giovedì 18 giugno 2020

1986, Italia e Belgrado si accordano per quale guerra?


Tra i tanti scheletri nell’armadio della prima repubblica c’è anche un accordo militare assai nebuloso tra Italia ed ex Jugoslavia. L’annuncio fu dato giovedì 6 marzo 1986 sul quotidiano La Stampa: il Ministro della Difesa, Giovanni Spadolini, stava per condurre in porto il primo accordo militare con Belgrado, tecnico-militare, per la precisione. Ad accoglierlo c’erano il ministro jugoslavo, Branko Mamula, e una folta schiera di militari titini.
Gli incontri avvennero nella capitale dell’ex Jugoslavia. “E questo - sottolineava l’ex presidente del consiglio, rappresentante del Partito Repubblicano - anche se noi siamo nella NATO e loro un paese non allineato.”
Dunque una follia consapevole, quella compiuta dall’ex Ministro della Difesa, perché altre spiegazioni non riusciamo a trovarle. I termini dell’accordo - scriveva La Stampa - consistevano in una “cooperazione per la ricerca scientifica collegata agli armamenti, la possibile coproduzione di attrezzature, lo scambio di informazioni e conoscenze sulle tecnologie emergenti e la costituzione di un comitato per la cooperazione economico-militare.”
Beh, è chiaro che il nostro pensiero non può che correre al monte Conero, che abbiamo lasciato ostaggio di missili Jupiter degli americani e di pericolose armi atomiche. Spadolini, che proprio in quel periodo aveva seccamente smentito una possibile presenza di armi nucleari sopra il bel mare di Portonovo, intendeva condividere anche quel tipo di tecnologia con la sua controparte? E’ lecito azzardarlo, in quanto nella conferenza stampa di quel giorno, che Spadolini condusse accanto al busto dell’ormai defunto maresciallo Tito, si parlò proprio di missili NATO. Era ancora viva la preoccupazione per il terrorismo, e, secondo il nostro ministro, quale migliore strategia potevamo escogitare se non stringere un accordo con coloro che pochi mesi prima avevano concesso asilo politico al fuggiasco omicida dell’Achille Lauro, Abu Abbas? 
Spadolini affermò che i missili statunitensi era giusto installarli sul nostro paese (si riferiva ovviamente all’unica base di cui all’epoca l’opinione pubblica discuteva, Comiso, ndr), ma che nessuna missione era prevista nel Mediterraneo. E allora perché questo accordo, si domandavano tutti. Forse nascerà una terza posizione in mezzo a USA e URSS? Un qualcosa con quel sinistro appellativo, in realtà, già l’avevamo avuto senza bisogno degli Jugoslavi. E allora? Tra una gaffe di Spadolini sull’improprio confronto tra la guerra Iran-Irak e quella dei Balcani del 1912, e qualche altra domanda dei giornalisti, il pezzo di Alberto Rapisarda si concludeva senza altre grosse rivelazioni. 
Ma non fu l’unico. Il giorno successivo il cronista della Stampa tornava sull’argomento per rimarcare che, finalmente, dopo anni di diffidenze, Italia e Jugoslavia avrebbero condiviso informazioni, non solo nel settore tecnologico e scientifico, ma anche “dottrinale, strategico e addestrativo”. Sì, insomma, gli Jugoslavi ci tenevano a fare qualche esercitazione insieme ai nostri militari, per farla breve, e possiamo anche aggiungere che già nel 1980 la NATO aveva partecipato a un addestramento delle forze armate di Tito. Per Spadolini, la vicenda Abu Abbas era solo un brutto ricordo, si fidava ciecamente di Belgrado per ristabilire la pace nel Mediterraneo. 
E intanto verso la capitale serba venivano aumentate le nostre esportazioni di armi. Il 1986 era un periodo di grave crisi per la ex Jugoslavia, crisi politica interna e crisi economica, con un deficit di bilancio ormai incolmabile. Così, quale migliore idea se non investire nelle armi italiane? Forse costavano poco, azzardiamo. “Gli jugoslavi sono molto interessati ai nostri sistemi militari elettronici - aveva scritto Alberto Rapisarda il 5 marzo 1986 -: radar, apparati di puntamento, missili anticarro, missili ‘Otomat’.” E visto che negli scambi commerciali con Belgrado eravamo tra i primi al mondo, ecco un’occasione per far salire le aziende italiane, partecipate dell’Efim e non, da 130 miliardi di fatturato a cifre molto più alte.
Peccato che questo ciclo di articoli, non solo di Rapisarda ma anche miei, in genere si concluda quando chiude i battenti l’ufficio stampa e chi ha organizzato la conferenza, con tanto di buffet e brindisi finale, manda tutti i giornalisti a casa con la pancia piena. 
Peccato perché ne avremmo voluto sapere di più. La storia della Jugoslavia è assai complessa. Un bellissimo documentario della tv svizzera spiegava qualche anno fa che, alla morte di Tito, le cose cominciarono a prendere subito una brutta piega. Le varie etnie ed ideologie entrarono in conflitto. Milosevic e Tudjman, serbi e croati, lanciarono l’uno contro l’altro velenose campagne di stampa, strumentalizzando anche fatti storici della seconda guerra mondiale, simili a quelli che adoperano i nostri politici per litigare in televisione, dividendosi tra tifoserie della Resistenza e ultras della Repubblica di Salò. 
Sappiamo tutti come andò a finire. Nel 1982, sempre sul quotidiano La Stampa, i comunisti jugoslavi avevano già capito: “dalla morte di Tito, le attività anti-socialiste sono diventate più aggressive. Si era ‘infiltrata’ persino “l’ideologia delle Brigate Rosse nelle file della nostra gioventù e nei loro giornali” - scriveva sul Komunist, Lazar Moisov, ministro ‘designato’ degli Esteri - “anche le tendenze anarco-individualiste sono tornate alla ribalta, così come quelle cominformiste con le quali abbiamo già, una volta, regolato i conti”. E ancora se la prendeva con i giornali, colpevoli a suo dire di gettare discredito su certe persone e ambienti della dirigenza comunista nazionale. Era il 21 febbraio 1982. Quattro anni dopo, gli accordi tra Spadolini e Mamula. E altri cinque anni dopo, la guerra tra serbi e croati, la grande fuga dei profughi, e per finire, nel 1999, l’intervento della NATO con le bombe intelligenti.

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