lunedì 26 novembre 2018

Barbara Slagorska Berardi aveva ragione?

La casa di Fratta Todina in cui abitava nel 1977 Barbara Slagorska Berardi

La signora di Fratta Todina, che scrisse nell’aprile del 1977 al governo cecoslovacco per denunciare futuri attentati, forse aveva ragione. Forse aveva visto qualcosa e ora quel qualcosa è emerso.
Partiamo dalla fine di questa storia, che ricostruiamo grazie agli archivi della Stampa e dell’Unità. Il 12 dicembre del 2000 due uomini rapinano una banca di Todi, la filiale del Monte dei Paschi di Siena. Si prendono 25 milioni di vecchie lire, poi fuggono. Ma si imbattono in un maresciallo dei carabinieri, che gli intima l’alt, spara. I due ladri tirano fuori la pistola e rispondono al fuoco. Parte l’inseguimento. I ladri rubano un’auto, tamponano, poi ne rubano un’altra e alla fine vanno a sbattere e si arrendono. Uno si dichiara subito prigioniero politico. Sembrano tornati gli anni di Piombo. I due sono vecchie conoscenze, ci racconta Francesco Grignetti della Stampa. Si chiamano Giorgio Panizzari (colui che si è dichiarato prigioniero politico), fondatore dei Nap, il gruppo terroristico nato nelle carceri, e Leonardo Viganò, ex terrorista dei Nar. Rossi e neri insieme. Nessuno sa che per la Stasi i Nap in realtà erano terroristi di destra.
L’anno prima, il 1999, l’Italia è ripiombata nell’incubo con l’omicidio D’Antona, rivendicato dalle Nuove Brigate Rosse. Dopo il colpo fallito alla banca di Todi, in molti sospettano che Panizzari sia uno dei leader del redivivo nucleo terroristico. I magistrati ipotizzano che abbia partecipato anche all’uccisione di D’Antona, il consulente del ministro Bassolino. Ne avrebbero ottime ragioni. L’ex nappista, dopo essere stato a lungo in prigione, nel 1998 è stato graziato dal presidente della repubblica Scalfaro (il processo per l’omicidio del gioielliere nel 1970 fu molto discusso negli ambienti di sinistra), e al momento del delitto è già libero. Lavora a progetti informatici. Uscito in semilibertà nel 1994, secondo gli investigatori aveva già rapinato altre banche, e sempre accompagnando i terroristi neri dei Nar. Ma poi in Appello era stato assolto.
Nel 2003 accade un nuovo episodio che segna il destino delle indagini sul delitto D’Antona. A raccontarci questa storia è Laura Montanari della Repubblica. Il 2 marzo di quell’anno due brigatisti, Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, stanno viaggiando sotto falso nome sul treno Roma-Firenze, quando incappano in un controllo di routine della Polfer. Galesi fornisce al poliziotto i suoi documenti, ma si sente spacciato. Verrà scoperto e denunciato. Tira fuori la pistola e spara, uccidendo il sovrintendente Emanuele Petri, di soli 48 anni. Nel conflitto a fuoco perde la vita anche lui. La Lioce si salva e viene arrestata. Si dichiara prigioniera politica, naturalmente.
Le indagini portano ad altri membri delle Nuove Brigate Rosse. Sul banco degli imputati del delitto D’Antona ci finiscono, a questo punto, questi terroristi molto tecnologici. La Lioce viaggiava col suo inseparabile palmare, pieno di documenti. Tutto porterebbe verso un legame con Panizzari, invece l’accostamento dei rossi Nap e dei neri Nar, suggerito dalle sue rapine, viene completamente dimenticato. Anche Todi, la cittadina umbra che l’ex Nap aveva scelto per svaligiare la banca, poteva non essere frutto del caso. Certo, si tratta di un posto tranquillo nella verde Umbria. Ma è anche a soli 76 chilometri da Rieti. E più o meno alla stessa distanza da Torri in Sabina, dove la magistratura aveva scoperto un particolare volto dell’eversione italiana. Si dice che l’assassino torni sempre sul luogo del delitto. Chissà, magari a volte succede.
