venerdì 22 dicembre 2017

Quell’incubo nucleare su Ustica

Un A-7 Corsair statunitense simile a quello caduto a Ustica il 10 novembre 1969, in una foto del 1968 di Terry Anderson archiviata su Wikimedia Commons.
Sono le ore 10 di una calda mattina d’autunno del 1969. E’ il 10 novembre, per l’esattezza, un periodo di scioperi che verrà poi ricordato come l’”autunno caldo” della contestazione. Un mese più tardi una bomba esploderà nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, nel centro di Milano, seminando morti, panico, provocando indagini e processi infiniti. Ma tutto questo non lo può immaginare il pilota dell’aereo A-7 Corsair dell’aviazione statunitense, che sta sorvolando il cielo di Ustica.
E’ decollato dalla portaerei Saratoga, e poi ha fatto perdere le sue tracce. Partono richieste di soccorso verso la capitaneria di porto di Palermo, di Trapani e di “Marisicilia”. Lo raccontano i giornali che escono il giorno 11 novembre 1969 con questa notizia. La Stampa gli dedica un piccolo articolo, L’Unità, un’intera pagina.
Per i comunisti è l’ennesimo scandalo targato NATO. Si tratta di militari, e perciò avranno ancora una volta qualcosa da nascondere. L’A-7 Corsair sembra che stesse effettuando un normale volo di ricognizione. Ma è un aereo da guerra, probabilmente pieno di armi, di missili, forse anche a testata nucleare.
Ed è subito giallo, perché siamo in guerra fredda, è in corso il conflitto in Vietnam, e la versione ufficiale fornita dai vertici militari della marina statunitense non convince nessuno, né il governo italiano interviene per fare luce sull’accaduto. Del resto quando i soccorsi delle forze armate italiane sono partiti, il comando statunitense li ha bloccati e rimandati a casa. Sul posto si stavano recando direttamente i militari americani della sesta flotta. Il pilota dopo poche ore viene dato per disperso. Non si sapranno mai il suo nome e la sua sorte. Secondo il quotidiano L’Unità, i comunicati ufficiali, diramati attraverso l’agenzia Ansa, arrivano dopo le 21 dello stesso 10 novembre, precisamente un primo alle 21 e 14 e un altro alle 21 e 45.
Il luogo dell’incidente resta comunque poco chiaro. Per L’Unità l’aereo statunitense è caduto quasi certamente vicino all’isola di Ustica, perché le prime richieste di soccorso fornivano quelle coordinate, mentre secondo La Stampa (gli articoli non sono mai firmati) si sarebbe inabissato a 60 miglia dalle coste siciliane e a una quarantina dall’isola di Ustica. L’aereo civile DC-9 dell’Itavia che precipitò nel 1980 fu ritrovato più a est, tra Ustica e l’altra isola di Ponza, anche se, essendo esploso in volo, i suoi rottami si sparsero in un braccio di mare molto ampio.
Ma quello caduto undici anni prima era un aereo militare, dunque dotato di armi. Il comunicato statunitense - secondo il quotidiano comunista L’Unità - non smentiva che l’A-7 Corsair potesse aver portato con sé negli abissi marini delle testate atomiche. Lo si escludeva soltanto perché gli americani specificavano che si trattava di un caccia intercettore, e per queste caratteristiche doveva risultare molto leggero. Sulla Stampa del 12 novembre 1969 ecco dunque la smentita categorica con un altro articolo. “Non recava bombe H l’aereo inabissatosi nel Mediterraneo”, titolava il quotidiano della famiglia Agnelli. La smentita arrivava dal comando NATO di Napoli, che intendeva replicare a “supposizioni infondate”, dovute alla richiesta di annullare i soccorsi dei militari italiani.
Tutto questo prodigarsi in scuse con il timbro ufficiale, ad ogni modo, non era sufficiente a fugare tutti i dubbi. Anzi. Il 20 novembre 1969 era un giornale ungherese, Nepujsag, a tornare sull’argomento parlando proprio di mistero fitto e di un rischio nucleare per la Sicilia. Grazie al resoconto di un corrispondente dell’agenzia sovietica Tass affermava: “Gli americani non consentono nemmeno al comando NATO di effettuare la ricerca, e i soccorsi sono gestiti solo da unità della sesta flotta degli Stati Uniti.”
Il fatto che il nome del pilota restasse segreto era la prova che gli Stati Uniti cercavano di nascondere qualcosa. “Le autorità locali italiane - proseguiva il giornale magiaro - sostengono che il disastro non si è verificato sulle acque territoriali italiane, ma in alto mare, presumibilmente a 60 miglia dalle coste italiane tra Ustica e la Sardegna. Se questo è il caso, allora logicamente si può presumere che altre navi di soccorso inviate alle navi da guerra, aerei, elicotteri e "Corsair" statunitensi rimangano nell'area indicata. I corrispondenti della redazione di Palermo della radio e della televisione italiana hanno fatto il giro con un aereo sopra l'area designata martedì, ma non hanno visto questi soccorsi.” “Non c'è dubbio che qualcosa si sta nascondendo e questo "qualcosa" è un pericoloso bombardamento che causa contaminazione radioattiva, scriveva L’Unita mercoledì.”
