare in ruolo, i futuri ministri intendano chiedere all’aspirante insegnante di rinunciare ai 1400 euro di stipendio delle supplenze per svolgere due anni di tirocinio a 400 euro al mese. E chi me lo farebbe fare? Nell’ultimo anno ho potuto contare su una supplenza annuale, durante la quale mi sento di aver portato a compimento un buon lavoro. Ed è in questi casi, paradossalmente, che la fine del contratto è maggiormente dolorosa. Devi abbandonare un lavoro iniziato, un rapporto con gli studenti faticosamente costruito, senza dimenticare i colleghi. Avanza anno dopo anno la sensazione di essere usati, manipolati da uno Stato iniquo.
Ecco perché dico che con le aspirazioni ci si può campare per tutta la vita, ma fino a un certo limite. Io dico ai miei lettori che sinceramente mi sono vergognato di guadagnare senza far nulla con il sussidio di disoccupazione. Preferivo guadagnarmi 500 euro scrivendo due articoli al giorno (certamente non per stare da dipendente dieci ore in una redazione), piuttosto che essere riempito di soldi, ma anche ricattato, costretto a svendere la mia professionalità in cambio della schiavitù.
Se mi batto contro la divinizzazione dello Stato è perché Hitler negli anni ‘30 chiedeva le stesse cose. Lo Stato doveva costringere il lavoratore ad accettare ogni tipo di impiego. In cambio il povero suddito avrebbe guadagnato e la società del Reich sarebbe progredita. Non andò come sperava. Ma i nostri governanti sono diversi. Essendo alle prese con un lavaggio del cervello al giorno sulla corruzione della politica, non mostrano nemmeno quella parvenza di ottimismo.

lunedì 11 giugno 2018

Gli americani conoscevano i killer di via Fani


Ci sono poche notizie certe quando si parla di terrorismo. Quindi diamo subito delle solide fondamenta alla nostra ricostruzione della strage di via Fani, che
va ormai inserita in un contesto internazionale. Gli ambasciatori americani avevano capito fin troppo bene chi era il responsabile dell’attentato alla scorta del presidente Aldo Moro. Lo si intuisce dai loro dialoghi segreti, divulgati su Wikileaks, ma soprattutto da un articolo del giornale svizzero Libera Stampa, pubblicato l’8 maggio 1978, il giorno prima della morte di Aldo Moro.
Al Cairo, in Egitto, era stata da poco scoperta una ramificata organizzazione terroristica di “ispirazione” palestinese, la quale si avvaleva “della competenza dell’aiuto e delle coperture di numerose organizzazioni terroristiche internazionali, comprese le ‘Brigate Rosse’.”
Ad affermare tutto questo era il giornale egiziano “Al Ahram, che precisava i contorni molto vasti della vicenda e faceva dei nomi. I terroristi palestinesi, coordinati da Wadi Haddad, si prefiggevano lo scopo di rovesciare i regimi arabi, ma anche di effettuare assassinii politici in Europa. Ad esempio era pronto un piano per uccidere in territorio svizzero il primo ministro giordano, Mudar Badran, reo per i terroristi di aver attivato i contatti con gli israeliani. Era il periodo che precedeva gli accordi di Camp David, lo avevamo detto. Dunque quelli degli americani erano più che timori dettati dall’esperienza politica. C’erano indagini al Cairo sul legame Bierre-palestinesi e tra gli indagati figurava lo svizzero S. M. quale principale agente di collegamento tra le varie organizzazioni internazionali, mentre capo della rete era il palestinese Mohamed Aref Moussa.
Secondo l’articolo furono questi terroristi a uccidere un uomo sconosciuto in Italia, eppure chiave per capire i legami tra le Bierre e la scuola Hyperion. Parliamo di Henri Curiel, un ebreo, nato in Egitto, fondatore del Partito Comunista egiziano, che negli anni di piombo costruì una rete terroristica a Parigi chiamata “Solidaritè”, offrendo armi e rifugio anche alle Bierre.
