martedì 24 marzo 2020

“Gli arresti illegali, le persecuzioni e le discriminazioni” dei democristiani in Somalia


“DRILL - vero nome Sansone Vito, nato il 21.8.1913 a Castelvetrano, caporedattore, residente in via Camilluccia 195 c, telefono 34 34 00, responsabile affari esteri de Il Paese.” 
Il dossier cecoslovacco numero 334 che sfogliamo oggi si occupava della politica estera italiana, aprendo un’inedita finestra sui dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana sulla Somalia. 
Tanti sono infatti gli spunti che si possono trarre dalle informative di questo giornalista, Sansone appunto, redatte tra il 1960 e il 1961. Si era alla vigilia dello scandalo delle banane, la prima grande inchiesta sulla corruzione politica in Italia, che scoppiò proprio per colpa del monopolio sull’importazione delle banane somale. Le aziende della vendita all’ingrosso vincevano l’appalto indovinando sempre il prezzo massimo previsto dal bando. Chissà perché. E il cittadino tirava fuori dalle sue tasche i soldi in più che finivano in tangenti e, vedremo dalle informative di Sansone, anche nel mantenimento di un sistema fascista di sfruttamento della manodopera locale. 
Come non credere a ciò che la spia cecoslovacca segnalava ai sovietici? E’ un fatto incontestabile che nel periodo del centrismo democristiano molto denaro pubblico, finanziamenti americani del piano Marshall inclusi, potesse misteriosamente sparire anziché servire per la ricostruzione del meridione, tanto per dirne una che avrete sentito. Ora però sappiamo qualche altro aneddoto, difficile da reperire sui libri o anche su internet, negli archivi dei quotidiani. Possiamo ricostruire gli ultimi spostamenti del presidente dell’ENI, Enrico Mattei, cogliere nuovi spunti di riflessione nell’apprendere che il dirigente marchigiano, perito tragicamente con il suo aereo a Bascapè, stava cercando pericolose alleanze politiche nella RAU, cioè tra gli egiziani, i nasseriani, facendo leva su amicizie pericolose fasciste, esponendosi alle lotte fratricide per l’egemonia politico-economica in Africa Orientale. Inoltre potremmo iniziare a chiederci se quel fiume di denaro pubblico italiano, che si perdeva nei meandri della burocrazia per sovvenzionare le gerarchie del capitalismo italiano in Somalia, fosse l’antenato di quei 1900 miliardi, ve li ricordate, che qualche decennio più tardi Craxi, Andreotti e il Pentapartito spedirono laggiù per aiutare i nostri fratelli (dittatori) africani. 
E chissà se la giornalista Ilaria Alpi conosceva tutte queste trame, se le sospettava, se qualche coetaneo di Vito Sansone le aveva parlato di questi forti legami economici con il nostro Paese, quando si recò in Somalia alla ricerca di scoop sui rifiuti tossici, esponendosi così a una morte prematura ed atroce. Al lettore l’ardua sentenza. 
Pubblichiamo l’intera nota informativa di Vito Sansone, aggiungendo qualche informazione sulla sua vita. Oltre a essere un caporedattore de Il Paese, fu un prestigioso inviato dell’Unità in Africa e nell’est europeo, in Polonia in particolare. Non sappiamo se ciò che leggerete dalle sue stesse parole sia stato mai pubblicato nei suoi articoli o nei suoi libri. Ci sembrava comunque giusto lasciare al suo stile impeccabile il racconto dei fasti, e dei nefasti, della Somalia italiana. Certamente non ci è piaciuto leggere le sue ricevute di pagamento, con tanto di firma autografa, nel dossier delle spie cecoslovacche. Non è un giornalismo realizzato e impacchettato per qualche ministero, estero in questo caso ma nemmeno italiano, quello che speravamo di intraprendere. E invece eccoci qui. Vito Sansone non fu il primo e non sarà certo l’ultimo. 


La Somalia e il mandato fiduciario italiano

Nel 1948 a Mogadiscio si verificavano luttuosi avvenimenti. Nel corso di scontri tra indigeni ed europei, che si trasformavano ben presto in una vera e propria caccia all’uomo, rimanevano uccisi 43 italiani e un numero imprecisato di somali. La carneficina si svolgeva sotto gli occhi di una commissione di studio inviata in Somalia dalle Nazioni Unite. 
