venerdì 13 ottobre 2017

Un giornale scagiona Luigi Ceccobelli


Luigi Ceccobelli, l’uomo di Fratta Todina che insieme a un amico nel 1977 fu arrestato a Praga dai comunisti, potrebbe non essere il protagonista del dossier cecoslovacco di cui da un anno mi sto occupando. Nei documenti ingialliti dal tempo, contenuti in un cd rom che mi era stato inviato dall’archivio dei servizi segreti comunisti di Praga, si parla più volte di un Luigi Ceccobelli, il quale viaggiava verso l’est europeo su un’Alfasud rossa targata Roma. Il 2 giugno 1977 fu identificato alla frontiera cecoslovacca insieme all’amico Ferdinando Scargetta e ad altri due giovani. Un ulteriore gruppo di Milano, stando ai documenti, stava per mettersi in viaggio per l’URSS.
L’accusa era partita da una comunista originaria della Cecoslovacchia, tale Barbara Slagorska Berardi, la quale aveva inviato il 22 aprile del 1977 una lettera scritta a mano a un parlamentare di Praga, denunciando che un gruppo di giovani del suo paese, Fratta Todina in provincia di Perugia, stava progettando attentati a Mosca e nei paesi allora socialisti.
Luigi Ceccobelli da quando l’ho contattato via Facebook ha sempre protestato la sua innocenza, anche di fronte a documenti originali in cui il suo nome figurava insieme ad altri presunti terroristi. Ciò che faceva propendere per un suo coinvolgimento era il numero di targa della sua auto. Dai documenti del dossier, ma pure dai giornali dell’epoca, si evinceva che il motivo dell’arresto di Ceccobelli e Scargetta dal 16 al 28 giugno 1977 era dovuto a incongruenze nei documenti. Imprecisioni di cui mi sembrava di trovare conferma nel voucher di viaggio che i due oggi pensionati di Fratta Todina avevano conservato, e che mi hanno mostrato, sempre via internet, quest’estate. Nel documento che li autorizzava a un giro nell’est Europa nel giugno 1977 era stato specificato che il veicolo di Ceccobelli sarebbe stato un’Alfasud rossa, recante la seguente targa: PG 297691.


Ebbene, di questo numero non vi è traccia nel dossier dei servizi cecoslovacchi, i quali il 2 giugno 1977, giorno in cui Ceccobelli era effettivamente in viaggio verso gli ex paesi socialisti, parlavano invece di un’Alfasud rossa targata Roma E 42771, con a bordo quattro giovani: Ceccobelli, Scargetta, poi un certo Roberto Sponillo o Sponsillo e Paolo Bonatti.
Era più che lecito ipotizzare che la versione fornita oggi dal Ceccobelli fosse falsa. Ma ora spunta fuori un giornale comunista che toglie molti dubbi, ma ne crea altri. Rude Pravo il 29 giugno 1977 pubblicava la notizia che ci interessa. Il testo era molto breve. Si intitolava: “Espulsione dei cittadini italiani”. Specificava che Luigi Ceccobelli e Ferdinando Scargetta erano stati arrestati, perché entrambi avevano “viaggiato insieme” con la targa automobilistica PG-297691. E aggiungeva: “I documenti di viaggio di Ceccobelli hanno dimostrato l'interferenza illegale con i registri ufficiali.” Ceccobelli e Scargetta venivano espulsi dalla Cecoslovacchia. Ma i documenti erano in regola, e il voucher originale lo dimostra. Dunque il nostro problema è ora un altro: chi viaggiò in Cecoslovacchia su un’Alfasud rossa targata Roma nelle stesse ore in cui la macchina del vero Luigi Ceccobelli effettuava il tragitto pianificato e sempre dichiarato nelle interviste?