A questo punto torna a galla la storia di Hyperion. A Henri Curiel dedica un intero capitolo il libro “La trama del terrore” della giornalista americana Claire Sterling, la quale, pur non nominando mai la scuola di lingue di Simioni, fa spesso riferimento a due appartamenti di cui avrebbero usufruito i brigatisti italiani nella capitale francese. Curiel - secondo la Sterling - sarebbe stato guidato nella sua attività terroristica dai russi del KGB. E non è solo lei a dirlo. Un rapporto sul terrorismo nel periodo 1983-85 del senato americano scriveva le seguenti frasi. “Immediatamente dopo il rapimento di Moro, Mario Moretti delle Brigate Rosse fu contattato dai rappresentanti di Hyperion, una struttura di Parigi che agiva sotto la copertura di una scuola di lingue, la quale, apparentemente sotto la direzione del sovietico KGB come stabilito da alcuni terroristi pentiti, serviva a coordinare le attività dei vari gruppi sovversivi europei”. Moretti avrebbe accettato di condurre attività terroristiche internazionali e sarebbe stato introdotto in una fazione marxista di Parigi. Una nota a margine indica che queste notizie furono estratte da una relazione di minoranza del Cesis, intitolata “Implicazioni internazionali del terrorismo”, redatta nel 1983.
Il legame Hyperion-KGB farebbe sensazione, se non fosse che neanche gli americani erano certi di quello che scrivevano. L’unica vera accusatrice del KGB mi è sembrata proprio Claire Sterling, che nella sua inchiesta giornalistica del 1981 dimostrò, come del resto abbiamo fatto anche noi sul nostro blog, che esisteva negli anni Settanta un’organizzazione terroristica che legava tutti i gruppi eversivi europei e mondiali più importanti, la quale si addestrava perlopiù nello Yemen Meridionale o a Cuba, e che era coordinata da Curiel, dai palestinesi George Habash e Wadi Haddad, da Carlos lo Sciacallo e dal suo braccio destro libanese Moukarbal. Per pagarsi le enormi spese si avvaleva dapprima dei fondi illimitati del ricchissimo Giangiacomo Feltrinelli, e poi di quelli del colonnello libico Gheddafi, il quale finanziava indifferentemente terroristi italiani neri e rossi.
Molto importante, perché crea un ponte tra la strage di piazza Fontana a Milano del 1969 e le Brigate Rosse, è il nome di Roberto Mander, un anarchico appartenente al gruppo “22 marzo” di Valpreda e Merlino. Mander, insieme all’avvocato Sergio Spazzali, secondo la tesi della Sterling, era impegnato nello smercio di armi alle organizzazioni terroristiche, sotto la direzione dalla tedesca Petra Krause, detta “Annababi”. Se il lettore avrà buona memoria ricorderà che il primo a denunciare un simile sodalizio criminale guidato dalla Krause era stato Ernesto Viglione, e il suo articolo era finito sotto la lente del servizio segreto cecoslovacco.
La Sterling parlava di due livelli delle Brigate Rosse. Il primo era quello politico, dell’indottrinamento e della propaganda lanciata dai giornali come “Lotta Continua” o “Potere Operaio”. L’idea eversiva si fondava sulle teorie del sudamericano Marighella, il quale propugnava una rivoluzione che provocasse una reazione di destra, che doveva essere talmente violenta da spingere il popolo alla rivoluzione. L’altro livello era rappresentato dal partito armato clandestino, quello dei nuclei che andavano dal più elitario delle “Brigate Rosse” a “Prima Linea”, che doveva rappresentare “l’incarnazione delle idee del proletariato”. La mente e il braccio. Nel primo caso il leader era Antonio Toni Negri, e nell’altro, Renato Curcio. Un altro personaggio chiave della direzione strategica era Carlo Fioroni, che fu il primo pentito a vuotare il sacco. Quindi figuravano anche Franco Piperno, Oreste Scalzone, Luciano Ferrari-Bravo. Il sostegno a queste attività eversive veniva non solo dall’estero, ma anche dalla mafia, in particolare dalla Ndrangheta, che veniva definita dalla Sterling “parte integrante dell’organizzazione”. Il suo personaggio di spicco, Giustino De Vuono, fu presente in via Fani il 16 marzo del 1978, nel giorno della strage, e si dice che fu il killer che sparò gli undici proiettili al presidente Moro.