Più tardi si seppe che i sanguinosi incidenti erano stati provocati dai capitalisti italiani locali, capeggiati da un certo Calzia, uomo di fiducia della Società Anonima Duca degli Abruzzi, in combutta, si dice, con gli inglesi. Scopo della provocazione, le cui gravissime conseguenze non erano state previste dagli organizzatori, era di dimostrare all’opinione pubblica mondiale che una volta rimasti soli, i somali avrebbero massacrato la popolazione europea. I responsabili degli eccidi non furono mai trovati, per cui si ritiene che almeno una parte di essi provenisse dalla Somalia britannica.
In questo modo si affermava la “necessità” della “presenza italiana” in Somalia, per la quale si batteva, a quel tempo, sul piano internazionale, il governo De Gasperi, sollecitato in tal senso dai maggiori interessati: da una parte il Banco di Roma e altri istituti legati al Vaticano, i quali hanno forti partecipazioni azionarie sia nella Società Duca degli Abruzzi sia nel monopolio delle banane, e dall’altra la burocrazia fascista del Ministero dell’Africa Italiana, la quale non era disposta a perdere le ricche prebende provenienti dalla loro attività coloniale del capitale locale e i corrispondenti interessi costituiti nella metropoli. 
Poco più di un anno dopo i fatti di Mogadiscio, il 21 novembre 1949, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, raccomandava che la Somalia ex italiana (in base all’art. 23 del trattato di pace firmato a Parigi nel 1947, l’Italia aveva rinunciato a tutti i suoi possedimenti africani) fosse costituita in Stato indipendente e sovrano, e che la sua indipendenza divenisse effettiva dopo un periodo di 10 anni di regime internazionale di tutela, e ciò allo scopo di sviluppare le condizioni economiche e sociali del territorio. Autorità incaricata dell’amministrazione fiduciaria veniva scelta l’Italia, assistita da un consiglio consultivo permanente formato dai rappresentanti dell’Egitto, della Colombia e delle Filippine. 
L’Assemblea generale dell’ONU accoglieva in questo modo, parzialmente, le insistenti richieste italiane tendenti ad ottenere un mandato senza limiti di tempo, nonostante la maggioranza dei somali fosse contraria a un ritorno italiano e chiedesse una amministrazione collettiva delle quattro grandi potenze: Stati Uniti, Unione Sovietica, Inghilterra e Francia. Senonché il timore che l’URSS mettesse piede in Africa, e il desiderio del governo di Washington di favorire le aspirazioni dei partiti conservatori italiani, impegnati nella lotta contro le forze socialiste, convinsero gli Occidentali ad appoggiare il punto di vista del governo De Gasperi, respingendo analoghe richieste riguardanti la Libia e l’Eritrea, ragioni che per gli americani e per gli inglesi presentavano un maggiore interesse strategico ed economico.
Il 2 dicembre 1950, l’Assemblea dell’ONU approvava un accordo di tutela con l’Italia, il quale raccomandava al governo di Roma: 1) di incoraggiare lo sviluppo di libere istituzioni politiche, favorendo in ogni modo l’evoluzione delle popolazioni del territorio verso l’indipendenza; 2) di procedere alla valorizzazione delle risorse naturali, stimolando lo sviluppo dell’agricoltura, del commercio, dell’industria; 3) di promuovere il progresso sociale della popolazione, proteggendo i diritti e le libertà fondamentali di tutti i suoi elementi, senza discriminazioni di razza o di religione. 
L’accettazione del mandato sollevò non poche critiche in Italia, persino in seno allo stesso governo. L’Italia, infatti, si assumeva una eredità disastrosa lasciata dal fascismo, senza esserne preparata. Sicché l’impegno si risolveva praticamente in pesanti sacrifici finanziari per la realizzazione di un programma assai arduo che prevedeva, in sostanza, il trapasso lento e faticoso della società somala, organizzata ancora su base tribale, da una economia pastorale a una economia mercantile. 
