venerdì 17 aprile 2020

“Salvato già una volta, ieri l’hanno rapito”


“Tre corpi nelle macchine bloccate per strada, crivellate di colpi, perché la sparatoria è stata infernale. Un quarto corpo riverso sull’asfalto, le braccia aperte, come un Cristo in croce, la pistola poco lontana, sfuggitagli di mano, in un inutile tentativo di reazione; una quinta guardia morta all’ospedale”. Sono le parole con cui iniziava il reportage del settimanale Epoca del 22 marzo 1978, che ricostruiva, momento per momento, la strage di via Fani e il sequestro del presidente democristiano Aldo Moro. Nel rileggere questo pezzo, firmato da Marzio Bellacci e Raffaello Uboldi, ci ha colpito la descrizione del quarto militare ucciso, Raffaele Iozzino, l’unico che aveva cercato di uscire dall’Alfetta: per un istintivo proposito di fuga? o per tentare di rispondere al fuoco? Ce l’eravamo già chiesto, ma la novità è che, grazie all’aiuto di Luigi Spinelli, archivista della biblioteca Trivulziana di Milano, possiamo adesso sapere con esattezza cosa c’era scritto nella
prima pagina del Giorno, quella che, nelle foto spagnole del giornale La Vanguardia, risultava appoggiata sulla cintola della guardia, quando era già esanime sull’asfalto. Si tratta della prima pagina del famigerato 16 marzo 1978, che in apertura dava la notizia dell’invasione israeliana del Libano, iniziata due giorni prima, il 14 marzo 1978. Pochi la ricordano e praticamente nessuno l’ha mai collegata al caso Moro. Eppure sembra proprio che questa chiave di lettura apra dei percorsi investigativi interessanti. Il nome in codice era “Operazione Litani”. Dopo la prima guerra civile libanese, Israele aveva deciso di proteggere i suoi confini meridionali creando una fascia di sicurezza all’interno del territorio del Libano. Un po’ come recentemente ha fatto la Turchia, quando ha invaso la Siria per difendersi dai curdi. Politica internazionale. Ma il caso Moro fu anche politica internazionale. A sparare quel giorno erano probabilmente arrivati a Roma dei killer di professione. Terroristi vestiti da avieri con accento straniero, tedesco. La strage di via Fani è un qualcosa di vivo, che pulsa emozioni ogni volta che si apra un vecchio giornale, una voce che da dentro ci chiede di continuare a cercare qualcosa che, forse, ci lascerà sgomenti. Via Fani sembra un luogo senza tempo. Sono talmente tanti i colpi di scena che fuoriescono da quella tragedia che ti chiedi: ma come può essere accaduto tutto questo in un solo giorno? E’ come se non fosse mai finita quella sparatoria micidiale, “infernale”. Finita ieri, pochi minuti fa. Mino Pecorelli raccontò di testimoni, che erano alla finestra e potevano riconoscere gli assassini. Erano stati protetti con l’anonimato per scongiurare vendette dei brigatisti. Dove sono
finiti? Uno di loro aveva girato un filmino, o - specificava Pecorelli su OP - scattato una serie di foto. Istantanee non del luogo dell’attentato, ma degli attimi in cui si consumò la tragedia. Dov’è questo filmino? Possibile che nessuno l’abbia mai cercato in tutti questi anni? Adesso danno la colpa a Gladio, agli americani. Ma il pensiero dei giornalisti, in quei momenti, andò soprattutto ai “sovversivi”. Scrisse Italo Cucci sul Guerin Sportivo del 22 marzo 1978. “Ci sentiamo partecipi dello sgomento che tutti ha preso in questi giorni difficili in cui s’attenta alla libertà dell’Italia. Ai nostri lettori, ai giovani che ci seguono con l’entusiasmo, la gioia di vivere che solo lo sport oggi può dare, chiediamo solo di essere ancora e sempre diversi da quella teppaglia giovanile che si batte per il solo ideale della sovversione.” Giovani anche stranieri, dicevamo. Sulla prima pagina di quel Giorno che fu trovato addosso a Raffaele Iozzino c’era sicuramente un messaggio. Un testo che poteva essere adatto alla storia di Aldo Moro. Partendo dal titolo in alto e scendendo verso sinistra si leggerebbe, nelle righe che risaltano maggiormente da una certa distanza: “Terra bruciata per i fedayn, salvato già una volta ieri l’hanno rapito”. Oppure, includendo anche i titoli defilati a centro pagina, sulla destra: “Terra bruciata per i fedayn, Begin: ‘Non ci ritireremo dal sud-Libano’, Andreotti oggi alla camera, ancora malumori, salvato già una volta ieri l’hanno rapito.” L’uomo rapito cui realmente accennava Il Giorno era Angelo Apolloni, un costruttore di 32 anni che aveva subito un secondo
