giovedì 27 settembre 2018

Le “convergenze parallele” tra mafia e terrorismo


Mafia americana e Mario Foligni, Mario Foligni e Gheddafi, Gheddafi e terrorismo, terrorismo e mafia. Un intreccio che sembra non avere una logica. Mette uno contro l’altro, ma anche tutti dalla stessa parte. Questa diventa nella mia ricostruzione la storia del terrorismo italiano degli anni di Piombo. Forse è un dato oggettivo, non vale solo per me. Non a caso manca tuttora una storia completa di questo periodo storico così intricato, complesso, sfuggente, denso di inchieste giudiziarie infinite e di segreti di Stato.
E’ la trasversalità di cui parlavamo, che secondo me ha fatto saltare sia le indagini dei servizi segreti comunisti, che cercavano invano prove contro la Nato per il terrorismo in Italia, sia le ricostruzioni giornalistiche così documentate dei giornalisti occidentali.
Ma chi è Mario Foligni? si chiederà il lettore più giovane del mio blog. Foligni era un personaggio secondario della politica italiana degli anni ‘70, ma che comparve in molte delle inchieste più imbarazzanti di quel periodo. Diede persino il nome al famoso dossier dei servizi segreti italiani, il Mi.Fo.Biali, che il giornalista Mino Pecorelli pubblicava a puntate sul suo OP. Sappiamo già che Foligni cercava nel 1975 di fondare un nuovo partito di centro-sinistra, per fare opposizione alla Democrazia Cristiana. Ma lo faceva utilizzando del denaro ricavato da accordi segreti con il colonnello Gheddafi: petrolio a basso costo in cambio di radar della Nato. I servizi sospettavano che Foligni fosse un agente del KGB. La loro inchiesta Mi.Fo.Biali, che oggi è online e chi scrive l’ha letta integralmente, era scottante per tante ragioni. Non solo per le dilaganti abitudini spionistiche che emersero nell’ambiente politico, ma anche per la presenza, nelle intercettazioni, di dialoghi non proprio edificanti per la Guardia di Finanza: il comandante piduista Raffaele Giudice e certi suoi uomini fidati chiudevano un occhio sulle indagini in cambio di mazzette. Ma forse il dossier è inquietante anche per altri motivi. Nel giro di Foligni e Giudice comparivano, sebbene piuttosto defilati, Aldo Moro e il generale dell’antiterrorismo, Enrico Galvaligi.
Ma il fenomeno Foligni non si esauriva qui. Eccolo infatti protagonista pure nel libro di Richard Hammer “The Vatican connection”. Fu il tramite di un traffico molto consistente di titoli bancari falsi che il Vaticano acquistò dalla mafia americana, nell’autunno del 1971, per coprire le voragini che si stavano aprendo nelle sue finanze. La causa di questo impellente bisogno di denaro della Santa Sede erano gli investimenti spericolati del cardinale Paul Marcinkus e del suo amico Michele Sindona. Siamo ancora nell’ambiente piduistico, eppure è fin troppo evidente che in questa storia parliamo di una P2 che pende decisamente verso sinistra. La polizia americana scoprì, infatti, nei suoi pedinamenti che il principale complice di Mario Foligni, il giorno in cui il Vaticano acquistò i titoli falsi dai mafiosi, fu Alfio Marchini, imprenditore di area comunista. Era il nonno dell’Alfio Marchini che nel 1994 fu eletto durante il primo governo Berlusconi nel consiglio di amministrazione della Rai, e che fondò l’azienda di call center E-Care, della quale è stato fino a poco tempo fa il principale azionista. Un’azienda che è molto contestata per i frequenti licenziamenti.
L’incontro tra la mafia americana e gli emissari del Vaticano, ossia Foligni e il suo amico Alfio Marchini, avvenne a settembre del 1971 all’hotel Leonardo Da Vinci di Roma, nell’appartamento di Marchini. C’era anche il figlio, Sandro Marchini, forse padre dello stesso Alfio Marchini, che Berlusconi ha poi appoggiato nella campagna elettorale per il comune di Roma del 2016. Nell’appartamento di Marchini furono verificati i certificati bancari alla presenza di un notaio ignaro della frode. Anche i Marchini erano ignari di tutto? Lasciamo pure il dubbio, anche se Foligni divenne poi reo confesso, e se la cavò solo per la sua collaborazione con la polizia statunitense. Usò i Marchini per farsi scudo della loro fama e cercare così di aggirare i controlli bancari. Hammer chiude il suo libro spiegando che, nonostante gli arresti e le condanne, probabilmente l’affare multimilionario per la cessione dei titoli falsi al Vaticano andò in porto, e fu la causa del crac Sindona e dell’Ambrosiano. I titoli contraffatti, in pratica, venivano usati come garanzia per chiedere prestiti alle banche. Tanti miliardi furono fatti circolare senza una reale copertura.
Il boss mafioso italo-americano che gestì da dietro le quinte lo smercio si chiamava Vincent Rizzo, ed era di New York. Un suo uomo, William Arico, divenne famoso pochi anni dopo per l’omicidio del giudice Giorgio Ambrosoli, che delle trame oscure di Sindona stava ricostruendo molti segreti. Ma era solo, poveretto. L’Italia non collaborava alle indagini sui titoli falsi, si lamentava Hammer nel suo libro. “The Vatican connection” è un’inchiesta molto interessante. Si tratta di un resoconto delle indagini e delle intercettazioni dell’indomito poliziotto statunitense, Joe Coffey. Quindi un documento molto affidabile, non certo la solita sparata sul Vaticano.
