sabato 10 novembre 2018

La “geometrica potenza” di... Bin Laden


C’è un personaggio della sinistra violenta degli anni ‘70 che è tornato alla ribalta alcuni anni fa, esattamente il 10 giugno del 2015. Quel giorno qualcuno si era accorto, ma più per fare propaganda elettorale che per altro, che al raduno della nuova formazione politica di Maurizio Landini, Coalizione Sociale, c’era un tale che si chiamava Franco Piperno. Uno che ammirava Landini in quanto gli ricordava il 1968: “Mi fa pensare ai capi operai del '68, ha una partecipazione e un'aggressività che ricorda quel buon odio di classe di una volta.”
Di sparate questo professor Piperno (è un uomo di grande cultura e lo si nota da come scrive) ne aveva fatte altre in tempi meno recenti. Ad esempio, nel 2011 su un quotidiano calabrese era comparso un suo articolo sull’11 settembre 2001, nel quale si poteva individuare quasi una rivendicazione dell’attentato al World Trade Center di New York. Scrisse a un certo punto questa frase: “Come si fa ad onorare i mercenari americani che per mestiere uccidono, utilizzando i droni per non correre alcun rischio; uccidono, per la mercede, esseri umani che non hanno alcun motivo di odiare; mentre andrebbero considerati vili quel pugno audace di intellettuali – alcuni di loro avevano perfino superato l’esame di fluidodinamica - che, utilizzando dei temperini, si impadroniscono di quattro enormi aerei di linea, facendo fronte agli equipaggi e a centinaia di passeggeri, per uccidersi ed uccidere, schiantandosi sui quei mostri di vetro e cemento simboli dell’impero americano?” Secondo Piperno erano stati, non dei terroristi, bensì degli intellettuali arabi a compiere l’attacco, e il risultato era la distruzione dei mostri di cemento simbolo del capitalismo. Era tornato il linguaggio di Potere Operaio. Lo stesso che Piperno adoperò per descrivere la strage di via Fani, del 16 marzo 1978: “La geometrica potenza dispiegata in via Fani”.
Franco Piperno è nato nel 1943 a Catanzaro ed è stato il fondatore, insieme a Toni Negri, del gruppo politico Potere Operaio, divenendone leader con Oreste Scalzone, Lanfranco Pace e Valerio Morucci. In un’intervista andata in onda sulla Rai nel 1983, Giovanni Minoli lo definì, “La testa pensante dell’Autonomia”, e anche “la primula rossa dell’eversione”, perché quando fu spiccato il mandato di cattura nei suoi confronti, per l’appartenenza al terrorismo, era fuggito all’estero, in Francia. Era la fine degli anni ‘70, Piperno era già un professore di Fisica dell’Università di Cosenza. Fu colui che più di tutti teorizzava la militarizzazione del movimento Potere Operaio e sognava un’insurrezione armata, che, appunto, coniugasse la “geometrica potenza” di via Fani con le proteste giovanili del 1977.
Dei tanti capi di imputazione a suo carico (sui quali disse a Minoli che non esisteva alcuna prova concreta), il più inquietante e interessante dal punto di vista storico era l’accusa di aver partecipato al delitto Moro. Tutto era nato dalla deposizione di Giuliana Conforto, che nel 1979 aveva ospitato a casa sua, in viale Giulio Cesare a Roma, i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, ed era stata per questo arrestata. La Conforto, si scoprirà solo nel 1999, era la figlia di una spia del KGB, Giorgio Conforto, nome in codice “Dario”, un comunista che in passato aveva creato un’insospettabile rete di spie attraverso dattilografe assunte nei ministeri italiani. “La donna - scrisse Mitrokhin nel suo archivio a proposito di Giuliana Conforto - aveva funto da custode di un appartamento adoperato dai terroristi e, come si chiarì in seguito, era stata usata a sua insaputa. Conforto non sapeva del legame di sua figlia con i terroristi e si trovava nell'appartamento della figlia quando questa venne arrestata insieme alle altre due terroriste. La Residentura del KGB prese nota di questo fatto e, considerando che la circostanza poteva far sì che lo stesso Conforto fosse interrogato dai Servizi Speciali italiani, lo congelò nuovamente.”