I motivi ufficiali con cui il governo De Gasperi giustificò la richiesta prima e l’accettazione dopo, di un onere così gravoso, furono allora i seguenti: salvaguardare gli interessi e gli investimenti italiani nel territorio: acquistarsi meriti particolari per facilitare l’ingresso dell’Italia all’ONU; inaugurare in Africa una politica nuova, di conquista dei mercati. A distanza di quasi un decennio, le ragioni reali della “presenza italiana” in Somalia appaiono molto meno nobili e, in definitiva, assai banali. Oltre ai motivi già ricordati, infatti (pressione del Banco di Roma e di altri istituti finanziari legati al Vaticano, combinate con quelle della burocrazia fascista, allineatasi pienamente con la Democrazia Cristiana), alla base dell’operazione fiduciaria si può individuare un calcolo che doveva rivelarsi erroneo, quando già era troppo tardi per correre ai ripari. Sia le autorità italiane, sia i capitalisti locali erano convinti che l’Italia dovesse rimanere in Somalia sine die, e che il termine di 10 anni assegnato dall’ONU per l’esecuzione del mandato dovesse perdere, col passare degli anni ogni valore prescrittivo. Le cose andarono per un altro verso e furono gli stessi americani a dire al governo italiano che non era il caso di farsi illusioni. 
Quali furono le conseguenze di questo calcolo sbagliato? Enormi e fortemente negative. Sino al 1954, difatti, l’Amministrazione Fiduciaria Italiana per la Somalia (AFIS) non fece praticamente nulla, né sul piano economico, né su quello sociale-politico. L’AFIS era stata affidata a un gruppo di cosiddetti “specialisti”, vecchi uomini dell’apparato coloniale fascista, i quali si rifacevano a metodi e a sistemi superati dalla evoluzione che, nei dieci anni che questi funzionari erano stati lontani dall’Africa, aveva subito la coscienza politica e sociale delle popolazioni somale, per effetto e in armonia con il risveglio dei popoli afro asiatici. 
Questo tipo di conduzione colonialistica, senza programmi e senza precisi obbiettivi, provocò un inutile spreco delle assai limitate somme stanziate dal governo italiano, che furono in parte spese male per incapacità amministrativa, e in parte intascate da funzionari disonesti e dai fiduciari del capitale italiano locale, che si dedicavano ad una attiva opera di corruzione degli attivisti politici indigeni, i quali avrebbero dovuto formare l’ossatura politico-amministrativa del futuro Stato indipendente. 
Una tale situazione, assolutamente negativa, si prolungò fino al 1954. E ciò nonostante i partiti somali avessero più volte segnalato al Consiglio di Tutela dell’ONU gli arbìtri, gli arresti illegali, le persecuzioni e le discriminazioni cui si erano abbandonate le autorità italiane, e malgrado si fosse avuta una energica protesta del rappresentante colombiano in seno al Consiglio consultivo permanente insediatosi a Mogadiscio. Più volte, è vero, la Segreteria generale dell’ONU intervenne più o meno apertamente per richiamare l’AFIS all’ordine, ma il risultato più apprezzabile in questa schermaglia sussurrata, fu che il governo di Roma riuscì a fare allontanare il “pericoloso” colombiano dal suo posto!
La maggiore opposizione in loco, le autorità colonialiste italiane la trovarono in quegli anni, nella formazione politica chiamata Lega dei Giovani Somali, che si era costituita tra il 1943 e il 1950, con un ardito programma di rinnovamento volto innanzitutto a trasformare la struttura sociale, basata primitivamente sulle tribù, in quella di una nazione moderna e indipendente. Questo partito era riuscito ad affermarsi anche per via di un equivoco di cui rimase vittima la diplomazia britannica. L’Inghilterra, che occupava in quel tempo la Somalia italiana, aveva creduto di scorgere negli indirizzi politici della Lega, una accentuata nota anti-italiana; reputò quindi opportuno coltivare e incoraggiare questa tendenza, nella speranza che essa portasse col tempo i “giovani somali” a chiedere il mandato britannico, realizzando così l’idea lungamente accarezzata da Londra, di un Somaliland (Somalia italiana e Somalia inglese uniti insieme), incorporato nel Commonwealth. Il disegno inglese, tuttavia, andò deluso dai “giovani somali”, i quali dimostrarono ben presto di perseguire obbiettivi molto più rispondenti agli interessi nazionali del loro popolo, cioè a dire sottrarsi a ogni forma di soggezione o di tutela indeterminata e puntare decisamente verso l’indipendenza del [parola incomprensibile]. [Q]uesto preciso impegno di lotta li portò, come abbiamo già visto, a chiedere un’amministrazione controllata dalle quattro grandi potenze. L’errore degli inglesi consistette nel fatto che essi non compresero che la politica della Lega era “anti-italiana” in quanto anti-colonialista.