agguato. Il riferimento ad Aldo Moro, se c’era, era assai sottile, comprensibile a pochi nel 1978. Emergerà pubblicamente in interviste più recenti. Il presidente democristiano, quattro anni prima, si era salvato per miracolo dall’attentato al treno Italicus. Uomini dello Stato lo avevano fatto scendere all’ultimo istante per fargli firmare dei documenti. Dunque, come interpretare quelle righe: chi aveva salvato Moro dalla bomba era stato costretto a compiere il rapimento? Il giornale serviva per mandare un messaggio in codice ai politici che gestivano i rapporti con i palestinesi (il famoso Lodo Moro)? Per poterlo dire con certezza dovremmo sapere come si presentava la scena del delitto, in via Mario Fani, immediatamente dopo la fuga dei terroristi. Al contrario, magistrati o semplici passanti poterono camminare indisturbati vicino ai cadaveri delle vittime, alle auto crivellate di colpi, sui bossoli di cui era disseminato l’asfalto di via Fani, come testimoniano le immagini della Rai. Il corpo di Iozzino colpisce per quel giornale, ma non solo. Sembra uno di quei ribelli che i nazisti impiccavano e poi lasciavano con un cartello derisorio, sprezzante, tra le braccia. L’auto presidenziale era piena di giornali, nell’Alfetta si intravedeva una copia del democristiano Il Popolo. Il pover’uomo per un tragico scherzo del destino era rimasto - come giustamente notavano i giornalisti di Epoca - nella stessa posizione del crocifisso. Braccia aperte e gambe convergenti fino ai piedi sovrapposti. Che qualcuno abbia ricomposto la guardia deceduta in modo da offrire quel messaggio? Qualcuno tra i killer?
Ciò che possiamo dire, senza timore di essere smentiti, è che la sparatoria non si esaurì dopo che i terroristi sul lato sinistro di via Fani, e cioè provenendo dal bar Olivetti, ebbero scaricato le loro armi (si noti, armi che venivano usate dalla Repubblica di Salò al tempo dell’ultima guerra mondiale) sui poveri uomini della scorta. Vi fu, contrariamente a quanto scritto nelle sentenze dalla magistratura, un killer che fece il giro dell’auto presidenziale e sparò due colpi di grazia al maresciallo Leonardi, che sedeva di fianco al guidatore, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci. Tutto questo deve essere durato pochi attimi, prima che il gruppo armato si allontanasse con l’ostaggio. In un’altra foto del quotidiano di Barcellona, La Vanguardia, si intravede appena la testa del povero maresciallo, appoggiata allo schienale. La schiena del carabiniere è sprofondata sotto al cruscotto, infossata tra il sedile e la portiera semiaperta, crivellata di colpi. Ma sulla sinistra, in un frammento intatto del vetro, si notano in controluce due fori, perfettamente simmetrici ad altri due fori distinguibili sul giaccone di Leonardi. In un primo tempo li avevamo scambiati per una borsa aperta. Il killer fece in tempo ad avvicinarsi per assicurarsi che tutti fossero morti? C’era poco spazio tra la 2300 e la Fiat 128 di Moretti. C’era stato un tamponamento. Perciò immaginiamo che abbia dovuto compiere un giro più largo intorno alla 128. Poi si avvicinò, alzò il braccio destro, come si vede nei film sulla mafia, e sparò due colpi sul povero Leonardi. A quel punto potrebbe aver concluso il suo giro di perlustrazione finale appoggiando un paio di fogli di giornale sulla guardia rimasta
freddata sull’asfalto. Potrebbe aver sistemato il cadavere nella posizione crocifissa per completare la sua opera perfetta, frutto di un ingegno criminale di alta scuola, dileguandosi tranquillamente nel traffico di Roma. E’ molto probabile che sia questa la dinamica dell’agguato, perché coincide con la ricostruzione di Epoca, fatta con l’aiuto dei testimoni. La Fiat 2300 di Moro arriva in via Fani poco dopo le 9 del mattino, seguita dall’Alfetta bianca con la scorta. All’altezza del civico 111, la Fiat 128 “color panna” di Moretti frena e costringe la 2300 di Moro e l’Alfetta a un tamponamento a catena. Scendono subito due terroristi dalla 128 di Moretti e sparano raffiche di mitra sulla 2300 presidenziale, quindi piomba una quarta macchina, una 132 di colore scuro con altri terroristi, che si affianca all’Alfetta con la scorta. Da questa 132 scendono altri terroristi che “falciano la scorta di Moro”. In totale i testimoni parlarono di undici uomini e una donna. Dodici terroristi in tutto. Ecco, sono importanti questi passaggi del settimanale Epoca. Dice: “Pochi secondi di terribile silenzio. Poi un terrorista strappa dal sedile posteriore della vettura presidenziale l’onorevole Moro, gettandolo nella portiera già aperta della 132, che ha il motore acceso, pronto a partire. Alcuni terroristi salgono nella macchina in cui Moro è tenuto prigioniero. Altri due restano lì per alcuni istanti, poi fuggono a piedi. La 128 color panna viene abbandonata.” Cosa fecero i due terroristi che non partirono nella 132 di colore scuro con l’ostaggio a bordo? Spararono i colpi di grazia e sistemarono il cadavere di Iozzino in quella strana postura? (anche se confessiamo di non avere una grande esperienza sulle
posture cadaveriche, a parte qualche film visto in televisione). E cosa ne fu di tutti gli altri, visto che, oltre a Moro, nella 132 non potevano salire più di quattro terroristi?




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