sabato 22 settembre 2018

Caso Moro: la pista egiziana fu insabbiata


Il 27 aprile del 1978 i magistrati erano probabilmente a un passo dalla soluzione del caso Moro. Lo si scopre leggendo gli articoli del quotidiano La Stampa, il quale il 28 aprile, con lo statista democristiano ancora vivo, usciva con una notizia sensazionale: erano state trovate a Roma delle cassette postali con i piani per rapire Aldo Moro.
La scoperta fu possibile grazie all’operazione della giustizia egiziana condotta a termine il 25 aprile del 1978 dal procuratore Ibrahim El Kaliubi, che aveva sgominato una rete terroristica internazionale. Tra gli arrestati figuravano anche alcuni cittadini svizzeri, tra cui un giornalista ticinese, e degli arabi. La rete svizzera era nota con il nome di “Soccorso rosso elvetico” e si sosteneva che avesse dei contatti con le Brigate Rosse. Ma c’erano prove concrete. Ad esempio uno dei tre svizzeri, il giornalista ticinese S. M., arrestato al Cairo, aveva “denunciato” l’esistenza a Roma di una casella postale che testimoniava il collegamento con i gruppi che stavano tenendo prigioniero il presidente democristiano. Secondo l’articolo di Silvana Mazzocchi della Stampa, fu l’Interpol a comunicare alla polizia italiana il numero di questa cassetta. Fu aperta e perquisita. All’interno fu trovata un’agendina con delle informazioni in codice. Gli esperti avrebbero dovuto svelarne il contenuto, ma negli articoli successivi queste notizie furono smentite. Si parlò di informazioni di scarsa importanza contenute nelle cassette denunciate dal giornalista svizzero, e questo avvenne quando i magistrati come Imposimato furono costretti a fare le valigie e a programmare un viaggio al Cairo.
E pensare che nella casella postale la polizia aveva trovato un appunto che portava ad un’altra casella segreta. Si trovava nel quartiere Prati. E qui la prova c’era eccome: furono rinvenute lettere della colonna torinese delle Brigate Rosse. Documenti, specificava Silvana Mazzocchi, scritti anche in questo caso in codice. La Mazzocchi aggiungeva che secondo gli impiegati postali le cassette delle Brigate Rosse ebbero un traffico molto fitto nel periodo della strage di via Fani.   
C’era poi una seconda prova che portava le indagini al Cairo. I terroristi di via Fani usarono proiettili provenienti proprio dall’Egitto. Tecnicamente si chiamavano proiettili “Superfiocchi” quelli che furono usati per trucidare la scorta dell’onorevole Moro, in via Fani, il 16 marzo del 1978. Erano stati prodotti dalla ditta Fiocchi di Brescia ed erano stati spediti in Medio Oriente. Chissà, forse si trovavano all’interno di quel traffico di armi che fu scoperto anni dopo dal magistrato Carlo Palermo. Ma questi proiettili ritornarono indietro. Dall’Egitto questo “blocco”, come lo chiamava la giornalista Mazzocchi, fu inviato al porto di Bari per essere utilizzato in via Fani. Un altro blocco di questi proiettili, rubato in Svizzera, sembra che servì per il sequestro del presidente degli industriali tedeschi, Hans Martin Schleyer.
In parlamento si occupò della vicenda in quei giorni l’onorevole Falco Accame, del Partito Socialista, lo stesso Accame che figurava nei rapporti Impedian dell’archivio Mitrokhin. In realtà il rapporto 182 spiega che il KGB cercò di utilizzare Accame nel 1977 per degli interventi politici contro la presenza di sottomarini statunitensi in Sardegna.
Si tornò a parlare della pista egiziana solo a metà agosto del 1978, quando l’onorevole Moro era già morto e il ritrovamento delle cassette postali delle Brigate Rosse veniva già ridimensionato. Era il 13 agosto 1978, la firma dell’articolo era di Vicenzo Tessadori della Stampa. Si indagava ancora sui proiettili della ditta Fiocchi. Ancora per poco.
Che fine ha fatto questa inchiesta? Dopo l’agosto del 1978 se ne perdono le tracce negli archivi dei giornali. Perché fu insabbiata? Gli inquirenti si accontentarono della smentita dell’Olp, il quale escluse qualsiasi contatto con le Brigate Rosse? Il movente di un intervento palestinese in Italia nella primavera del 1978 era molto semplice da capire: il presidente Sadat stava lavorando ai negoziati per i futuri accordi di Camp David. Il 27 aprile del 1978 un articolo siglato R. S. del quotidiano La Stampa relazionava sulle informazioni che in quelle ore giungevano dal Cairo, e segnalavano una serie di contatti tra brigatisti italiani e fedayn palestinesi (si ipotizzò che appartenessero al gruppo “Giugno nero” di “Abu Nidal”) per mettere a segno attentati, rapimenti, assassinii, atti di sabotaggio per compromettere le iniziative di pace di Sadat. Della rete terroristica avrebbero fatto parte, oltre a brigatisti italiani e ticinesi, anche giapponesi dell’Esercito Rosso, e uomini del gruppo “Carlos”.
Ad avvalorare tutte queste piste di indagine ci sono anche i dialoghi tra l’ambasciatore statunitense del Cairo, Hermann Frederick Eilts, e quello di Roma Richard Gardner, poche ore dopo la strage di via Fani. Eilts era preoccupato per la sorte dei suoi uomini. Temeva potessero fare la fine della scorta di Aldo Moro. Sembrava assurdo, invece lo scenario internazionale svelato dalla mia inchiesta dimostra che i timori degli americani erano pienamente giustificati.
Ben diverso è invece il contenuto delle dichiarazioni che l’ex consigliere di Arafat all’Olp, Bassam Abu Sharif, ha recentemente rilasciato alla commissione parlamentare presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni. Ne parla il sito formiche.net in un articolo di Stefano Vespa. Abu Sharif sostiene, in sostanza, la tesi dei servizi segreti sovietici, secondo i quali le Brigate Rosse erano infiltrate dagli americani, che avrebbero cercato di impedire una soluzione che prevedesse una trattativa con le Brigate Rosse. E’ al contrario più probabile che i servizi segreti che si inserivano nelle brigate rosse fossero dei sostenitori dei palestinesi. Lo prova il fatto che Abu Ayad, altro uomo di Arafat, diventò uno dei principali confidenti del Sismi. Da allora l’Olp mantenne buoni rapporti con buona parte della politica italiana.

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