lunedì 11 giugno 2018

Gli americani conoscevano i killer di via Fani


Ci sono poche notizie certe quando si parla di terrorismo. Quindi diamo subito delle solide fondamenta alla nostra ricostruzione della strage di via Fani, che
va ormai inserita in un contesto internazionale. Gli ambasciatori americani avevano capito fin troppo bene chi era il responsabile dell’attentato alla scorta del presidente Aldo Moro. Lo si intuisce dai loro dialoghi segreti, divulgati su Wikileaks, ma soprattutto da un articolo del giornale svizzero Libera Stampa, pubblicato l’8 maggio 1978, il giorno prima della morte di Aldo Moro.
Al Cairo, in Egitto, era stata da poco scoperta una ramificata organizzazione terroristica di “ispirazione” palestinese, la quale si avvaleva “della competenza dell’aiuto e delle coperture di numerose organizzazioni terroristiche internazionali, comprese le ‘Brigate Rosse’.”
Ad affermare tutto questo era il giornale egiziano “Al Ahram, che precisava i contorni molto vasti della vicenda e faceva dei nomi. I terroristi palestinesi, coordinati da Wadi Haddad, si prefiggevano lo scopo di rovesciare i regimi arabi, ma anche di effettuare assassinii politici in Europa. Ad esempio era pronto un piano per uccidere in territorio svizzero il primo ministro giordano, Mudar Badran, reo per i terroristi di aver attivato i contatti con gli israeliani. Era il periodo che precedeva gli accordi di Camp David, lo avevamo detto. Dunque quelli degli americani erano più che timori dettati dall’esperienza politica. C’erano indagini al Cairo sul legame Bierre-palestinesi e tra gli indagati figurava lo svizzero S. M. quale principale agente di collegamento tra le varie organizzazioni internazionali, mentre capo della rete era il palestinese Mohamed Aref Moussa.
Secondo l’articolo furono questi terroristi a uccidere un uomo sconosciuto in Italia, eppure chiave per capire i legami tra le Bierre e la scuola Hyperion. Parliamo di Henri Curiel, un ebreo, nato in Egitto, fondatore del Partito Comunista egiziano, che negli anni di piombo costruì una rete terroristica a Parigi chiamata “Solidaritè”, offrendo armi e rifugio anche alle Bierre.
A questo punto torna a galla la storia di Hyperion. A Henri Curiel dedica un intero capitolo il libro “La trama del terrore” della giornalista americana Claire Sterling, la quale, pur non nominando mai la scuola di lingue di Simioni, fa spesso riferimento a due appartamenti di cui avrebbero usufruito i brigatisti italiani nella capitale francese. Curiel - secondo la Sterling - sarebbe stato guidato nella sua attività terroristica dai russi del KGB. E non è solo lei a dirlo. Un rapporto sul terrorismo nel periodo 1983-85 del senato americano scriveva le seguenti frasi. “Immediatamente dopo il rapimento di Moro, Mario Moretti delle Brigate Rosse fu contattato dai rappresentanti di Hyperion, una struttura di Parigi che agiva sotto la copertura di una scuola di lingue, la quale, apparentemente sotto la direzione del sovietico KGB come stabilito da alcuni terroristi pentiti, serviva a coordinare le attività dei vari gruppi sovversivi europei”. Moretti avrebbe accettato di condurre attività terroristiche internazionali e sarebbe stato introdotto in una fazione marxista di Parigi. Una nota a margine indica che queste notizie furono estratte da una relazione di minoranza del Cesis, intitolata “Implicazioni internazionali del terrorismo”, redatta nel 1983.
Il legame Hyperion-KGB farebbe sensazione, se non fosse che neanche gli americani erano certi di quello che scrivevano. L’unica vera accusatrice del KGB mi è sembrata proprio Claire Sterling, che nella sua inchiesta giornalistica del 1981 dimostrò, come del resto abbiamo fatto anche noi sul nostro blog, che esisteva negli anni Settanta un’organizzazione terroristica che legava tutti i gruppi eversivi europei e mondiali più importanti, la quale si addestrava perlopiù nello Yemen Meridionale o a Cuba, e che era coordinata da Curiel, dai palestinesi George Habash e Wadi Haddad, da Carlos lo Sciacallo e dal suo braccio destro libanese Moukarbal. Per pagarsi le enormi spese si avvaleva dapprima dei fondi illimitati del ricchissimo Giangiacomo Feltrinelli, e poi di quelli del colonnello libico Gheddafi, il quale finanziava indifferentemente terroristi italiani neri e rossi.