Infatti il giornale del Partito Comunista già martedì 11 novembre aveva pubblicato un secondo articolo, sotto alla notizia della scomparsa dell’A-7 Corsair, nel quale rimarcava che erano già una quarantina, in tutto il mondo, i velivoli della NATO precipitati con il loro carico atomico. Un caso eclatante era capitato nel 1966 in Spagna, a Palomares. Ma non solo. Sempre a Ustica un altro aereo militare era precipitato intorno alla mezzanotte tra sabato 8 e domenica 9 agosto del 1953. In questo caso si trattava di un C-119 da trasporto del tipo “Flyng box car” ovvero “vagone volante”. Lo raccontava nel numero del 10-11 agosto 1953 il quotidiano La Stampa. Il velivolo apparteneva al comando americano di Wiesbaden, nell’ex Germania Ovest. Era partito da Udine e percorreva la consueta rotta verso Tripoli, dove sarebbe dovuto atterrare. Ma non lo si vide arrivare. Le ricerche furono condotte da mezzi aero-navali di quattro nazioni: Italia, Francia, Stati Uniti e Inghilterra. Il risultato fu il salvataggio di cinque dispersi, mentre nulla si seppe degli altri 19 militari, scomparsi tra i flutti del mar Tirreno, che era agitato per le cattive condizioni atmosferiche. 
Ancora un’altra tragedia si consumò a Ustica mercoledì 24 agosto del 1955, e vittima ne fu un altro velivolo militare, un bimotore C-45 di ricognizione della Guardia di Finanza. Decollato alle 15 da Palermo, per rintracciare una nave di contrabbandieri di tabacchi esteri, si inabissò per un problema tecnico vicino all’isola di Ustica, mentre volava a pelo d’acqua per permettere a un agente di fotografare i contrabbandieri. I militari a bordo erano quattro, Giuseppe Russo, Vincenzo Ganci La Rosa, Giuseppe Gandolfo, Luigi Giglio. Si misero in salvo con un battello pneumatico, mentre il C-45 si inabissava nelle acque di Ustica. I quattro naufraghi furono prelevati dai contrabbandieri, i quali, armi in pugno, offrirono ai militari la salvezza su una nave di passaggio, a patto che non fossero denunciati prima delle quattro del mattino, in modo da poter sfuggire all’arresto. E così pare che le cose andarono.
Storie affascinanti, che riemergono dalle polveri digitali dei giornali, i quali accostano in pochi secondi epiche imprese della guerra fredda a cronache dei nostri giorni. Ciò non toglie che undici anni sono troppo pochi, tra il giallo dell’A-7 statunitense e il mistero del DC-9, per poter credere che sia tutto merito degli archivi di internet. Non è possibile che i giornalisti che raccontarono la tragedia di Punta Raisi del 1978 e quella di Ustica del 1980 potessero aver dimenticato le tragedie precedenti, né potevano evitare di porsi degli interrogativi. Che fine avranno fatto quei velivoli inabissatisi tra i flutti? Come è stato possibile che, quando fu recuperata la carcassa del DC-9, molti anni dopo la strage, nessuno notò nei fondali, peraltro altissimi in quella zona (sui 3700 metri), i pezzi degli altri aerei caduti in acqua? Erano stati tutti recuperati? E con loro le armi nucleari?
Sì, perché senza voler lanciare allarmismi, è tuttavia chiaro che l’A-7 Corsair dovesse essere dotato di armi, quel 10 novembre del 1969. Wikipedia spiega che si tratta di un velivolo utilizzato dal 1967 al 1991, dotato di lanciarazzi, bombe al Napalm, missili antiradar e missili nucleari anti-nave. Per sottostare ai limiti di portata, quegli aerei venivano fatti decollare con i serbatoi semi-vuoti, sfruttando dei kit aerocisterna del “Greyhound” durante il volo. In questo modo potevano volare armati di tutto punto.
Dunque che quel giorno l’aereo della NATO fosse del tutto privo di armi è difficile crederlo. Quanto invece alla portaerei Saratoga, da cui partì l’A-7 Corsair, non dovrebbe essere confusa con la nave che secondo Wikipedia fu messa fuori uso nel 1946 da un incidente in un test nucleare. Infatti risulta che una portaerei Saratoga era ancora attiva durante la prima guerra del Golfo Persico, contro l’Irak di Saddam Hussein, nel 1991.
E’ possibile che nel golfo di Napoli si aggirasse durante la guerra fredda anche una nave spia dei russi, perché lo accennava un opuscolo della Democrazia Cristiana nel 1953. Lo scenario di guerra di cui si è spesso parlato per la strage del DC-9 del 1980 viene in questo modo pienamente confermata. Gli incidenti di cui abbiamo parlato spiegano pure tutte le attenzioni dell’ambasciata americana per quei Cessna che precipitarono, nel dicembre 1978, sempre sulla rotta Friuli-Sicilia. E per quel volo Alitalia che il 23 dicembre dello stesso anno precipitò uccidendo 108 persone.
Ma avevano davvero qualcosa da nascondere gli statunitensi nel 1980? Oppure i depistaggi sulle reali cause dell’incidente del DC-9 furono dovuti a un attentato del colonnello libico Gheddafi, con il quale la loggia P2 aveva stretto un patto segreto, denunciato dal famigerato dossier Mi-Fo-Biali, con cui si stabiliva la cessione dei segreti della nostra difesa aerea in cambio di petrolio a basso costo?

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