Fin qui la mafia americana. Ma Foligni era amico anche di Gheddafi, e quest’ultimo era il mandante del terrorismo palestinese. Stiamo arrivando dunque anche sulle tracce dei terroristi di sinistra. Inevitabilmente. Un bellissimo articolo di Vincenzo Tessadori uscito sulla Stampa il 19 aprile del 1977 aveva un titolo che imboccava proprio questa pista: “Le Brigate Rosse ed i Nap si servono della mafia per riciclare le banconote sporche dei rapimenti”. Quali prove c’erano per affermarlo? Secondo Tessadori gli inquirenti erano finiti sui sequestri delle Brigate Rosse seguendo criminali comuni o uomini d’onore. Tra questi ultimi c’erano i fratelli Antonio e Giuseppe Calabrò, membri della Ndrangheta calabrese. La polizia riteneva che Antonio Calabrò fosse molto simile all’identikit che un testimone aveva fatto disegnare su uno dei terroristi che avevano rapito l’armatore Pietro Costa. Non solo. Nel corso della perquisizione, nella casa dei due fratelli, furono trovate delle banconote e una era sicuramente parte del riscatto pagato per liberare Costa. Un altro indizio del rapporto mafia-Brigate Rosse consisteva in un altro ritrovamento di soldi pagati per un riscatto. I carabinieri, stando a quanto affermava Tessadori nel 1977, erano convinti che tra i sequestri da imputarsi ai brigatisti c’era anche quello dell’impresario edile Angelo Malabarba. Ebbene, cinque milioni di quel riscatto furono trovati in tasca a Nello Pernice, mafioso considerato erede di Luciano Liggio. Quel sequestro Malabarba fu poi considerato un sequestro della mafia. Tuttavia il libro di Alessandro Silj “Mai più senza fucile” rivelava altri indizi utili. Annamaria Mantini, sorella del nappista Luca Mantini, e pure lei divenuta una terrorista, a metà degli anni ‘70 lasciò Firenze per prendere un appartamento a Bovalino, che divenne il centro nevralgico dell’attività dei Nap. Perché? Perché proprio Bovalino?
In quella stessa zona svariati terreni erano di proprietà dei boss della Ndrangheta. Già il 24 aprile del 1977 il quotidiano La Stampa poteva titolare: “Al paese dei sequestratori, San Luca di Calabria esporta criminali al nord”. Era già il centro operativo della Ndrangheta. “Le montagne d’Aspromonte - proseguiva l’articolo di Clemente Granata - possono nascondere delinquenti e vittime.”
Quale distanza separava quindi mafia e terrorismo, se gli affari si intrecciavano così facilmente? Secondo i magistrati del 1977, Pomarici e Caselli, molto poca. Tra la criminalità degli anni di Piombo c’era grande collaborazione. Ma pochi chilometri dividevano pure San Luca e Bovalino dal monte Nardello. E qui bisogna inserire un nuovo protagonista, un fantasma che si è manifestato con la fine del comunismo. Quelle stesse montagne calabresi nascondevano due strategiche basi missilistiche della Nato: erano state posizionate sul Monte Nardello, appunto, in Aspromonte, e sul Monte Mancuso, più a nord, verso Catanzaro. Proprio qui, ma tu guarda che coincidenza, nel luglio del 1980 fu trovato il Mig 23 libico di Gheddafi, che, secondo lo scrittore Edouard Sablier, era in perlustrazione quando fu abbattuto per una vendetta contro le sfide che il Colonnello lanciava in quel periodo contro la Nato. Sablier dimentica che quel Mig, venendo colpito, forse provocò il contemporaneo inabissamento del DC-9 a Ustica.
Quel che è certo è che avvicinarsi alle basi del Monte Mancuso e del Monte Nardello era pericoloso. Quasi impossibile. Mi ha colpito molto un trafiletto della Stampa che fu pubblicato il 20 ottobre del 1982. I carabinieri che sorvegliavano la base del Monte Nardello avevano sparato “numerose raffiche di mitra contro uno sconosciuto che si era avvicinato all’ingresso della base, considerata una delle più importanti del mezzogiorno.” I carabinieri uscirono alla ricerca di questo incauto invasore insieme ai militari americani, in una sorta di gemellaggio certamente non previsto dalla nostra Costituzione. Pochi giorni prima in un altro episodio capitato sul Monte Mancuso si era parlato con decisione di pericolo terroristico per le basi Nato. Travestiti da militari della Nato, due uomini avevano cercato di compiere un attentato. I carabinieri prima spararono in aria, poi, scattato l’allarme, cercarono di colpire gli attentatori in fuga, mancandoli.
Il 1982 era l’anno del sequestro Dozier. Le Brigate Rosse avevano iniziato a minacciare non solo la democrazia italiana ma anche l’imperialismo americano. Come si spiega, allora, che diverse vittime dei sequestri della Ndrangheta furono nascoste, negli anni ‘70, esattamente a poche centinaia di metri dalla base del Monte Nardello? Lo testimoniano gli articoli del 1975 del quotidiano Gazzetta del sud, il quale descrivendo i sequestri di Paul Getty, Giuseppe D’Amico e Domenico Arecchi raccontava di consegne di denaro che avvenivano a breve distanza dalla base americana. Soldi con cui la Ndrangheta, secondo Wikipedia, costruì un intero quartiere di Bovalino, chiamato appunto “Paul Getty”.

Nessun commento:

Posta un commento