Dobbiamo tornare ancora indietro, al 1979. Il 31 luglio esce su tutti i quotidiani italiani la notizia che la magistratura sta ricostruendo i mille volti di questo terrorismo nostrano. Dopo aver intuito che i rossi collaborano con il gruppo nero di Terza Posizione, gli inquirenti sono arrivati a un nuovo punto di svolta. Questi comunisti delle Unità Combattenti Comuniste (dette UCC) hanno un intermediario che li aiuta: è la ndrangheta calabrese di don Mancuso (curiosa l’omonimia con il monte calabrese su cui sorgeva la base della NATO). Ma come si è arrivati a questa certezza e cosa c’entra l’Umbria in tutto questo, a parte la vicinanza chilometrica? A indagare ormai ci sono svariati giudici: Giovanni Canzio, Mario Amato, e poi Domenico Sica e Ferdinando Imposimato. Fabrizio Carbone della Stampa ci informa quel 31 luglio 1979 che l’inchiesta è partita dall’omicidio di un militare di leva, tale Giuseppe Andria, che avrebbe avuto il ruolo del telefonista in alcuni sequestri e che, insistendo per avere il suo pagamento, fu ucciso dalla ndrangheta. Si è così giunti a scoprire un casolare a Vescovio, vicino Torri in Sabina, che fungeva da base delle Unità Combattenti Comuniste. Sarebbe stata la stessa ndrangheta a fare la soffiata, per sbarazzarsi di un gruppo divenuto scomodo. Ora quindi emergono tre figure nuove del terrorismo: Ina Maria Pecchia e due cugini, Piero e Gian Pietro Bonano. Appartengono al gruppo di Potere Operaio, del quale fanno parte anche Valerio Morucci e Adriana Faranda. Si comincia a vociferare che dalle UCC siano partiti ingenti fondi in denaro per il gruppo culturale Metropoli di Scalzone, Piperno e Negri. Sarà vero? A noi non interessa, per il momento. E’ molto importante invece la parte finale dell’articolo di Fabrizio Carbone. Durante le indagini nel casolare di Vescovio, di proprietà della Pecchia e dei Bonano, sono stati rinvenuti documenti contraffatti e armi. Gli indagati probabilmente stanno parlando e hanno fornito indicazioni al generale dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, per trovare un’altra base delle UCC, che si trova in Umbria, a Pantalla di Todi. Si tratta di un borgo medievale attaccato a Fratta Todina, quello da cui era partita la denuncia della signora Slagorska Berardi.
Dunque, la donna settantenne aveva ragione? Quando la signora Slagorska Berardi, parlando con la spia dell’Stb, raccontava di macchine che si fermavano a Fratta Todina e caricavano armi, si riferiva a un passaggio di automobili che si dirigevano a Pantalla di Todi? I tempi coinciderebbero. Un articolo delle pagine locali dell’Unità, sempre datato 31 luglio 1979, precisava che i tre proprietari del casolare di Pantalla avevano effettuato l’acquisto nel 1977, pagandolo due milioni e mezzo di vecchie lire. Quando il generale Dalla Chiesa rinvenne quel covo lo trovò vuoto. Era stato mai utilizzato? Gli inquirenti rimasero colpiti da un cunicolo di quattro metri che poteva servire per nascondere armi e prigionieri.
Luigi Ceccobelli, l’uomo accusato dalla Slagorska Berardi, ha sostenuto nella mia intervista che in Umbria non era pensabile che vi fossero campi di addestramento per neofascisti. Questi fatti lo smentiscono in parte, anche se vanno precisate alcune cose. Se si prendesse alla lettera l’accusa della signora Berardi, anche i carabinieri sarebbero coinvolti nel terrorismo, poiché la donna non li considerava affidabili, tant’è che si rivolse alle spie della ex Cecoslovacchia. Mentre abbiamo appena visto che furono i carabinieri di Dalla Chiesa a scoprire il covo di Pantalla di Todi. Inoltre, nessuno dei nomi che le spie dell’Stb scrissero nei loro rapporti compare nella lista degli indagati della magistratura di Rieti. Né Ceccobelli, né i suoi presunti complici, tra cui figurava persino un fotografo famoso come Rodrigo Pais. Ciò significa che le due storie sono completamente diverse, come sostiene lo stesso Ceccobelli, oppure che sugli intrighi che coinvolgevano neri, rossi e mafiosi ci sono dei capitoli ancora da scrivere.

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