“Altre informazioni suggeriscono che L. Ceccobelli è un membro di un gruppo neo-fascista che si occupa della preparazione di attività diversificate e terroristiche nei paesi socialisti.” Questo era il finale dell’articolo di Rude Pravo, ma delle così gravi accuse oggi sembrano cadere. Cosa può essere successo? Ceccobelli si è difeso accusando i servizi segreti comunisti di aver cercato di incastrarlo per motivi politici insieme alla signora Slagorska Berardi. Ciò potrebbe essere vero, ma certamente non avvenne per mezzo del dossier che ho ricevuto dall’archivio, perché quei documenti contrassegnati come “Top secret”, che segnalavano la presenza di un gruppo di terroristi su un’Alfasud targata Roma, dovevano essere letti solo dalle spie comuniste, e nessuno li ha mai usati per infangare il nome del signor Ceccobelli.
L’ipotesi più plausibile è che due uomini, con documenti falsi contenenti le generalità di Ceccobelli e Scargetta, partirono per la Cecoslovacchia facendosi scudo dei due ignari turisti di Fratta Todina. Potrebbe trattarsi di uomini dei servizi segreti italiani, i quali una volta entrati nei paesi dell’est potrebbero aver cambiato il numero di targa, magari anche l’auto e pure i documenti d’identità. Sul Corriere della Sera veniva spiegato in quel periodo, per esempio, che le Brigate Rosse avevano escogitato un sistema elettronico con cui riuscivano a cambiare il numero di targa anche mentre erano in viaggio. Inoltre, i cecoslovacchi non conoscevano il volto di Ceccobelli e Scargetta, perciò chiunque avrebbe potuto spacciarsi per loro, e poi eclissarsi in Cecoslovacchia, magari grazie a degli appoggi locali, come era solito fare l’editore Giangiacomo Feltrinelli, lasciando i veri titolari di quei documenti nelle mani della polizia di Praga.
Io capisco che si tratta di un’ipotesi molto fantasiosa, che non ha molto senso. Perché i servizi segreti avrebbero dovuto nascondere una missione segreta dietro la vacanza di due ignari cittadini di un paesino dell’Umbria, che all’ultimo momento avrebbero potuto cambiare idea? Eppure l’unica spiegazione che sappiamo trovare è che la storia del campo di addestramento neofascista di Fratta Todina sia servita come copertura per altri oscuri disegni eversivi.


La vera prigione di Aldo Moro era a Forte Braschi?