Quando agli inizi del 1950 l’Italia subentrò agli occupanti britannici, le autorità nominate dal governo di Roma si posero lo obbiettivo di scompaginare le file della Lega dei Giovani Somali, e pensarono di poter raggiungere questo scopo alleandosi e corrompendo i partiti conservatori locali, il più importante dei quali è il “Lighil e Mirifle” (HDM), che per essere l’espressione di gruppi agricoli e di pastori arretrati, si oppone alla Lega, la quale rappresenta invece i ceti mercantili in sviluppo.
Durante il quinquennio 1950-54, la Lega si trovò dunque a combattere la battaglia dell’indipendenza contro un fronte unico formato dall’AFIS e dai partiti conservatori. La lotta, tuttavia, anche a causa dei limiti imposti dal regime fiduciario, che impediva alle forze politiche locali l’esplicazione di una politica estera corrispondente agli interessi nazionali somali, fu indirizzata tutta verso il conseguimento della libertà politica, trascurando la libertà economica, in mancanza della quale la prima non acquista un senso compiuto. L’AFIS, infatti, nonostante le ripetute raccomandazioni del Consiglio di Tutela dell’ONU, frustrava ogni tentativo di trasformare la struttura economica del Paese, mentre i somali si trovavano nella obbiettiva impossibilità di rivolgersi al credito finanziario di nazioni amiche.
Le autorità italiane e il capitale locale credevano di avere avuta partita vinta, quando il 28 marzo 1954 giunse inaspettata la vittoria della Lega nelle elezioni amministrative. Fu quella una grave sconfitta subita dall’AFIS, che mise in luce i metodi superati e sostanzialmente inefficienti applicati dai funzionari italiani. Palazzo Chigi corse ai ripari inviando sul posto un vecchio ed abile funzionario, il dottor Piero Franca, che sotto il regime fascista aveva fatto in Etiopia gran parte della sua carriera e che, rientrato in Italia aveva assimilato le nuove tecniche paternalistiche del neo-capitalismo e del neo-imperialismo, rivolte a perpetuare la dominazione occidentale nei grandi imperi coloniali. Franca Procedette a una rapida correzione della linea politica dell’AFIS, consistente in un avvicinamento del gruppo dirigente della Lega. L’operazione ebbe l’appoggio incondizionato del vescovo di Mogadiscio monsignor Filippini. 
Il compito [p]ostosi dal Franca fu essenzialmente quello di spostare l’asse politico della Lega dalla piattaforma neutralistica uscita dalla Conferenza di Bandung, a quella atlantica, cercando di convincere i dirigenti meno solidi dei “giovani somali” che se volevano davvero trasformare le strutture economiche del loro Paese, sarebbe stato necessario ottenere gli aiuti occidentali, e i capitalisti locali della convenienza di adeguarsi al movimento di idee nuove determinatosi in Asia e in Africa nel dopoguerra, che costituiva un comodo paravento dietro il quale avrebbero potuto esercitare in un clima tranquillo il loro potere economico, che è quello effettivo.
La nuova tattica adottata dall’AFIS provocò non pochi cedimenti tra i dirigenti della Lega, una involuzione di questa ultima verso forme di compromesso filo-occidentali e un considerevole spostamento a destra di tutta la politica del territorio. A determinare questa situazione contribuì non poco l’insufficiente preparazione e la mancanza di esperienza politica del quadro dirigente della Lega, portato ad accettare le soluzioni più facili senza preoccuparsi eccessivamente della prospettiva.