Da queste parole non sembra affatto chiaro se Piperno fosse al servizio del KGB quando fondò Potere Operaio, né se la strage di via Fani a cui parteciparono Morucci e la Faranda fosse stata progettata dai russi. Tuttavia le polemiche nel 1999, alla pubblicazione dell’archivio Mitrokhin, furono roventi. Secondo un articolo della Stampa del 14 ottobre 1999, intitolato “Il giallo dei fascicoli scomparsi”, il deputato Enzo Fragalà di Alleanza Nazionale aveva rispolverato un vecchio rapporto della Digos del 1979 nel quale si affermava che Giuliana Conforto era amica di Luciana Bozzi, proprietaria di un altro appartamento delle Brigate Rosse scoperto prima della morte del presidente Moro, quello di via Gradoli. Entrambe le donne lavoravano al centro nucleare Enea Casaccia. Per la Digos c’era “la mano” di Franco Piperno.
Con le conoscenze da noi acquisite possiamo affermare che l’onorevole Fragalà aveva ragione a essere sospettoso, anche se restano diverse zone d’ombra. Intanto, la presenza di Piperno nel centro nucleare (è certo che vi compilò la tesi di laurea) poteva non essere casuale. Abbiamo visto nel dossier cecoslovacco come per i sovietici il terrorismo fosse un’invenzione degli Stati Uniti e che considerassero gli esperimenti nucleari occidentali i maggiori ostacoli alla pace internazionale. Quindi il centro Enea Casaccia era un punto strategico in cui inserire un informatore. Basti pensare che al progetto Tokamak dell’Enea lavorava anche il dissidente russo Andrej Sacharov. Inoltre nel libro di Luigi Manconi “Vivere con il terrorismo” abbiamo trovato un’altra notizia: Morucci e la Faranda si trovavano in casa di Giuliana Conforto poiché stavano allontanandosi dalla lotta armata. Lo affermava all’epoca, era il 1980, quello che Manconi chiamava “il clandestino”: Claudio F., un terrorista che raccontava la sua vita passata a progettare attentati, difendendo la sua scelta. Alla clandestinità si può liberamente rinunciare, questo era il concetto. Ma era probabilmente una sua illusione. I due terroristi arrestati in viale Giulio Cesare a casa della Conforto avevano - secondo Claudio F. - commesso solo l’errore di portare con loro le armi.
Dunque Giorgio Conforto poteva benissimo non sapere che Morucci e la Faranda, allontanandosi dalle Brigate Rosse, fossero finiti in casa di sua figlia. Perché, come spiegava Claire Sterling, il KGB cercava di evitare il più possibile i contatti diretti con le organizzazioni eversive. Ben più interessante è poi la scoperta, avvenuta sempre nel 1979, di un collegamento diretto tra le azioni del terrorismo rosso e la Ndrangheta. Ancora una volta era dalla provincia di Rieti che emergeva la verità. L’allora sostituto procuratore Domenico Sica aveva intuito che un gruppo di terroristi di Vescovio (Rieti), che agiva sotto la sigla delle Unità Combattenti Comuniste (UCC), era in stretto contatto con i “picciotti” calabresi, e tra i sospettati vi era anche l’ex moglie di Franco Piperno, Fiora Pirri Ardizzone. Fu arrestata a Licoli (Napoli) il 7 aprile del 1978 in una base di Prima Linea insieme a Lanfranco Caminiti. Nel casolare di Vescovio furono trovati documenti appartenenti allo stesso stock di via Gradoli.
Nonostante questi progressi, le indagini su Franco Piperno non fecero molta strada. Negli anni ‘80 il fondatore di Potere Operaio si rifugiò in Francia e poi in Canada. Il carcere italiano ebbe poche occasioni per conoscerlo. Quando rientrò nel nostro paese, stando a quanto scrive Wikipedia, la sua pena, due anni per “partecipazione ad associazione sovversiva”, era ormai prescritta. Un curioso trafiletto della Stampa dell’8 marzo 1998 titolava: “Franco Piperno riabilitato dal tribunale, non è più sovversivo”. Come Silvio Berlusconi, dopo aver evitato il carcere, aveva avviato la procedura per cancellare gli effetti della condanna penale, in modo da tornare candidamente a fare politica. “Mi sono sottoposto a questo stupido rito della riabilitazione perché ho una passione politica e civile per il mio paese e voglio partecipare”, disse nel virgolettato della Stampa, non sapendo che quello “stupido rito” lo avrebbe scelto, con molto più entusiasmo, anche il Cavaliere. E’ quindi diventato assessore alla cultura del comune di Cosenza e all’elezione per la presidenza della repubblica del 2006, pensate un po’, ricevette in totale cinque voti. Quello che scriveva Lino Jannuzzi su Tempo stava per divenire realtà: abbiamo rischiato seriamente di diventare tutti brigatisti.  

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