<La polizia romana ha scoperto una "prigione" sotterranea delle "Brigate rosse", in cui i terroristi presumibilmente detenevano Aldo Moro. Alla periferia della capitale italiana, in un luogo chiamato Primavalle è stato scoperto nel giardino di una casa residenziale un appartamento ad una profondità di 15 metri, di 12 metri quadrati di superficie, un nascondiglio con una porta mascherata da sacchetti di immondizia. Nelle casse nascoste nel giardino furono trovati anche 12.000 proiettili. Il proprietario della casa e sua moglie sono stati arrestati. L'occultamento è a circa 3 chilometri dal luogo in cui i terroristi a marzo hanno rapito Aldo Moro. I rapitori avevano quindi abbastanza tempo per arrivare al nascondiglio prima che venissero attuati i blocchi stradali.>
Questo articolo è del 19 maggio del 1978, e fu pubblicato sul quotidiano ungherese “Új Szó”. L’ho tradotto con Bing Translator e l’ho aggiustato un pochino in italiano, ma ci si può fidare. In quei giorni, 18-19 maggio, la stessa notizia era presente anche in altre testate magiare, con poche varianti. Il titolo di “Új Szó” non lasciava dubbi: “Trovata la prigione di Moro”. Eppure questa notizia non è mai uscita in Italia. E’ un fatto che per noi non esiste. Ne sono praticamente sicuro, perché ho controllato tutti gli archivi dei quotidiani disponibili. Erano passati solo 10 giorni dal ritrovamento del corpo dell’ex presidente del consiglio e presidente della DC.
Dunque nel giro di una settimana e mezza il caso Moro poteva dirsi concluso, stando a queste fonti ungheresi. Il quartiere di Primavalle, che era stato nel 1973 il teatro di una tragedia in cui morirono due giovani, figli di un dirigente del Movimento Sociale, ospita tuttora la sede dei servizi segreti italiani. Si chiama: Forte Braschi. In pratica, Moro sarebbe stato prelevato e portato dove nessuno lo avrebbe cercato, in quel momento: a casa dei nostri 007, che erano impegnati con la polizia nelle ricerche dei colpevoli della barbara strage di via Fani.
La data di quel ritrovamento della prigione di Moro non è casuale. Era il periodo in cui la polizia stava scoprendo nel quartiere limitrofo di Monteverde la tipografia delle Brigate Rosse, dove alcuni personaggi, poi passati in secondo piano sui mass media, stampavano i volantini con le rivendicazioni dei sequestri o degli omicidi delle Bierre. Questo lo si evince dai giornali italiani e anche da Rude Pravo, il quotidiano comunista cecoslovacco, il quale riferiva di armi, munizioni e passaporti dei brigatisti "maoisti" rinvenuti in un “appartamento abbandonato”. Erano i giorni in cui veniva trovata, in quel covo di via Pio Foà, la macchina da scrivere che presumibilmente apparteneva ai nostri servizi segreti. Insomma, il 20 maggio del 1978 le indagini erano arrivate a una svolta: avevano scoperto che l’avventura delle Brigate Rosse imboccava la strada di Forte Braschi, e lì si esauriva.
Un personaggio che avrebbe potuto raccontare in quel momento la vera storia delle Brigate Rosse era proprio il piemontese Silvano Girotto, il famoso Frate Mitra. E’ quanto affermava un altro articolo ungherese di quei giorni. Dopo aver esposto i dettagli del ritrovamento della prigione di Primavalle, il giornalista ungherese si occupava del processo al primo nucleo delle Bierre, che era stato istruito a Torino. Girotto avrebbe detto nella sua testimonianza che durante il periodo in cui i carabinieri del generale Dalla Chiesa lo inserirono nelle Brigate Rosse aveva accesso ai documenti del Ministero italiano degli Affari Esteri, e riceveva copia di eventuali correttivi che venivano apportati agli stessi.
Il resto della storia lo conosciamo. Il giornale ungherese, che si chiamava “Dolgoz Lapja”, lo raccontava così: Girotto “ha riferito che nel 1974, dopo essere stato costretto ad impegnarsi in incursioni di rapina, ha informato la polizia dei piani dell'organizzazione e ha fornito assistenza all'arresto di due dei loro leader, Curcio e Franceschini.”
Ma è evidente anche al lettore più ignorante che già in quel momento Girotto non poteva più dire di far parte delle Brigate Rosse, bensì di un nucleo clandestino dei nostri servizi segreti. Gli ungheresi, in linea con le spie comuniste di Praga, scrissero che le Bierre non avevano nulla a che vedere con i gruppi di sinistra. Volevano solo seminare il panico in Italia. E le vere Brigate Rosse, quelle che venivano dai movimenti del 1968, dove erano rimaste? Frate Mitra suggeriva anche questa risposta nell’articolo di “Dolgoz Lapja”. Non spiegò dove era il suo nascondiglio, disse ai giudici soltanto che “era venuto a Torino da una distanza di 9.000 chilometri.”

martedì 10 ottobre 2017

Feltrinelli fu mandante di un omicidio


Molti segreti delle Brigate Rosse potrebbero essere rimasti sepolti in Bolivia, esattamente dove in questi giorni di ottobre del 2017 il terrorista rosso Cesare Battisti cercava di fuggire. Un dispaccio segreto della CIA del 27 novembre 1972, contenente quelli che venivano definiti i “Ruben Sanchez documents”, affermava che due membri dell'esercito di liberazione boliviano, l'ELN, erano stati appena arrestati. Si trattava di Emilio Ale Maldonado, detto El Zurdo, e Jose Osvaldo Kaski, detto El Viejo. Avevano confessato alla polizia boliviana che l'omicidio di Roberto Quintanilla Pereyra, il console ucciso ad Amburgo, era stato pianificato in Cile da tre elementi: Giangiacomo Feltrinelli, che secondo le indagini aveva acquistato la pistola, "Carlos" e Osvaldo Peredo. E fu eseguito da Monika Ertl, che venne a sua volta uccisa dalla polizia nel 1973. La stranezza è che "Carlos" veniva considerato dalla CIA già deceduto come Feltrinelli, quindi potrebbe non trattarsi del famoso "sciacallo" alleato dei palestinesi e della RAF. Ma è chiaro che un ruolo deve averlo giocato pure Silvano Girotto, probabilmente come informatore della polizia boliviana.