Bisogna prendere anche in considerazione il fatto che il dottor Franca aveva saputo alimentare le illusioni nazionalistiche dei somali, affiancando abilmente la sua opera di avvicinamento e di corruzione del gruppo dirigente della Lega, con la realizzazione graduale del passaggio dei poteri dalle autorità fiduciarie a quelle somale: amministrazione della giustizia, polizia, affari economici locali, riscossione dei diritti doganali ecc. Egli, in altri termini, seppe sfruttare l’inevitabile stato d’animo euforico che suscitava nei somali l’acquisizione della libertà politica.
Resta comunque il fatto che, nonostante le abili manipolazioni del Franca, le prospettive per i somali di acquistare accanto a quella politica anche la libertà economica, rappresenta a tutt’oggi un miraggio, e che questo compito non potrà mai essere portato a termine dalla Italia, la quale è venuta così meno ai precisi impegni assunti di fronte alla collettività internazionale.
Sono molti coloro che adesso in Italia, in seno alla stessa maggioranza, ritengono che l’accettazione del mandato sia stato un errore e che comunque, una volta accettatolo si doveva compiere uno sforzo adeguato agli impegni presi. Svanita già da lungo tempo ogni speranza di rimanere in Somalia a tempo indefinito, il governo di Roma si è preoccupato delle ripercussioni negative che il fallimento del mandato fiduciario potrebbe avere sul prestigio italiano, per cui si è affrettato ad assicurare l’ONU che l’Italia continuerà a prestare assistenza anche oltre il 1960. D’altra parte, non più di quattro mesi fa, durante un lungo soggiorno a Roma, il ministro dell’economia somala si è incontrato con il presidente dell’ENI, ingegner Enrico Mattei, al quale ha esposto i pericoli cui si troverebbe esposta la Somalia nel caso in cui il governo italiano dovesse tradurre in pratica il suo progetto di abbandonare al suo destino il capitale italiano locale, abolendo il regime protezionistico di cui beneficiano attualmente i prodotti del monopolio bananiero, degli zuccherifici della Società Duca degli Abruzzi e di altre imprese italiane che operano in Somalia. Il ministro somalo ha fatto presente a Mattei che un passo del genere significherebbe la fine poiché il governo di Mogadiscio ricava quasi tutte le sue entrate dai dazi doganali imposti a tali prodotti. Senza dire che gli zuccherifici rappresentano l’unica attrezzatura industriale esistente nel territorio. “Se abolite le barriere protezionistiche - ha concluso il ministro somalo - in Somalia si sfascia tutto e il giorno dopo i comunisti avranno il sopravvento.”


Il 29 febbraio 1956 si svolsero in Somalia le elezioni politiche, che furono ancora una volta vinte dalla Lega dei Giovani Somali, la quale conquistò la maggioranza assoluta e formò di conseguenza il governo presieduto ancora oggi da Abdullahi [incomprensibile]. La prima assemblea somala risultò così composta: 43 deputati alla Lega; 13 al “HDM”, partito di opposizione capeggiato da Abdul Kadr Muhammad Adam; 3 al partito democratico somalo; 1 all’Unione Marrehan, partitino filo-occidentale. Insieme ai 60 deputati somali siedono all’Assemblea 4 deputati italiani, 4 arabi, 2 indo-pakistani. In seguito al passaggio dei poteri al governo somalo sono rimasti di pertinenza dell’AFIS soltanto i due dipartimenti degli Affari Esteri e della Difesa, che verranno trasferiti in mani somale dopo le elezioni politiche fissate per il prossimo marzo.
L’avvenire democratico della Somalia si presenta, però, piuttosto oscuro. La Lega è praticamente scissa in due tronconi, di cui quello governativo persegue una politica filo-occidentale staccandosi sempre più dalle posizioni neutralistiche fissate nei principi di Bandung, mentre quello che si trova adesso all’opposizione, segue la linea nasseriana ed è soggetto perciò ad ogni sorta di persecuzione. La corruzione esercitata dal capitale italiano locale, d’altra parte, si è caratterizzata nel trasferimento di titoli azionari e di cointeressenze di alcuni dirigenti governativi, dilagando anche nelle file dei sindacati, per cui gli scioperi e le lotte salariali si sono rarefatti appiattendo vieppiù la vita politica e frenando lo sviluppo democratico del Paese. 