Ma dov’è in questo scenario il sostegno del KGB cui accennava il Senato americano? Un primo indizio sarebbe in Spagna. L’Eta, gruppo terroristico basco di ispirazione maoista, nel 1977 si stava accordando segretamente con i russi. Scrive la Sterling: “il 14 luglio del 1978, i servizi segreti spagnoli assisterono direttamente a un incontro tra l’agente del KGB e corrispondente delle ‘Izvestja’ Vitalj Kovic e Eugenio Echeveste Arizgura, ‘Anchon’, membro della direzione dell’Eta militar, avvenuto a Saint-Jean De Luz, nel sud della Francia.” Cosa c’entrano le Bierre? C’entrano, perché nella primavera del 1980 tre brigatisti e un trafficante di droga furono arrestati in Francia mentre attendevano la riparazione del loro yacht, che avevano acquistato con i proventi di una rapina effettuata insieme a terroristi baschi e francesi.
Ma al di là di questo rapporto indiretto con i russi, la vera fonte di informazioni fu il generale Jan Sejna, segretario generale del Ministero cecoslovacco della Difesa e consigliere militare del Comitato centrale comunista. Nel 1968, poco prima dell’invasione dei carri armati russi a Praga, era fuggito negli Stati Uniti e aveva iniziato a parlare. Tra le sue confessioni spiccava la notizia che negli anni Sessanta dodici italiani si erano addestrati nei campi militari dell’ex Cecoslovacchia. E tra questi vi era anche Toni Negri, che era stato da quelle parti nella stagione 1966-67. Se così fosse avremmo risolto il problema dei mandanti del terrorismo degli anni di piombo.
Ma ci sono delle falle in questa ricostruzione. In primo luogo è proprio la CIA, il servizio segreto più importante della guerra fredda, a credere poco all’ipotesi che i sovietici potessero sostenere militarmente ed economicamente i terroristi delle Brigate Rosse. In un rapporto del 18 maggio del 1982 intitolato “International terrorism, the russian background and the soviet linkage”, l’autore Paul B. Henze affermava che non c’erano prove di un sostegno sovietico al terrorismo, se non per il contenuto eversivo che caratterizzava i programmi marxisti di Lenin. Di fatto, era stato accertato solo il legame dei brigatisti con il terrorismo palestinese, libanese, e sud yemenita. Le bombe della destra dovevano essere interpretate come un ostacolo posto da sconosciuti assassini verso la rivoluzione in atto nell’estrema sinistra. L’ipotesi ancora circolante nel dicembre 1978, secondo cui le brigate rosse sarebbero state “manipolate” dai neofascisti e dalla CIA, veniva bollata come ridicola. Lo stesso doveva valere per le insinuazioni del giornale Novosti su Alì Agca, che avrebbe attentato alla vita del Papa su istigazione degli Stati Uniti.
Il secondo grande problema è proprio Jan Sejna. Questo generale viene considerato poco credibile da un sito americano: il Mia facts site. Negli interrogatori avrebbe mostrato di conoscere pochi dettagli sui movimenti degli americani nella guerra fredda e in Vietnam. Si sarebbe trasferito negli Stati Uniti solo per paura che la rivoluzione di Praga potesse metterlo in pericolo. Ma anche noi abbiamo trovato un grossa contraddizione nel suo racconto. Lo abbiamo letto integralmente sul giornale svizzero “Gazzetta ticinese”. Il 30 settembre del 1980, in una lunga intervista concessa al discusso giornalista Michael Ledeen (fu accusato di essere iscritto alla loggia P2), intitolata “Il terrore viene dal freddo”, Jan Sejna parlò anche dei filo-cinesi italiani. Affermò che la creazione nel 1964 di gruppi maoisti in Italia e Francia fu una manovra dei cecoslovacchi. L’idea - raccontò a Ledeen - fu dell’allora segretario del PC Wladimir Kouchy con l’obiettivo sia di convincere i comunisti europei che la Cina tramava per dividere il loro partito, sia per scoprire all’interno di quei partiti comunisti chi si considerasse filo-cinese, sia, infine, per stabilire contatti con Pechino e conoscere le loro intenzioni sul terrorismo.
