domenica 29 marzo 2020

Silvio Berlusconi finanziava il suo avversario Prodi?


Silvio Berlusconi nel 1978 versò una 'parcella' di 2 milioni di lire, pari a 6700 euro di oggi, a Romano Prodi, allora in procinto di diventare Ministro dell'Industria. La notizia veniva pubblicata da Mino Pecorelli nel suo settimanale OP, sul numero del 21 novembre 1978. In quel periodo, Prodi, che nell'articoletto veniva erroneamente identificato come Roberto, era un rappresentante della Democrazia Cristiana e il versamento misterioso era la ricompensa per un convegno doroteo a Montecatini. 
Il povero Pecorelli, poi assassinato da mani ignote, con il suo solito arguto sarcasmo definiva il futuro presidente del consiglio dell'Ulivo un economista a pagamento, al punto da sospettare che quei 2 milioni servissero per agevolare le politiche sui piani-casa, ai quali come costruttore milanese il berlusca era ovviamente interessato. 
Dunque, per Pecorelli, le conferenze di Prodi costavano più del normale. Il problema riletto nel 2020 è anche un altro: a mettere mano al portafoglio nel lontano 1978 fu un futuro acerrimo nemico di Prodi, proprio quel Silvio Berlusconi che, da destra, sarebbe stato a lungo il suo antagonista nel bipolarismo della seconda repubblica. Se quindi all'epoca la notizia meritava solo un trafiletto, oggi diventa un vero enigma. Prodi e Berlusconi erano amici ed entrambi collaboravano alla politica democristiana? E poi torniamo a chiederci: sono credibili le accuse della famiglia di Alexander Litvinenko verso il 'Cavaliere', come lo definiva anche Pecorelli? Fu lui a convincere l'ex spia russa ad accusare Prodi di essere del KGB? Ancora interrogativi: al di là di una rivalità apparente tra destra e sinistra, questa politica attuale ci nasconde il suo vero volto? Noi lo abbiamo già anticipato nel libro "Armi di Stato". La risposta è, sì.
Siamo andati a cercare questo convegno doroteo di Montecatini, sfogliando gli articoli d’archivio dei grandi quotidiani. Avvenne alla fine di ottobre del 1978. Davvero gustoso il pezzo di Antonio Caprarica sull’Unità, specialmente perché affrontava l’analisi della politica dorotea da un’angolatura esterna, il marxismo. 
A pochi mesi dal delitto Moro tramontava rapidamente il sogno del compromesso storico DC-PCI e il centro-destra democristiano, guidato dagli onorevoli Piccoli, Ruffini, Bisaglia, Gava riproponeva, proiettata ai futuri anni ‘80, la ricetta capitalistica, sia pure con degli adattamenti alle contingenze: doveva essere una nuova Utopia, come l’opera di Tommaso Moro amata da Silvio Berlusconi. 
Per anni - scriveva Caprarica - i dorotei si erano imposti nei meccanismi del potere attraverso la politica assistenziale. Negli anni Settanta quel sistema era entrato in crisi e serviva una risposta nuova. Quale? Non più centralità democristiana ma accostamento ai comunisti, a quelli nuovi, però, di Berlinguer, già pronti a ripararsi sotto l’ombrello della Nato. Nello stesso periodo, infatti, Mino Pecorelli li accusava di aver costruito un impero capitalistico ricchissimo, in grado di costruire un vasto giro d’affari vendendo prodotti italiani ai paesi dell’est. Caprarica sembra sottolineare proprio questo aspetto. Vorrei riportare il pezzo più significativo, la descrizione della nuova Utopia ipotizzata da Bisaglia: Sarebbe stata “una moderna democrazia industriale, con una nuova qualità della vita, la città che funziona, la scuola, gli ospedali, le poste che funzionano, il tempo libero, lo spazio sociale per i giovani e per i vecchi. In tutto questo non c'è solo una specie di lettura ‘dopo-lavoristica’ della crisi, un'idea di ‘welfare state’ riproposta senza mediazioni; c'è anche la radice di un sistema di equilibri politici che, pure ammessa ma non concessa la caduta delle discriminanti di ‘democraticità’, si affretta a segnare nuovi limiti. Ecco la ‘nuova frontiera’ di Tony Bisaglia. O si accetta questa immagine di sviluppo — ammesso che possa esserlo— e si è legittimati a governarlo: o se ne rimane fuori, e ai margini, liberi quanto si vuole di proporre — come il PCI — una ‘società socialista diversa dai vari modelli attuali’; ma consapevoli che la questione del governo resta un affare tra le ‘forze riformatrici’di derivazione liberaldemocratica, cattolica-democratica e socialista (ma di un socialismo che abbia liquidato ogni legame con il marxismo).” 
Direi che il riferimento all’attualità è evidente. Caprarica sottolinea come la politica del futuro, diciamo del dopo-Moro, poteva essere anche di avvicinamento ai comunisti, ma solo a patto che questi rinunciassero all’applicazione del socialismo reale, e si rimanesse in un ambito assistenziale ma cattolico. Solidale, ma capitalistico. Una società del ‘fare’, una società quindi berlusconiana.
Da parte sua l’onorevole Piccoli sottolineava proprio il cambiamento epocale del PCI, che volenti o nolenti bisognava accettare: “Il problema per la DC degli anni '80 è di fronteggiare un PCI che vanta la sua leale nazionalizzazione, accanto agli altri meriti e caratteri, laicità, pluralismo, democraticità”. Pertanto, il confronto DC-PCI non era più una tattica morotea - spiegava il giornalista Caprarica - bensì un dato di fatto, a cui la DC - secondo Piccoli e Ruffini - avrebbe dovuto rispondere offrendo alla società “uno sbocco”, senza essere più “l’ammortizzatore della società civile”; una via d’uscita rispetto a questo confronto tra destra e sinistra. E questa risposta doveva essere il “solidarismo cattolico”. Con quali strumenti offrirla? - Si chiedeva Caprarica. Il tempo, che nella nostra politica scorre molto lentamente, avrebbe risposto: certamente non col fallimentare governo Craxi o con il Pentapartito, bensì con la seconda repubblica nata da Mani Pulite.
Ma Prodi? Non ce lo siamo dimenticato. Purtroppo Caprarica non lo citava affatto. Lo ritroviamo sul quotidiano La Stampa con il solo cognome. Ma è evidente che l’economista Prodi, destinato a divenire Ministro dell’Industria poteva essere uno soltanto: Romano Prodi, già intervenuto nel 1977 al programma della Rai, Match, condotto dal giornalista Alberto Arbasino, recentemente scomparso. Stando al pezzo di Renzo Villare, Prodi aveva affermato, insieme ad Agnelli, che per il futuro sarebbero stati necessari: più liberalismo, un aumento della produzione industriale nel settore terziario, e conseguentemente maggiori guadagni. Naturalmente il riferimento al Cavaliere di Arcore è del tutto spontaneo.
Molto berlusconiane anche le parole con cui il giornalista della Stampa riassumeva il discorso di Bisaglia al convegno, con cui l’onorevole chiedeva, indovinate un po’ cosa? “di rimettere in moto gli investimenti, ridurre la disoccupazione e diminuire la pressione della spesa pubblica.” Quando denunciavamo la totale mancanza di idee politiche nei programmi di Forza Italia, nel nostro libro L’ultima piovra, in mente avevamo esattamente queste parole di Bisaglia-sconi. 



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