Sintetizzando le osservazioni fatte sin qui, si può affermare che a poco più di un anno dalla scadenza del mandato fiduciario, il bilancio dell’AFIS rispetto ai compiti a lei assegnati dalle Nazioni Unite è quasi del tutto fallimentare, non essendo stati realizzati i compiti economici preminenti e fondamentali rispetto a quelli di altra natura. Uno sguardo rapidissimo ai bilanci dell’AFIS, del resto, ci conferma nella convinzione che il governo italiano, durante tutti questi anni, non si è mai posto seriamente i compiti assegnatigli dall’ONU, preoccupandosi, in compenso, di conquistare la Somalia all’atlantismo e danneggiando quindi il movimento di liberazione dei popoli arabi ed africani, dei quali Fanfani si dichiara amico.
Le cifre dimostrano innanzitutto che non è vero che l’Italia abbia regalato miliardi ai somali, poiché quasi tutte le somme che costituiscono il contributo italiano (circa 70 miliardi di lire sinora) sono state spese per pagare i funzionari dell’AFIS e per sostenere gli oneri derivanti dal funzionamento dei servizi nel territorio. Ciò risulta tra l’altro da una relazione segreta e molto critica preparata da un funzionario della Corte dei Conti, la quale osserva che il bilancio del territorio, secondo le previsioni per l’anno 1956 presentava la seguente struttura: entrate effettive del territorio somali (un somalo circa 87 lire) 35.403.500; entità straordinarie a copertura del disavanzo, somali 32.516.732-totale: somali 67.720.232; spese effettive ordinarie di parte civile: somali 59.939.175; spese effettive ordinarie di parte militare (corpo di polizia somala) somali: 9.220.000; spese effettive straordinarie: somali 1.761.057 (investimenti e lavori pubblici)-totale: somali 67.920.232.
La relazione poneva in rilievo come le spese per il personale a carico del bilancio ammontassero a somali 37.933.376, vale a dire all’55,35% del totale delle spese effettive. Fatti questi rilievi, la relazione segreta affermava testualmente: “Tale incidenza - eccessiva per qualsiasi pubblica amministrazione - risulta tanto più negativa per un paese come la Somalia in via di formazione e di sviluppo, e costituisce un grave ostacolo per il suo rapido sviluppo”.
Il bilancio statale somalo, tuttavia, è aumentato negli ultimi due anni di circa dieci milioni di somali all’anno, sia perché è stato mantenuto il regime protezionistico per i principali prodotti (a spese del consumatore italiano), sia perché è stata abolita la esenzione dal pagamento delle tasse di cui beneficiavano i capitalisti italiani locali. Esiste inoltre un piano di sviluppo della Somalia per il periodo 1954-60 per somali 124.281.142 comprensivi anche di alcuni interventi americani, dai quali, però, bisogna sottrarre 28 milioni circa di somali costituiti da investimenti privati e destinati ad operare nell’ambito del capitale italiano locale, per cui rimangono 96.081.142 di somali, pari a poco più di otto miliardi di lire in sette anni, per trasformare l’economia somala. Si tratta, non c’è bisogno di rilevarlo, di una somma assolutamente insufficiente.
Qualche risultato, invece, ha conseguito l’AFIS nel campo della pubblica istruzione, portando la popolazione scolastica da poche centinaia di unità al 2,3% dell’intera popolazione. 


Sulla Somalia convergono differenti interessi politici e strategici, dando luogo a un complicato intreccio di relazioni politiche sia sul piano interno, sia sul piano internazionale. Preminenti sono, nell’ordine, gli interessi americani, inglesi, etiopici, italiani ed egiziani.
L’Etiopia vorrebbe fagocitare la Somalia e finanzia a questo scopo il partito liberale somalo diretto da Haggi Burraco, e alcuni dirigenti dell’”HDM”. Gli Stati Uniti, che sono legati al governo di Addis Abeba politicamente e militarmente attraverso le basi americane in Eritrea, in un primo tempo appoggiavano la tesi etiopica, ma in seguito ripiegarono sulle posizioni del capitalismo fondiario italiano in Somalia, che postulano adesso un territorio indipendente in cui gli italiani assolverebbero alle funzioni di gendarme. Il ripiegamento di Washington si spiega con il fatto che gli americani hanno trovato ricchi giacimenti di petrolio in Migiurtinia, la regione somala più arretrata, che controllano al solo scopo di impedire la estrazione del prezioso liquido. Essi si urtano tuttavia con l’ENI, altro grande concessionario, il quale ha invece intenzione di avviare un’intensa produzione dei propri pozzi.