Molto importante, perché crea un ponte tra la strage di piazza Fontana a Milano del 1969 e le Brigate Rosse, è il nome di Roberto Mander, un anarchico appartenente al gruppo “22 marzo” di Valpreda e Merlino. Mander, insieme all’avvocato Sergio Spazzali, secondo la tesi della Sterling, era impegnato nello smercio di armi alle organizzazioni terroristiche, sotto la direzione dalla tedesca Petra Krause, detta “Annababi”. Se il lettore avrà buona memoria ricorderà che il primo a denunciare un simile sodalizio criminale guidato dalla Krause era stato Ernesto Viglione, e il suo articolo era finito sotto la lente del servizio segreto cecoslovacco.
La Sterling parlava di due livelli delle Brigate Rosse. Il primo era quello politico, dell’indottrinamento e della propaganda lanciata dai giornali come “Lotta Continua” o “Potere Operaio”. L’idea eversiva si fondava sulle teorie del sudamericano Marighella, il quale propugnava una rivoluzione che provocasse una reazione di destra, che doveva essere talmente violenta da spingere il popolo alla rivoluzione. L’altro livello era rappresentato dal partito armato clandestino, quello dei nuclei che andavano dal più elitario delle “Brigate Rosse” a “Prima Linea”, che doveva rappresentare “l’incarnazione delle idee del proletariato”. La mente e il braccio. Nel primo caso il leader era Antonio Toni Negri, e nell’altro, Renato Curcio. Un altro personaggio chiave della direzione strategica era Carlo Fioroni, che fu il primo pentito a vuotare il sacco. Quindi figuravano anche Franco Piperno, Oreste Scalzone, Luciano Ferrari-Bravo. Il sostegno a queste attività eversive veniva non solo dall’estero, ma anche dalla mafia, in particolare dalla Ndrangheta, che veniva definita dalla Sterling “parte integrante dell’organizzazione”. Il suo personaggio di spicco, Giustino De Vuono, fu presente in via Fani il 16 marzo del 1978, nel giorno della strage, e si dice che fu il killer che sparò gli undici proiettili al presidente Moro.
Ma dov’è in questo scenario il sostegno del KGB cui accennava il Senato americano? Un primo indizio sarebbe in Spagna. L’Eta, gruppo terroristico basco di ispirazione maoista, nel 1977 si stava accordando segretamente con i russi. Scrive la Sterling: “il 14 luglio del 1978, i servizi segreti spagnoli assisterono direttamente a un incontro tra l’agente del KGB e corrispondente delle ‘Izvestja’ Vitalj Kovic e Eugenio Echeveste Arizgura, ‘Anchon’, membro della direzione dell’Eta militar, avvenuto a Saint-Jean De Luz, nel sud della Francia.” Cosa c’entrano le Bierre? C’entrano, perché nella primavera del 1980 tre brigatisti e un trafficante di droga furono arrestati in Francia mentre attendevano la riparazione del loro yacht, che avevano acquistato con i proventi di una rapina effettuata insieme a terroristi baschi e francesi.
Ma al di là di questo rapporto indiretto con i russi, la vera fonte di informazioni fu il generale Jan Sejna, segretario generale del Ministero cecoslovacco della Difesa e consigliere militare del Comitato centrale comunista. Nel 1968, poco prima dell’invasione dei carri armati russi a Praga, era fuggito negli Stati Uniti e aveva iniziato a parlare. Tra le sue confessioni spiccava la notizia che negli anni Sessanta dodici italiani si erano addestrati nei campi militari dell’ex Cecoslovacchia. E tra questi vi era anche Toni Negri, che era stato da quelle parti nella stagione 1966-67. Se così fosse avremmo risolto il problema dei mandanti del terrorismo degli anni di piombo.