L’ipotesi è senza dubbio affascinante, ma si scontra con i documenti originali dei servizi cecoslovacchi, da noi visionati, nei quali i sovietici di Mosca, e a ruota l’Stb (parlando con Guido Campanelli e avviando comunque un contatto con l’ex partigiano), affermavano di temere molto i maoisti e di considerarli elementi di destra. Dunque Jan Sejna, sul quale tutti tacciono in Italia, era credibile o no? Stabilirlo una volta per tutte fornirebbe molte certezze in più anche sulle Brigate Rosse. 

La soluzione più credibile al problema del terrorismo italiano è che il governo abbia preferito nascondere le prove che aveva raccolto contro i sovietici. Questa, almeno, è l'opinione che Claire Sterling espone al termine del suo libro. Perché il governo Andreotti avrebbe dovuto tacere sulle eventuali responsabilità del Kgb? Per tanti motivi - afferma l'autrice de "La trama del terrore" -: dalla salvaguardia degli equilibri est-ovest, al timore di perdere le scorte di petrolio arabo, alla presenza di partiti comunisti o filo-comunisti nella gran parte della nazione. Bellissima la frase: "Nessuna classe dominante ha fatto di più per mantenere l'impressione che il terrorismo sia imputabile solo a lei", riferita all'Italia. Ed è vero, basti pensare ai programmi, come quello di Santoro su Raitre, in cui si continuano a cavalcare le ipotesi, tipiche dei servizi dell'est, di un complotto ordito dalla Cia. Quello che è certo è che Gladio e la Cia, come abbiamo documentato, il terrorismo rosso lo combatterono, con mezzi, casomai, poco ortodossi e violenti. Ma questo è un altro discorso.
 

mercoledì 6 giugno 2018

IMI-SIR: lo Stato vince cause contro se stesso


E' veramente curioso quello che sta accadendo a ciò che resta del famoso Consorzio interbancario della SIR. Lo Stato, per mezzo di una legge del 2017, incasserà del denaro grazie all’estinzione di vertenze giudiziarie. E fin qui sarebbe tutto normale. Il problema è che le vertenze erano state attivate dai suoi stessi Ministeri! Per di più, alcune di queste avevano uno scopo sociale di enorme importanza: servivano per denunciare l’inquinamento rilevato negli stabilimenti chimici di Rovelli. E ora, da quanto leggiamo, queste inchieste giudiziarie non esistono più. 
Avevamo già detto della finta cessione ai privati del Comitato. Questo organo statale, creato dalla politica democristiana nel lontanissimo 1982, era detentore del 60% di quella che avevamo chiamato la “holding dei fallimenti”, la quale lucrava sulla chiusura degli impianti chimici della SIR e sulla vittoria delle cause intentate dai creditori della famiglia Rovelli, all’epoca proprietaria dell’azienda. Quando il Comitato fu chiuso con la legge 122 del 31 maggio 2010, quel 60% non venne privatizzato, ossia ceduto a una società qualsiasi, come fu scritto sui giornali, ma venduto alla Fintecna, che incorporò subito la nuova arrivata nella sua controllata Ligestra Tre. La Fintecna era già allora una società della Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta per un buon 80,1% nel portafoglio titoli del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Già questo bastava per capire quale giro vorticoso vi fosse sulle aziende nazionalizzate.
Ma ciò che leggiamo nel bilancio 2017 di Fintecna sta superando ogni limite. Ligestra Tre contiene tuttora, tra le voci di bilancio, la “Gestione Separata ex SIR”, che - stando al documento - sta facendo registrare ottimi risultati economici. Certo, questo avviene perché le cause che erano state intentate contro Rovelli vengono regolarmente perse! Nel 2017 è stato registrato a bilancio il positivo (per Fintecna) andamento della “vertenza attivata contro la società (e contro il Consorzio Bancario SIR) da un ex Commissario liquidatore del predetto Consorzio”. Inoltre - prosegue il documento presente sul sito di Fintecna - si è estinta la “causa a suo tempo avviata dal Ministero dell’ambiente e dal Comune di Carrara contro il Consorzio Bancario SIR in ordine alla presenza di inquinamento ambientale all’interno di un sito industriale ad Avenza in passato gestito da una società del gruppo SIR e poi ceduto alla Syndial.” Cosa si intende per estinzione? Che l’inquinamento non c’era o che la causa è stata, passateci il termine, insabbiata?