lunedì 9 ottobre 2017

Giallo sul frate novarese che tradì le Brigate Rosse


C'è un giallo che coinvolge un frate novarese. Tutto nasce dall’assassinio del guerrigliero di sinistra Che Guevara nel 1967. Che Guevara fu ucciso dal console boliviano Quintanilla, il quale a sua volta venne fatto fuori ad Amburgo il primo aprile del 1971 da Monika Ertl, figlia di un ex nazista fuggito in Sudamerica. La Ertl era una collaboratrice di Frate Mitra. Molte fonti, anche siti italiani, affermano che per liquidare Quintanilla fu usata la pistola di Giangiacomo Feltrinelli. Ciò significa che Frate Mitra e le Brigate Rosse lavoravano insieme già prima della famosa infiltrazione del generale Dalla Chiesa, che infatti ha molti lati oscuri. Frate Mitra, il cui vero nome era Silvano Girotto e aveva iniziato il sacerdozio sul lago D'Orta, secondo la Stasi era una spia del BND di Bonn da diversi anni quando i carabinieri lo utilizzarono. Il prof Bartali nel libro "L'ombra di Yalta sugli anni di piombo" utilizza l'audizione di Frate Mitra nella commissione del senato del 2000. Tuttavia il dettaglio non indifferente che la Ertl fosse una sua "collaboratrice" lo si ottiene da un'intera pagina che il Corriere della Sera dedicò al frate barricadero il 20 giugno del 1973, molto prima dell'infiltrazione di Dalla Chiesa. La firma era di Maurizio Chierici, che al frate piemontese dedicò in quello stesso periodo, nel 1973, persino un libro, che si intitolava: “Fratello mitra”; cui fece seguito un film con Franco Nero. Tra il 1969 e il 1971,
Silvano Girotto (che indossato il saio volle chiamarsi padre Leone) aveva scelto di andare in missione in Bolivia. Questi nuovi dettagli fanno intuire che la storia ufficiale, secondo cui i carabinieri nell'estate del 1974 arrestarono i capi delle Bierre infiltrando Frate Mitra, non regge. 

venerdì 6 ottobre 2017

Gli americani del Cairo indagavano sul caso Moro


Dal 2014 risulta declassificata nel sito di Wikileaks una serie di telegrammi che tra il 16 e il 22 marzo 1978 ebbero come oggetto il rapimento Moro. Il 16 marzo 1978 parte dal Dipartimento di Stato statunitense verso Milano, Roma e Madrid, in Spagna, un telegramma firmato da Cyrus Vance, che ha ricoperto l’incarico di segretario di Stato dal 1977 al 1980. Viene concordato il messaggio che il presidente statunitense Jimmy Carter invierà al presidente della repubblica italiana Giovanni Leone. Il nome di Moro risulta in una prima versione censurata storpiato in “Morra”. Si susseguono alcuni scambi di informazioni. Il 17 marzo del 1978 parte da El Salvador dall’ambasciatore statunitense Frank J. Devine, verso il Segretario di Stato negli USA, la richiesta di conoscere dettagli sui terroristi di via Fani. Domande più dettagliate erano state poste il 16 marzo dal Dipartimento di Stato di Washington verso l'ambasciata di Roma. Una relazione con la risposta parte il giorno seguente, il 17 marzo 1978, e, una volta ricevuta da Roma dal Dipartimento di Stato, viene girata al Cairo, in Egitto, il giorno 18. A parlare sono l’ambasciatore Gardner e il segretario Vance. Affermano tra le altre cose: “Si ritiene che i terroristi abbiano usato una "Tula Tokarev TT", una pistola automatica russa risalente al 1930." "Tra i 77 bossoli trovati sulla scena ne sono stati identificati alcuni da una pistola "NAGANT", un’altra arma russa risalente ai giorni dell'esercito zarista." Il 21 marzo 1978 gli americani del Cairo rispondono a Washington. Chiedono di sapere ancora di più. Si vogliono attrezzare per addestrare le loro guardie del corpo. L'ambasciatore Eilts per esempio voleva vedere le fotografie dei poliziotti morti in via Fani nell’Alfetta. Specificava che sarebbero servite per mantenere alta l’allerta dei loro reparti di sicurezza: “Il rispetto per la morte dei colleghi poliziotti può impressionarli.” Il motivo della preoccupazione degli americani in Egitto, nel marzo 1978, era la proposta "rivoluzionaria" di Sadat. Voleva stipulare una pace con Israele dopo gli anni della guerra dello Yom Kippur.