Il dipartimento di Stato americano, secondo voci attendibili, ha trovato il suo uomo di punta nel primo ministro somalo Abdullahi Issa. Per questo motivo, Mattei è stato costretto a cercare l’appoggio della RAU, con esito che appare molto incerto. Uomo della RAU, ma non di Mattei, è a Mogadiscio Haggi Mohammad Husein che alcuni mesi fa è stato fatto imprigionare dal primo ministro ed è stato rilasciato dopo alcune settimane di detenzione.
La tesi britannica si rifà sempre all’idea di una Somalia unita al Somaliland incorporato nel Commonwaelth. Questa idea, combattuta dai dirigenti governativi somali, si fa strada ora tra alcuni gruppi di opposizione della Lega, e non è da escludersi che venga sostenuta come rischio calcolato e scelta del male minore, di fronte alla invadenza americana. Tra l’altro la lotta tra Londra e Washington per il controllo delle basi strategiche del petrolio, è ai ferri corti, e l’Inghilterra compirà ogni sforzo per raggiungere un risultato a lei favorevole.
I francesi per timore che possa sorgere un dominion britannico ai loro confini sono favorevoli alla tesi etiopica. La RAU, infine, è per l’indipendenza della Somalia.


Gli uffici italiani dell’AFIS sono attualmente in via di smobilitazione, avendo adempiuto, nel modo che si è visto, al loro compito. Due uomini, tuttavia, sembrano destinati, su richiesta degli stessi leaders somali interessati, a rimanere sul posto dopo il 1960 o comunque ad avere una parte di numi protettori. Essi sono il dottor Gasparri, uomo di indubbie capacità, che tiene i legami con l’ONU, e il dottor Franca, che ultimamente è stato combattuto dal Gasparri, entrato nel giuoco di Mattei (mentre l’altro è un uomo dell’on. Dominedè). Franca è stato segretario dell’AFIS fino a qualche anno fa; ha chiesto quindi di diventare amministratore generale con il rango di ambasciatore, ma il “terremoto” di Palazzo Chigi, al quale non è stato estraneo Mattei, ha reso vane queste sue aspirazioni. Egli si è dimesso dalla carica di segretario, ma rimane nel giuoco, in attesa di tempi più propizi.


Un problema che rimarrà probabilmente in sospeso ancora per molto tempo, è quello della definizione dei confini somalo-etiopici a valle dell’altipiano etiopico. Il governo di Addis Abeba, attuando una tattica dilazionatrice, si rifiuta di trattare con il governo di Roma, ciò evidentemente perché conta di tenere in mano una carta assai pericolosa costituita dal fatto che, essendo le sorgenti dei grandi fiumi somali compresi nel proprio territorio, è in grado di inquinare o addirittura di inquinarne le acque, tra le pochissime di cui dispone la Somalia.


Per finire crediamo sia utile allegare un elenco delle persone che rappresentano il capitale italiano locale e di cui le autorità italiane si sono servite per gli scopi già illustrati.
- Commendatore Boero, ex gerarca fascista, interessato alle saline locali, alle compagnie di trasporti e alla LAI.
- Avvocato Quaglia, ex agente dell’OVRA, spia nell’affare Zaniboni, esiliato in Somalia da Mussolini perché pretendeva troppo per i suoi servigi. E’ legale delle concessionarie delle piantagioni di banane, capo della deputazione italiana in seno all’Asse [parola incomprensibile] somala e uno dei principali consiglieri dell’AFIS.
- Commendatore Buffo, latifondista bananiero.
- Monsignor Filippini, vescovo di Mogadiscio. Il vescovado è proprietario della più grossa conceria della Somalia, nonché di una industria artigiana del legno, nella quale viene sfruttato il lavoro di centinaia di trovatelli meticci.


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