Vertenze giudiziarie chiuse significa certamente polemiche scongiurate. Ma non è solo questo che conta per i dirigenti di Fintecna. La legge 205 del 2017 consente a un collegio di nuovi periti di redigere una “valutazione estimativa intermedia” del patrimonio dell’ex SIR (e anche dell’ex EFIM, la partecipata delle armi) e di distribuire gli utili rispetto alla precedente stima in modo che il 30% finisca nelle tasche di Ligestra Due, la legittima proprietaria, e il 70% vada direttamente al Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Ma allora ci si chiede: quanti soldi ci sono in ballo se viene varata una legge apposta per questo scopo? E da dove emergeranno degli utili in un’azienda, la SIR, defunta da tempo e smembrata fin dagli anni Ottanta del secolo scorso? Non lo sappiamo proprio, però il giallo continua.

domenica 3 giugno 2018

L’affare Skoda smentisce i comunisti


Tra i finanziatori della sinistra eversiva degli anni Settanta c’erano sicuramente anche i cecoslovacchi. Una nota del Sisde del 9 marzo 1978, conservata tra gli allegati della Commissione Moro del 1996 e disponibile online, affermava che, nel periodo del sequestro del presidente democristiano, la ditta Skoda, un noto marchio di automobili, aveva versato a fondo perduto 70 milioni di vecchie lire ai dirigenti milanesi di “Autonomia operaia”, che era il gruppo diretto dal professore universitario Antonio (Toni) Negri. Fondi - sottolineava il Sisde - di chiara provenienza cecoslovacca.
A fare da tramite dell’operazione furono Nanni Balestrini del movimento “Potere operaio”, e Iaroslav Novak, studente di Scienze Politiche, anche lui iscritto a “Potere operaio”. L’agente della Skoda si chiamava invece Pietro De Stefani.
Vi fu uno scambio di corrispondenza tra i vari servizi segreti italiani. La nota finale del generale Santovito, direttore del Sismi, datata 19 ottobre del 1979, non poteva che confermare queste notizie anche se prive degli ulteriori approfondimenti che erano stati richiesti.
Siamo nel periodo in cui i cecoslovacchi, se il lettore ricorderà quanto scritto sul nostro blog a proposito del dossier dell’Stb, erano entrati in contatto con l’ex partigiano Guido Campanelli, che aveva chiesto ai servizi segreti di Praga di sostenere l’attività dell’estrema sinistra. Si ricorderà anche quanto i cecoslovacchi diffidassero di questi estremisti, sia per paura di rovinare ulteriormente i rapporti con il Partito Comunista, sia per la presenza nella sinistra italiana dei maoisti. Ciò nonostante era evidente l’intenzione dell’Stb di attivare dei canali in Italia attraverso cui diffondere la loro posizione sul terrorismo e controbattere agli attacchi che le istituzioni del nostro paese stavano lanciando contro il mondo comunista.
L’affare Skoda conferma anche quanto scritto dal professor Roberto Bartali, quando afferma nel suo lavoro “L’ombra di Yalta sugli anni di piombo” che sul terrorismo di sinistra non vi poteva essere l’influenza di una sola parte dei tanti servizi segreti in competizione tra loro.
Al contrario, su un blog comunista intitolato “Informiskrazione” è stato scritto recentemente che Toni Negri sarebbe stato un membro della massoneria, e avrebbe fatto parte di un progetto fascista di estremizzazione della politica comunista, con lo scopo di condurre il mondo proletario verso la strada sbagliata della lotta armata contro lo Stato. Un concetto che riprende a distanza di anni la campagna propagandistica della Stasi, il servizio segreto dell’ex Germania dell’Est.
Trovato il movente, secondo i giornalisti di Informiskrazione, avremmo anche il mandante del terrorismo italiano, ovvero la CIA, attraverso il famoso Centro di studio delle lingue: l’Hyperion.