Ma ci sono delle falle in questa ricostruzione. In primo luogo è proprio la CIA, il servizio segreto più importante della guerra fredda, a credere poco all’ipotesi che i sovietici potessero sostenere militarmente ed economicamente i terroristi delle Brigate Rosse. In un rapporto del 18 maggio del 1982 intitolato “International terrorism, the russian background and the soviet linkage”, l’autore Paul B. Henze affermava che non c’erano prove di un sostegno sovietico al terrorismo, se non per il contenuto eversivo che caratterizzava i programmi marxisti di Lenin. Di fatto, era stato accertato solo il legame dei brigatisti con il terrorismo palestinese, libanese, e sud yemenita. Le bombe della destra dovevano essere interpretate come un ostacolo posto da sconosciuti assassini verso la rivoluzione in atto nell’estrema sinistra. L’ipotesi ancora circolante nel dicembre 1978, secondo cui le brigate rosse sarebbero state “manipolate” dai neofascisti e dalla CIA, veniva bollata come ridicola. Lo stesso doveva valere per le insinuazioni del giornale Novosti su Alì Agca, che avrebbe attentato alla vita del Papa su istigazione degli Stati Uniti.
Il secondo grande problema è proprio Jan Sejna. Questo generale viene considerato poco credibile da un sito americano: il Mia facts site. Negli interrogatori avrebbe mostrato di conoscere pochi dettagli sui movimenti degli americani nella guerra fredda e in Vietnam. Si sarebbe trasferito negli Stati Uniti solo per paura che la rivoluzione di Praga potesse metterlo in pericolo. Ma anche noi abbiamo trovato un grossa contraddizione nel suo racconto. Lo abbiamo letto integralmente sul giornale svizzero “Gazzetta ticinese”. Il 30 settembre del 1980, in una lunga intervista concessa al discusso giornalista Michael Ledeen (fu accusato di essere iscritto alla loggia P2), intitolata “Il terrore viene dal freddo”, Jan Sejna parlò anche dei filo-cinesi italiani. Affermò che la creazione nel 1964 di gruppi maoisti in Italia e Francia fu una manovra dei cecoslovacchi. L’idea - raccontò a Ledeen - fu dell’allora segretario del PC Wladimir Kouchy con l’obiettivo sia di convincere i comunisti europei che la Cina tramava per dividere il loro partito, sia per scoprire all’interno di quei partiti comunisti chi si considerasse filo-cinese, sia, infine, per stabilire contatti con Pechino e conoscere le loro intenzioni sul terrorismo.
L’ipotesi è senza dubbio affascinante, ma si scontra con i documenti originali dei servizi cecoslovacchi, da noi visionati, nei quali i sovietici di Mosca, e a ruota l’Stb (parlando con Guido Campanelli e avviando comunque un contatto con l’ex partigiano), affermavano di temere molto i maoisti e di considerarli elementi di destra. Dunque Jan Sejna, sul quale tutti tacciono in Italia, era credibile o no? Stabilirlo una volta per tutte fornirebbe molte certezze in più anche sulle Brigate Rosse. 

La soluzione più credibile al problema del terrorismo italiano è che il governo abbia preferito nascondere le prove che aveva raccolto contro i sovietici. Questa, almeno, è l'opinione che Claire Sterling espone al termine del suo libro. Perché il governo Andreotti avrebbe dovuto tacere sulle eventuali responsabilità del Kgb? Per tanti motivi - afferma l'autrice de "La trama del terrore" -: dalla salvaguardia degli equilibri est-ovest, al timore di perdere le scorte di petrolio arabo, alla presenza di partiti comunisti o filo-comunisti nella gran parte della nazione. Bellissima la frase: "Nessuna classe dominante ha fatto di più per mantenere l'impressione che il terrorismo sia imputabile solo a lei", riferita all'Italia. Ed è vero, basti pensare ai programmi, come quello di Santoro su Raitre, in cui si continuano a cavalcare le ipotesi, tipiche dei servizi dell'est, di un complotto ordito dalla Cia. Quello che è certo è che Gladio e la Cia, come abbiamo documentato, il terrorismo rosso lo combatterono, con mezzi, casomai, poco ortodossi e violenti. Ma questo è un altro discorso.
 

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