L’avete mai sentito nominare? Quella di Hyperion è una storia vecchia, che non finisce mai fuori moda. Su di essa sono stati scritti libri e film (il già citato “Piazza delle Cinque Lune”, tanto per dirne uno). Ma era interessante poter offrire un giudizio dal nostro punto di vista su questo grande enigma della storia italiana, e siamo andati a cercare qualche notizia ufficiale sulle indagini all’epoca portate avanti dalla magistratura. Fortunatamente ci vengono spesso in soccorso, in storie così importanti, gli allegati delle Commissioni Moro dei decenni scorsi. Nella fattispecie fu archiviata dalla Commissione del 1995 una nota del Gabinetto del Ministero dell’Interno con la quale venivano riepilogate tutte le notizie su questa vicenda.
Hyperion aveva sede a Parigi in Quai de la Tournelle 27. Era un centro linguistico dotato di una sede molto elegante, per il cui affitto veniva pagata una somma importante. Oltre all’insegnamento delle lingue, il centro organizzava viaggi per comitive dirette in Francia, per gli italiani, e in Italia, per i francesi.
Ma cosa c’era di vero in tutto questo? Probabilmente molto poco. Ciò che si evince dalla nota del ministero, ma anche dai verbali dei numerosi interrogatori condotti dai giudici (in particolare da Mastelloni) tra il 1979 e il 1983, è che l’Hyperion potesse essere un punto di riferimento per i brigatisti per smistare il traffico di armi tra i gruppi palestinesi e l’Italia. Tra i vari nomi emersi dalle indagini vi era soprattutto quello, come molti saprete per averlo letto da altre parti, di Corrado Simioni, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Poco prima del rapimento Moro, Simioni era sotto processo insieme a Renato Curcio per istigazione a delinquere. Nell’aprile del 1971 questi pionieri del terrorismo rosso avevano pubblicato sul giornale “Nuova resistenza” articoli nei quali spingevano gli operai a “sabotare la produzione delle fabbriche distruggendo impianti e macchinari e cagionando anche lesioni personali”. Così scriveva sulla vicenda il 24 febbraio 1978 il quotidiano svizzero Libera Stampa. Poi le strade di Curcio e Simioni si erano separate, ma è difficile pensare che l’ex terrorista a Parigi si occupasse solo di linguistica francese.
Hyperion aveva aperto succursali anche a Roma e Milano, e nel capoluogo lombardo poteva contare sull’appoggio di un altro personaggio noto ai servizi segreti italiani: tale Giuseppe Sacchi, omonimo del Giovanni Sacchi, marxista-leninista, che era finito sotto inchiesta nel 1967, insieme a Michele Savi, per degli attentati che stavano preparando con il sostegno dell’ambasciata cinese. Giuseppe Sacchi, invece, risulta che avesse partecipato all’albergo Stella Maris di Chiavari, nel 1969, al convegno in cui - come recita la nota ministeriale - “vennero gettate le basi della clandestinità”. La moglie, Dimma Vezzani, faceva parte di uno dei nuclei storici delle Bierre: il “collettivo politico operai e studenti” di Reggio Emilia.
Si tratta di personaggi che in nessun caso, a parte Simioni, conducono a piste straniere dello spionaggio internazionale (sempre se il Sacchi è solo un omonimo del filocinese). Anche gli interrogatori dei giudici lasciano con l’amaro in bocca: fanno intendere che nessuno di questi signori confessò qualcosa di speciale. L’inchiesta, del resto, una volta che la stampa italiana nel 1979 cominciò a battere questa pista “fu gravemente compromessa”. La polizia francese aprì una sua indagine amministrativa, ma non se ne seppe mai nulla. Mentre i terroristi che si erano rifugiati nel loro territorio, come si ricorderà, goderono sempre di grandi protezioni politiche.
Deludente è anche la deposizione di Luigi De Sena della Questura di Roma, il quale affermò il 26 febbraio del 1983, al giudice Mastelloni, sul presunto legame tra Toni Negri e l’Hyperion, che “collegamenti tra Negri e l’istituto non se ne riscontrano”.